Storia di una festa scudetto (la quarta)

Due pullman scoperti tra la folla, la coppa da esibire, tre km a passo d’uomo sul lungomare. Come di solito fa il Real Madrid. Ma senza lungomare. È il rito canonico, comune, ordinario e ordinato; il rito ben disciplinato di chi si è abituato a vincere nel calcio. Se è vero che due scudetti in tre anni sono un bottino da altre latitudini, Napoli e il Napoli hanno scelto di festeggiare in piena coerenza: come si fa nelle capitali della gloria. La prima volta invece quasi non si sapeva come uscirne. Roger Federer ha raccontato che alla premiazione del primo Wimbledon, davanti alla famiglia reale, non sapeva dove mettere le mani. Non aveva nemmeno le tasche. Ecco: per il primo scudetto del 1987 a Napoli fu un po’ così. Nessuno aveva mai creduto che potesse succedere davvero. La città in quei giorni non aveva neppure un sindaco: il Comune era commissariato. I vecchi avevano preso col tempo a dire che meglio di no, meglio che lo scudetto non accada mai, altrimenti se ne cade la città, chissà cosa può succedere: il finimondo. Così quando accadde per davvero, ci fu un certo sconcerto sui giornali nel raccontare che non era successo niente, se non una straordinaria gioia collettiva, senza freni, ma al lunedì mattina tutti erano andati a lavorare regolarmente. Addirittura nessuno - la domenica pomeriggio - aveva invaso il campo: Maradona aveva lanciato un appello mostrando di conoscere quali corde toccare. “Non facciamo brutta figura”, aveva detto ai napoletani, e quelli con il loro orgoglio smisurato avevano obbedito. La festa fu spontanea e irregolare. È rimasto celebre lo striscione che spuntò al cimitero, una frase rivolta ai morti: “Che vi siete persi”. Il giorno dopo, una mano anonima aggiunse a nome di tutti dall’oltretomba una replica con la vernice: “E chi ve l’ha detto”. Dinanzi a tanta fantasia, gli inviati venuti da tutto il mondo a raccontare la gioia dell’Altrove cercarono di essere all’altezza. Chi raccontò di una sfilata di ciucci fino alla sommità del Vesuvio, chi disse che i napoletani avrebbero calato dei candelotti azzurri dentro il vulcano per veder uscire un fumo azzurro. Molti ci credettero, uscirono di casa per andare ad affacciarsi e le strade si paralizzarono per niente. Sembrarono le prove di un giudizio universale, la scena di quel film di De Sica. La squadra, come si usava al tempo, passò invece una domenica in Rai a farsi intervistare. Gianni Minà mise in piedi un programma di canzoni e risate, dal quale spiccò un memorabile intervento di Massimo Troisi: finse di essere l’unico all’oscuro del Grande Evento e s’inventò di voler essere l’amante della moglie di Renica per sentirsi dire: “Sai caro, mio marito mi ha detto che Maradona gli ha detto…”. Quando il Grande Evento si ripeté tre anni dopo, Napoli e il Napoli si tennero il muso come una coppia stanca di tradimenti. Lo scudetto era arrivato alla fine di sorpassi e controsorpassi con il Milan, in coda a una serie di partite vinte a fatica, sgraffignate da una squadra stanca, con un Maradona che aveva la testa ai Mondiali. Più di una volta il Napoli era uscito dal San Paolo tra i fischi: la folla non aveva ancora superato il trauma dello scudetto perso due anni prima nello scontro diretto con Sacchi alla terzultima giornata. Così quando ci fu da festeggiare, forse simbolicamente o forse freudianamente, il Napoli mise un golfo di distanza fra sé e il popolo: i calciatori si imbarcarono a bordo di una nave, la Angelina Lauro, e fecero bisboccia al largo, lontano da tutto e tutti, guardando dal buio del mare le luci della città che non ne voleva sapere di andare a dormire. Il terzo scudetto di due anni fa, il primo dell’era De Laurentiis, non poteva non essere una specie di kolossal locale, uno show identitario, una parata di attori, attrici, comici, chiusa da un’esibizione di Liberato, il cantante con la maschera che mise tutti i calciatori della rosa - nome cognome e numero di maglia - dentro la sua nuova canzone, ‘O core nun tene padrone. Due anni dopo, Liberato è appena uscito con un nuovo disco che profeticamente si chiama Viennarì. Significa Venerdi: come la sera della partita del quarto scudetto. La prima festa fu istituzionale, la seconda ribelle, la terza folk. Stavolta è normale, come normale viene descritto lo scudetto. Non ci sono ciucci che sfilano né candelotti da infilare nel cratere del Vesuvio, ci sono due banalissimi pullman scoperti che sfilano su via Caracciolo. Come fanno a Madrid. Dove però non hanno il mare.

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Storia di una festa scudetto (la quarta)

Lavinia Esposito