Il no a Spalletti, il buco sulla scarpa: le verità di Acerbi

La malattia, la notte con il Barcellona. Due momenti molto diversi ma molto importanti della tua vita. Nel tuo libro 'Io, Guerriero', li hai collegati. Quando alzi le braccia al cielo prima della partita c'è dentro un po' di tutto. "Dopo la mia malattia c'è stata una rinascita calcistica. Non è stato un periodo facile. Da lì ho iniziato un percorso personale: cerco di giocare a calcio il più possibile e di togliermi più soddisfazioni possibili. La serata con il Barcellona, anche se poi non abbiamo vinto niente, in questo senso forse è stata la più bella della mia carriera". Con la malattia hai saputo guardarti dentro, individuare i tuoi problemi e risolverli, senza trovare alibi all'esterno. Ti è forse servito per fare il definitivo salto di qualità? "Il concetto è quello. Quando sono guarito è venuto tutto naturale, senza impegno. Capisci che sono cose più forti di te, vanno accettate, e da lì in poi la strada è in discesa. Ti senti dentro la motivazione per raggiungere degli obiettivi ogni giorno, personali e di squadra. Senza alibi, perché sono le scuse a portarti in un vortice negativo". Come nasce l'azione del gol al Barcellona? Il pubblico era rassegnato quella sera. Tu sei stato l'unico a non arrenderti. È vero che hai detto a Darmian di stare dietro perché saresti salito in attacco? "Non me lo ricordo ma se lo ha detto Matteo deve essere vero . Ricordo invece che dopo il gol di Raphinha non ero arrabbiato. Perché eravamo sì 2 a 0, ma non era una di quelle partite che hai in pugno dal momento che loro sono fortissimi. Ho pensato: "Vado su". Poco cambiava che finisse 3-2 o 4-2, saremmo stati comunque eliminati. Quando Dumfries ha messo la palla in mezzo mi sono buttato, ci dovevo essere. L'emozione lì sul momento non l'ho vissuta, perché c'erano ancora tutti i supplementari da giocare e avremmo potuto comunque uscire. Nei giorni successivi invece ho realizzato quanto sia stata una serata indimenticabile". La tua scarpa con un buco è diventata virale. Come hai fatto ad arrivare in finale di Champions con uno scarpino in quello stato? "C'è una spiegazione a tutto. Per i pestoni mi si era annerita l'unghia dell'alluce. A contatto con la scarpa mi provocava dolore e mi faceva correre male. Per non rischiare infortuni ho provato con questo metodo e mi sono trovato bene. Da lì l'ho portata avanti, ma lo facevo da novembre. Anche perché io sono difficile con gli scarpini, quando mi trovo bene faccio fatica a cambiarli. Mi importa poco se sono rovinati". Lo scarpino in quel modo fa molto calcio 'di provincia', un aspetto che tratti nel tuo libro. Racconti tutta la parte delle tue radici, dei campetti dei paesini e delle partite con gli amici. Hai portato un po' della provincia in una finale di Champions. "Sono di una generazione vecchio stampo. Giocavamo a qualsiasi ora, con qualsiasi clima, in qualsiasi campo. Quando passo nei paesini e vedo i riflettori dei campi di allenamento ancora oggi mi emoziono: ricordo il mio passato, il freddo, i prati rovinati. Sono cresciuto con il calcio in strada, quando si andava a giocare con gli amici anche dopo la partita della domenica. Lo scarpino bucato per certi versi un po' me lo ricorda". La tua storia insegna che sei sempre stato un guerriero. Ma non si può vincere sempre. Nel libro parli anche di cadute e di risalite. Che messaggio vuoi che passi di te? "Non sempre si può vincere, ma il lavoro paga. Questo è il messaggio. Ho capito che con la fatica, con la sofferenza, anche se ci vuole del tempo, si possono raggiungere gli obiettivi. Magari le cose non andranno sempre nella maniera migliore, però dando il 100% puoi trovare la tua strada e toglierti delle soddisfazioni. Dopo la malattia mi sono detto che non avrei voluto avere rimpianti a fine carriera, per i bilanci ci sarà tempo. Fino ad allora darò tutto, sempre". Allegri, Simone Inzaghi, Di Francesco, chi ti ha trattato meglio come giocatore e come uomo? "Con Allegri ho lavorato solo sei mesi, ma in quel Milan mentalmente non ero pronto. Con Di Francesco e anche Iachini, che fa morire dal ridere, mi sono trovato benissimo. È stato con lui che per la prima volta ho fatto il centrale in una difesa a 3. E poi con Inzaghi ho lavorato addirittura sette anni, ci siamo tolti delle bellissime soddisfazioni. Tutti loro mi hanno insegnato qualcosa, a livello tecnico e anche a livello umano". Hai esordito in Champions con il Milan, a Malaga, in una sconfitta. Però sei arrivato addirittura a giocare due finali: un percorso bellissimo. Nella seconda cosa, quella contro il Psg, cosa è successo? Nella rifinitura del giorno precedente sembrava che il clima fosse cambiato. "Difficile da dire. In quei giorni c'era stanchezza mentale. Dopo la sfida con il Barcellona, con il campionato ancora in ballo. Qualcuno diceva anche fossimo i favoriti, caricandoci di pressione. Con il Psg siamo arrivati un po' scarichi. Loro poi hanno trovato la partita perfetta, senza giocare al 100% contro un avversario così è durissima. La sconfitta è stata giusta. Al triplice fischio non eravamo nemmeno arrabbiati con noi stessi, perché di fatto era finita poco dopo l'inizio". Capitolo Nazionale. Ne parli anche nel libro. Sei sempre stato uno che ama la maglia azzurra. Che è successo? "Non voglio fare della polemica, anche perché non è nemmeno giusto andare avanti con questa storia. Ho solo raccontato quello che è successo. Ho fatto il possibile per andare all'Europeo, nonostante un infortunio e un'operazione, ma non sono stato chiamato. Ci sta, non mi aspetto niente da nessuno, il Ct è pagato per fare delle scelte. Però poi ci sono state delle dichiarazioni pubbliche, legate all'età, che non sono state bellissime. Dopo un mezzo chiarimento mi ha ricontattato per giocare contro la Norvegia, ma solo per via di alcuni infortuni in difesa. Una partita e poi basta, sarei tornato a casa. Non mi sono sentito apprezzato, mi ha fatto sentire come se fossi l'unico a disposizione in quel momento, non come se potessi essere davvero utile. Dopo tutto quello che era stato detto". Ci andiamo al Mondiale? "Ci spero. Sarebbe il terzo di fila, non è una cosa normale. I giocatori sono forti, Gattuso è uno che mette grinta e passione. Abbiamo una grandissima possibilità di farcela. Io vivo per il calcio. Ci tengo tantissimo, è secondo solo alla mia famiglia. Lo ribadisco, finché gioco, se ne ho modo, sono pronto per la nazionale. Mister Gattuso è il Ct, sarà lui a decidere. Se decidesse di chiamarmi, risponderei volentieri, altrimenti vado avanti per la mia strada senza alcun problema. Come ho sempre fatto". Non è facile ripartire dopo la sconfitta in Champions. L'Inter però è una squadra con dei valori forti. Cosa è cambiato con Chivu? Il problema è più mentale che tecnico? "Lo shock della finale è passato. Siamo grandi e vaccinati. Abbiamo avuto qualche mese per pensarci e assimilarlo. Si riparte con la nuova stagione, bisogna resettare e ripartire. Mister Chivu si vede che ha giocato con gruppi forti e vinto tanto: è preparato ma allo stesso tempo molto diverso da Inzaghi. Ottima persona e ottime idee. Mi ha stupito positivamente". Sotto quali aspetti? "Perché ci conosce: sa cosa significa vincere e cosa significa perdere, perché è stato giocatore fino a poco tempo fa, perché ha condiviso il campo con dei campioni. Sa cosa pensiamo, sa cosa vuol dire entrare in un gruppo rodato che ha fatto cose importanti in questi anni. Si vede che è un allenatore intelligente". Ci spieghi il soprannome 'leone'? E perché i tatuaggi di Madascar? "Il soprannome è nato ai tempi del Pavia. Mi chiamavano 'leone' ed è rimasto. Anche perché è un animale che mi piace, ho visto tanti documentari sull'argomento. Mi fa piacere, anche perché si sposa con la mia storia: sono uno che ha lottato e che non ha mollato per essere qui oggi. I tatuaggi invece li ho fatti un po' a caso, non c'è un motivo particolare. Mi piacevano". Nel libro emerge, importantissima, la figura di tuo papà. "Le persone vivono dentro di te anche se sono lontane", lo hai voluto omaggiare così. Sarebbe fiero di te. "Sì, lo credo anche io".

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Il no a Spalletti, il buco sulla scarpa: le verità di Acerbi

Redazione Sky Sport