La storia del frate al servizio del 'Diavolo' (milanista)

Negli anni ’60 Milano non era solo una grande metropoli che correva dietro al boom economico, a moderni piani di trasformazione urbanistica e viaria, a modelli culturali d’importazione che si mescolavano alla forza straripante dei pionieri del cantautorato meneghino. Non era solo la città che accoglieva i meridionali spaesati alla Stazione Centrale, con le loro valigie di cartone tenute bloccate da vecchi rotoli di spaghi sfilacciati, che si stranivano all’ombra dell’ingombrante e maestoso Pirellone. Milano era anche la camera di combustione di un fenomeno inquietante che per un ventennio abbondante avrebbe costituito negli anni a venire una vera e propria piaga sociale, segnando l’inizio dell’era della ‘droga dura’, introdotta con gli acidi, con la mescalina e con l’LSD e poi - attraverso stili di vita curiosi e forse troppo alternativi - sarebbe degenerata in una vera e propria devastazione letale, sfociando nell’ampia diffusione dell’eroina fra la popolazione più giovane. Quando la grande metropoli cominciò a faticare a stare dietro alla conta dei morti, un frate di Bisentrate, una frazione di Pozzuolo Martesana, si domandò se non fosse il caso di agire prima ancora che predicare. Era un frate diverso dagli altri, un francescano che sotto al saio indossava stivaletti con il tacco alto e girocollo blu e riparava gli occhi dal sole con un bel paio di occhiali a lente quadrata Ray-Ban, he definiva un comodo vezzo. Si chiamava Angelo Gelmini. Ed era fratello minore di un altro ecclesiastico, Pierino. Il secondo continuò a farsi chiamare don Pierino, lui invece preferì ribattezzarsi frate Eligio e una volta diventato frate del Convento di Sant’Angelo, in zona Moscova a Milano - oggi chiuso, ne aprì le porte fondando nel 1964 il “Telefono Amico”: ben cinque linee che poi dirottò in un appartamento di via Copernico, dove a turno dei giovani francescani rispondevano notte e giorno a chi aveva bisogno di parlare, sfogarsi, ricevere una parola di conforto. Ogni telefonata veniva trascritta su un apposito registro che frate Eligio chiamava la sua ‘banca dell’amore e mappa della solitudine’. Con quella rete di sostegno i francescani evitarono suicidi e salvarono giovani. E la popolarità di frate Eligio iniziò a crescere. Una popolarità che nel 1965 lo portò a entrare nel mondo del calcio, lui che usava ripetere sempre che "il pallone non è un problema del Signore". Fu Andrea Rizzoli, allora presidente rossonero, a volerlo come guida spirituale dei giovani calciatori. E proprio in quell'ambiente nacque una grande amicizia con Gianni Rivera. Essere parte dei rossoneri gli diede più visibilità e questo favorì i rapporti con persone facoltose e anche un ampliamento della rete di contributori alle sue iniziative. Raccolse senza difficoltà, perciò, fondi sufficienti per dare vita alla sua prima comunità, in provincia di Siena. Quando si trattò di andare a visitare dei ruderi di quello che - ristrutturato - sarebbe diventato in seguito il suo visionario ‘Mondo X’, decise di andarci con Rivera e con il patròn Nereo Rocco. Rocco, che era uomo schietto e di origini popolari, non gliela mandò a dire: "Padre Eligio, ma questo xè un mucio de sassi". E lui, di rimando, rispose seraficamente… "sì, ma presto non li vedrai più…". E infatti a Cetona nacque un’opera che già allora frate Eligio vedeva compiuta. E alla quale i tossicodipendenti si sarebbero presto rivolti a frotte, senza bisogno che nessuno li chiamasse. Quando non ne potevano più di fare quella vita, bussavano e veniva loro aperto. Che era un po’ anche il metodo che frate Eligio, intanto diventato per tutti Padre Eligio, utilizzava al Milan con i giocatori di calcio. Lui non li cercava, ma aspettava paziente che fossero loro ad avere bisogno di lui. Padre Eligio diceva cose che nessuno aveva il coraggio di dire. Non forzava nessuno, era cappellano e amico, era frate e uomo, sapeva distinguere a colpo d’occhio chi aveva di fronte, dava ottimi consigli a tutti e incuteva una certa soggezione. Anche perché - intanto, nel corso del tempo - con il crescere della sua popolarità aumentava anche il suo giro di interessi. Non è un peccato né una mancanza di rispetto dire che Padre Eligio si piacesse molto e amasse essere al centro dell’attenzione. Una volta ebbe a dire "sono più io sui rotocalchi che la Gina Lollobrigida…". Ma lo diceva con un certo compiacimento, sorridendo. Era colto, generoso, intelligente e aveva capito con mezzo secolo d’anticipo che a Milano stare sotto la luce dei riflettori funziona. Anche se indossi la veste francescana. Non ebbe quindi difficoltà a ottenere in comodato d’uso un castello. Era il castello di Cozzo di Lomellina. Dove sotto la sua gestione aprì anche un ristorante raffinatissimo che ospitò matrimoni e rinfreschi di lusso. Il frate degli ultimi aveva capito che qualcosa in cambio, a tutti i vip che gli consentivano con aiuti economici di fondare comunità di recupero e centri di aiuto, bisognava pur darla. E in effetti negli anni le comunità di Peligio, altro appellativo guadagnato sul campo, si moltiplicarono: non solo Cozzo Pavese e Cetona nel Senese, ma poi l'isola di Formica alle Egadi, fino al monte Tabor in Israele. Ma Padre Eligio forse un po’ la mano se la fece prendere nel gestire il suo quotidiano rapporto tra Vangelo e denaro. Lo fotografavano allo stadio ma pure mentre beveva champagne, mentre passeggiava con giovani calciatori e mentre frequentava locali notturni baciava sulla guancia belle signore. Tutto funzionale al suo disegno. Ma forse un po’ meno funzionale furono le auto di lusso, come le Jaguar o le Mercedes con autista. E le amicizie alla luce del sole con i politici potenti. Fatto sta che i soprannomi si moltiplicarono sulle labbra del popolo. E l’uomo vicino agli ultimi diventò in un amen da ‘fratel dribbling’ un meno calcistico e francescano ‘frate night’ o ‘don Perignon’. E nel 1976 venne arrestato dai carabinieri con l’accusa di truffa, insieme al fratello don Pierino. Padre Eligio restò in carcere un mese, poi uscì e nove anni dopo - a differenza del fratello - venne prosciolto con formula piena da ogni accusa. Ma intanto si era ritirato a Formica, continuando a lavorare al servizio degli ultimi e dei più deboli e senza mai interrompere i contatti con il fraterno amico Rivera del quale, a Cetona, celererà il matrimonio con Laura Marconi nel 1987. Perché all’innocenza di Padre Eligio, il 'Golden-boy' Gianni Rivera aveva sempre creduto. Perché quel frate che ai carabinieri che lo arrestarono aveva detto "andiamo sono pronto", indossava il maglione a girocollo blu e i mocassini. E non aveva nulla a che vedere con il gossip, ma tanto a che vedere, invece, con le venti comunità fondate in giro per l’Italia per dare una mano a recuperare tossicodipendenti e ragazzi perduti con i quali amava trascorrere il tempo. Che conosceva uno a uno, chiamava per nome, rimproverava con modi bruschi, abbracciava amorevolmente quando cadevano. Ed era per sostenere loro che frequentava l’alta società. Nella quale si trovava a suo agio quanto bastava per tornare a lottare più forte sul margine, dove l’uomo è più fragile. Lo stesso Rocco si fidava. E quando aveva problemi con qualcuno sbottava: "Sta bon lì. Adesso ciamo el prete… Ciò, prete. Questo g’ha bisogno de ti…". Padre Eligio era figlio della vita semplice e della campagna, non giudicava gli scarti ma sapeva valorizzarli, anche fra gli uomini. E le sue comunità resistono ancora. E detestava i torti, anche quelli arbitrali. Memorabili le sue battaglie contro il Palazzo del Calcio. Dopo un Lazio-Milan del 1973, Padre Eligio rispose ad un’intervista senza mezzi termini: "Rivera è molto scocciato per il putridume che esiste nel mondo del calcio. Quando lui fa certe dichiarazioni sugli arbitri, la sua è veramente una causa santa è giusta. Perché tu sai che gli arbitri oggi o sono condizionati o sono venduti. Ora Gianni, che è un ragazzo pulito, si ribella a queste cose, perché lui ha una gran sete di giustizia". Erano gli anni in cui Rivera combatteva a viso aperto contro Lo Bello Michelotti, Agnolin e tutto il cucuzzaro. E collezionava pesanti squalifiche a raffica. Padre Eligio quella volta scese in campo a modo suo e non lo lasciò solo. Anche perché di solitudini in giro Padre Eligio ne vedeva e anche troppe, certo di altra natura. Ma ci teneva a insegnare che senza qualcuno disposto a credere che nessuno è irrecuperabile, gli ultimi restano ultimi. E senza nessuno disposto ad ascoltare le due campane, si consumano le ingiustizie. Nelle sue comunità i ragazzi vivevano di ciò che producevano, ai ribelli rispondeva con una capacità di dialogo che andava oltre tutto, anche la fede religiosa. Chi lo ha conosciuto ne parla con nostalgia e come di una persona positiva. Nereo Rocco gli dava sempre ragione, quando gli commissionava di relazionarsi con i nuovi arrivati del settore giovanile, molti dal Sud, ognuno con storie e culture e passato diversi… "Prete, te g’ha fatto ben…". A tavola era di compagnia, allegro, moderno, conviviale, contagioso. Ogni tanto tra la gente sbucava qualche ragazzo che aveva salvato e lo ringraziava. Padre Eligio non era un personaggio pittoresco ma un volontario atipico, che ha usato il mondo per agire nel mondo. Che ha raggirato il demonio, vestendo i colori del diavolo rossonero. Convinto che nessuno sia irrecuperabile. Nemmeno quando tutto sembra perduto. Un volontario che basava tutto su fiducia e ascolto. Che ha mostrato il volto della sofferenza a un mondo che si voltava dall’altra parte, che credeva nella bellezza. Un volontario rivoluzionario. Che ai giovani calciatori insegnava che se fosse andata male, beh non esisteva solo il calcio e avevano sempre e comunque una vita da vivere. Di poche parole ma diretto, Padre Eligio non ha mai mollato. Fino alla fine. Da quando l’eroina distruggeva le famiglie a oggi che le famiglie faticano a formarsi e durare. Padre Eligio è morto a 94 anni. E si è portato via una fetta di storia e di calcio che non c’è più.

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Lucio Rizzica