Pellegrini, l'Inter dei record e Ruben...

“Gian Piero, hai sentito? Il nostro cuoco ha comprato l’Inter”. Anche se in linea con la proverbiale ironia dell’avvocato, la presunta frase di Gianni Agnelli rivolta a Boniperti non fu mai pronunciata. Bastava però per rendere la situazione del calcio italiano quando Ernesto Pellegrini, imprenditore nel ramo delle mense aziendali, acquistò il club nerazzurro. Era la metà degli anni ’80 e come solito dominava la Juventus, ma sarebbe arrivata presto l’epopea del Milan degli olandesi e del Napoli di Maradona. L’Inter sembrava aver perso posizioni, e Pellegrini non appariva una garanzia di risalita. In realtà Pellegrini non era certo un cuoco, perlomeno non direttamente, e semmai l’azienda che aveva creato con il suo nome era la dimostrazione della genialità di quegli uomini che resero ricca l’Italia uscita in macerie dalla Seconda guerra mondiale. La storia avrebbe reso giustizia a questo milanese silenzioso nato nella periferia del quartiere Moserchio, da una famiglia dignitosa, ma certo non ricca: i suoi genitori sono ortolani, e i soldi bastano a farlo studiare sino al diploma di ragioniere. Diventa contabile alla Bianchi, ma non osserva solo i conti, e nell’Italia del boom economico nota ritmi di lavoro sempre più incessante, capendo le necessità di operai, impiegati e dipendenti: si può far risparmiare loro tempo e denaro assicurando e facendo consumare i pasti direttamente in azienda. A venticinque anni fonda la 'Mense Pellegrini', capace oggi di impiegare oltre 10.000 dipendenti fatturando 800 milioni all’anno. Non ama le luci della ribalta, e per questo, oltre i confini del mondo imprenditoriale, è quasi sconosciuto quando nel dicembre 1984 rileva l’Inter da uno stanco Ivanoe Fraizzoli. Il primo colpo è quello di Karl-Heinz 'Kalle' Rummenigge, e i tedeschi saranno la stella polare della sua gestione: Lothar Matthäus, Andy Brehme, Jurgen Klinsmann, disciplinati tatticamente da uno che in panchina è il gemello di Pellegrini, 'il' Giovanni Trapattoni, che è milanese come lui, lavoratore come lui, pratico come lui. È il periodo d’oro del campionato italiano, quello a cavallo tra gli anni ’80 e i ’90, e la Serie A è la Premier League dell’epoca: il Milan di Berlusconi, le magie di Maradona a Napoli, il miracolo del Verona di Bagnoli, la fiaba della Sampdoria di Mantovani. L’Inter di Pellegrini trova spazio quando Trapattoni fonde perfettamente l’anima tedesca con quella argentina di Ramon Diaz, il gruppo dei ragazzi del vivaio, Walter Zenga, Beppe Bergomi, Riccardo Ferri, insieme al talento di Nicola Berti e le reti di Aldo Serena. Arriva uno scudetto a ritmi di record, l’unico negli undici anni di presidenza Pellegrini, a cui vanno aggiunte anche due Coppa Uefa: non eccezionale, ma vista la concorrenza neppure poco. Quando cede la proprietà a Massimo Moratti lo fa con stile e garbo, il marchio di fabbrica dell’uomo che non ha mai cercato le luci della ribalta. Lasciato il calcio, tra le altre cose, continuò ad occuparsi di solidarietà: quando era bambino, nel suo quartiere, ricordava un senza tetto che era morto di stenti. Si chiamava Ruben, e così decise di aprire un ristorante con quel nome dove ai poveri, con un solo euro di spesa, viene assicurato un pasto, un’iniziativa che da sola vale più di qualunque scudetto. Si dice che il bene si fa e non si racconta, e a resistere alla tentazione sono solo le persone per bene. Quelle come Ernesto Pellegrini, marchio di fabbrica del galantuomo.

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Nicola Roggero