Seguire l'emozione, sempre: la lezione di Massimo Moratti

Che cos’è un’emozione? È un rintocco, una metonimia, uno sconvolgimento che implode colorando l’attimo di eternità. Viene dal latino ‘emovere’ e significa etimologicamente portar fuori, mettere in movimento, scuotere. E non ha necessariamente una connotazione positiva perché le emozioni sono un arcipelago vasto e contrastante, appagante e sofferente, irrazionale e sorprendente. Ma nel caso di Massimo Moratti l’emozione è anche criterio di lettura di una storia cominciata trent’anni fa, il 18 febbraio 1995, e terminata un ventennio più tardi. La storia di un amore sbocciato negli anni 50 del ‘900 grazie al padre Angelo e vissuto in modo totalizzante nella buona e nella cattiva sorte: l’Inter. La sua emozione. Se dunque si vuole capire l’essenza e il senso della sua esperienza nel mondo del calcio è da quel filtro che occorre partire, non dal palmarès. È vero, il calcio è gioco, competizione, e chi lo pratica insegue la dea Nike , ma è anche e soprattutto emozione e chi lo ama spesso evoca e abbraccia Dioniso . Ecco, per comprendere Moratti occorre prendere il motto di bonipertiana memoria “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta” e sostituire il verbo iniziale con il sostantivo alla base del suo agire, perché per lui è sempre stata l’emozione a contare più di ogni altra cosa. Basti pensare ai suoi acquisti più clamorosi, figli di un sogno più che di un disegno tecnico/tattico, espressione non di algoritmi ma di scuotimento dell’anima. Sin dal primo, che in realtà non avrebbe mai vestito il nerazzurro: 25 gennaio 1995, Moratti è a un passo dall’accordo per diventare il nuovo proprietario dell’Inter e si imbarca per Manchester insieme ai figli. Scopo: andare a vedere dal vivo Eric Cantona, genio e sregolatezza francese reduce da una stagione strepitosa con Alex Ferguson. 18 gol, double Premier/FA Cup, giocatore ‘inglese’ dell’anno malgrado le 4 espulsioni. Obiettivo: farne il primo acquisto del new deal interista. Ma quello che Moratti non può sapere è che quella partita tra Manchester United e Crystal Palace diventerà un pezzo di storia, nemmeno troppo edificante. Cantona viene espulso e, durante l’irritata uscita dal campo, viene pesantemente insultato da un tifoso avversario in prima fila, appena al di là dei cartelloni pubblicitari. Il francese perde la testa e si lancia contro di lui cercando di colpirlo con una mossa di kung-fu, scolpendo nella memoria collettiva un’immagine imperitura. Ecco lo sconvolgimento dell’atarassia, l’emozione: non solo giocate, ma fuoco e temperamento. Esattamente ciò che cerca il futuro presidente dell’Inter che per un attimo si convince del fatto che l’enormità dell’episodio possa diventare elemento facilitatore per il trasferimento, ma che poi capisce come il Manchester, al contrario, non voglia ostracizzare il suo campione rinforzandone i legami. Niente Inter per Cantona, ma il futuro nerazzurro si schiude per un suo compagno, quello che lo difende con maggior foga, che in campo trasmette quell’emozione lì, quella che i latinos chiamano ‘garra’: Paul Ince. Moratti ha sempre amato gli uomini di personalità, tanto da catturare negli anni gente come il ‘Cholo’ Simeone, Mihajlovic, Zamorano, Stankovic, Samuel. Fino a Ibrahimovic, che il Presidente ha sempre definito “simpaticissimo”, con quell’accento tipicamente milanese, calcando sulla ‘p’ prima di scivolare sulle sillabe successive, stirando gli angoli della bocca in un sorriso bonario, magari aggiustandosi gli occhiali delicatamente con la mano. Forse perché in loro vedeva gocce di quel ‘Veleno’ Lorenzi che imparò ad amare nell’Inter del padre, forse perché così diversi e complementari rispetto a quel suo aplomb piuttosto inglese con il quale affronta ogni questione e ogni polemica. Ma certamente perché paradigmi del concetto di emozione, scuotimento, agitazione di sogni e percezioni. In una parola, passione. E che cos’è la passione se non un sentimento intenso che turba l’equilibrio? Viene dal greco pathos, che significa propriamente ‘sofferenza’ e attiene a quel moto dell’anima che impone la lotta e che in Eschilo si accompagna al mathos, la saggezza. Sì, perché nella tragedia ‘Agamennone’ il Coro intona un inno a Zeus “che ha posto come valida legge la saggezza attraverso la sofferenza” , fondando un principio su cui l’uomo si è misurato sempre, sino ai giorni nostri. La necessità di dare un orizzonte di senso alla sofferenza di per sé distruttiva e gratuita, misurando lo spessore e la crescita umana attraverso la sublimazione e l’accettazione del dolore. Come per Ronaldo, la pietra angolare del sogno morattiano. Il Presidente lo acquistò perché nessuno credeva fosse possibile, lo corteggiò malgrado fosse già un celebrato astro del Barcellona, ebbe la certezza del suo sì mentre era in viaggio trasformando quell’itinerario in un romanzo, in un road movie metafora di vita, di bellezza e di gioia. Ma poi ne misurò la fragilità e fu testimone di quell’infinita sofferenza provocata dai due tremendi infortuni al ginocchio. Sino all’epilogo più triste, quell’addio invocato dal Fenomeno all’indomani della pagina più dolorosa della storia nerazzurra, il 5 maggio 2002. Lacrime, il senso della sconfitta, la sofferenza di un uomo che si aggrappava alla speranza di un nuovo inizio: questo fu ciò che vide Moratti negli occhi di Ronaldo quando, ricevendolo a casa sua in un pomeriggio d’estate, acconsentì alla cessione al Real Madrid. Fu aspramente criticato da chi ritenne folle lasciar partire il giocatore più forte del mondo per trattenere un allenatore, Cuper, ormai in rotta di collisione col campione brasiliano. E in effetti lo stesso fuoriclasse fece filtrare a più riprese la necessità di una scelta tra lui e l’hombre vertical. La grigia ma solida personalità di Cuper o il fragile genio di Ronaldo? Per il bene dell’Inter Moratti ritenne che solo l’allenatore argentino avrebbe avuto la forza morale per rialzare l’ambiente da quel disastro sportivo e che il sincero amore di Ronaldo per quei colori non avrebbe guarito un’anima spezzata. Pàthei màthos. Moratti scelse. Col senno del poi probabilmente sbagliò, ma senza tradire mai il senso dell’emozione e della passione umana. Sua e altrui. Passione, sì. La stessa che gli fece acquistare l’Inter quel febbraio 1995, spinto a più riprese dall’avvocato Prisco e frenato dalla consapevolezza che la moglie Milly non avrebbe apprezzato. “Glielo nascosi fino all’ultimo perché sapevo che sarebbe venuta nel mio ufficio per impedirmi fisicamente di firmare”, disse anni più tardi. Le emozioni a volte sono troppo violente per vestire abiti sgargianti: occorre edulcorarle, nasconderle, renderle diafane e delicate, dunque accettabili. E così sarebbe stato lo sconvolgimento familiare di fronte a quell’atto emotivo, dettato più dalla gratitudine per il passato paterno che per ambizione fine a sé stessa. E forse non è un caso che il suo primo acquisto non sia stato Cantona, ma un oscuro e sconosciuto terzino argentino di 21 anni visto per caso su una videocassetta. Perché le emozioni più strutturate e intense si disvelano progressivamente, conquistando senza choccare, avvolgendo senza travolgere. Il suo nome? Javier Zanetti. A Moratti volevano mostrare le doti di un attaccante del River, Ariel Ortega, ma lui non ne rimase impressionato. Finendo per posare gli occhi sul terzino dell’altra squadra, il Banfield, che partiva come un trattore, saltava avversari come birilli, correva instancabilmente dietro a qualsiasi avversario si presentasse sulla sua fascia. Lo comprò. Insieme a un attaccante dell’Independiente, Sebastian ‘avioncito’ Rambert, che invece aveva attirato la sua attenzione per le doti funamboliche. Zanetti è diventato il giocatore con più presenze nella storia nerazzurra, 858 in totale. Rambert in nerazzurro alla fine non giocò praticamente mai. Perché le emozioni sono attimi, lampi di brivido nelle viscere che possono scomparire in un battito d’ali, ma anche fiumi lenti e possenti che crescono all’infinito. Certo, la predisposizione di Moratti per l’emozione è stata spesso impastata di ‘innamoramenti’ calcistici, concepiti nella dimensione dell’ideale e concretizzati perché splendidi nella loro aura estetica a prescindere da tutto. È il caso di Recoba, arrivato in sordina nella stessa estate di Ronaldo, impiegato senza grande costanza ma autore di giocate e gol che realizzavano i sogni del Presidente. Il ‘Chino’ riaccendeva la magia del sinistro di Corso, dipingeva pennellate geniali qua e là e appagava l’estetica, la poetica del gioco del calcio. E tanto bastava. Così come Roberto Baggio, divino al punto da ‘dover’ vestire la maglia nerazzurra quasi per afflato ‘religioso’. O ancora Djorkaeff, le cui delizie erano già un mondo compiuto di poesia calcistica. E infatti Moratti percepì come capolavoro, più ancora del Triplete del 2010, quello di mettere insieme, nella stessa squadra, tutti i versi possibili di un’universale poesia: Ronaldo, Recoba, Zamorano, Djorkaeff. Baggio sarebbe arrivato subito dopo la Coppa Uefa, vinta nel 1998. Vieri poco più tardi, a formare con Ronaldo la coppia dei sogni spezzati: insieme avrebbero segnato ovunque e a chiunque, ma insieme giocarono solo una manciata di partite. Rincorrerlo sul viale dell’estetica era impossibile, criticarlo per la volatilità dei suoi allenatori era facile: Moratti ordinò 14 cambi di panchina nei suoi primi 8 anni alzando un unico trofeo, nel 1998, con Simoni. Il paradigma dell’etica che si sposò con l’estetica solo per un istante di gioia consumato al Parco dei Principi di Parigi. Ma che l’anno successivo durò solo 11 partite. L’esonero più difficile, avrebbe confessato lo stesso Moratti, arrivato dopo una vittoria contro la Salernitana firmata da Javier Zanetti e comunicato al ritorno dell’allenatore da Coverciano, dove era appena stato celebrato con l’assegnazione della Panchina d’oro: “Speriamo non sia un premio…alla memoria” ringraziò Simoni, ma il suo era un giusto presentimento. Perché ormai aveva compreso la filosofia presidenziale, connaturata non alla diade vittoria/sconfitta, ma alla necessità di produrre emozioni in grado di vibrare nella storia. In altre parole su quella decisione pesò più la percezione di un appiattimento del gioco che un banale calcolo di risultati. Ancora una volta pàthei mathos, il tentativo di arrivare alla saggezza attraverso la sofferenza. Che sarebbe proseguito fino a Mancini, lasciando sul campo persone umanamente stimate nel profondo, come Hodgson e Lucescu, con cui Moratti condivideva forma e sostanza ma che non seppero far scoccare la scintilla per dar vita alla sua creatura. Il Mancio invece sì, sapeva come fare. Il Presidente lo aveva inseguito inutilmente per anni come calciatore e ne apprezzava la visione calcistica, ma si convinse a ingaggiarlo quando Roberto gli mandò la foto di una maglia dell’Inter anni ’60 con il tricolore sul petto, messaggio evocativo e vincente. Una carezza al passato per gettare un ponte sul futuro. La pioggia di titoli cominciò lì, trovando la sua epica in Mourinho, l’uomo che lo mise sullo stesso piedistallo del padre riportando la Champions a casa dopo 45 anni. Questione di ubris e di tisis, come si conviene alle nobili radici degli eroi delle tragedie greche. Non solo saggezza attraverso la sofferenza, ma anche la violenza verso gli dei punita dalla Tùche, la Sorte. E Moratti l’ha sperimentata su entrambi i versanti: per vincere provò a rivolgersi a Lippi, per continuare a farlo prese Leonardo. Il primo, simbolo juventino e allenatore bianconero in quella sfida passata alla storia come quella di Iuliano-Ronaldo, non trovò mai le chiavi del mondo nerazzurro. Il secondo, simbolo milanista, gli portò l’ultimo trofeo ma soffrì troppo la ‘rivoluzione permanente’ che animò l’ambiente rossonero di fronte al suo ‘tradimento’. Progetti naufragati nello spazio di pochi mesi, per ragioni diverse ma egualmente ispirate dalle divinità del calcio: la ubris porta alla tisis. Che Moratti visse anche sull’altro lato della barricata: Ronaldo che sceglie il Milan e che segna in un derby è certamente uno sfregio all’Olimpo. E forse è per questo che al ribaltamento del risultato il Presidente si lasciò andare a un gesto di stizza revanchista. Per non parlare di Calciopoli, la pagina più nera e umiliante: il Presidente da allora ha sempre rivendicato lo scudetto definito ‘di cartone’, ma senza festeggiarlo, perché in mezzo a quei miasmi nessuno può sorridere. E fu proprio lì che nacque, concettualmente, la faticosa costruzione della gloria successiva: ubris, tisis. Non così per Pirlo, per il quale si assunse responsabilità non del tutto sue. Venderlo al Milan insieme a Seedorf fu probabilmente la mossa più scentrata della sua parabola, tanto più che lo aveva fortemente voluto all’Inter: “Un giorno in Lega mi trovai in ascensore con Corioni, il presidente del Brescia. E gli dissi che da lì non saremmo usciti senza il suo sì al trasferimento di Pirlo in nerazzurro”. Poi però il ragazzo non si accese mai, complice l’eccesso di concorrenza e un ruolo che non sarebbe più stato il suo, negli anni a venire, il trequartista. E qualcosa di simile avvenne con Cannavaro, ‘regalato’ alla Juve in un’operazione surreale. Errori madornali, da cui seppe ricostruire con pazienza l’Inter stellare del Triplete, che non a caso nacque da un altro sacrificio apparentemente incomprensibile: via Ibra per Eto’o e soldi. Tanti. Che portarono in nerazzurro Motta e Milito. Pedine che si aggiunsero ai vari Cambiasso, preso qualche anno prima a parametro zero dal Real, Samuel, Chivu, Maicon, Stankovic e Sneijder. Una miscela di forza e classe shakerata e resa invincibile da Mourinho, reincarnazione di Herrera di cui Moratti si accorse per un’intervista televisiva. L’allenatore portoghese aveva appena pareggiato con il suo Porto la semifinale di andata di Champions contro il Deportivo. E alle domande del dopo partita rispose con il suo tipico tono un po’ spaccone: “È inutile che mi chiediate del ritorno, io sto già pensando alla finale”. Fu un colpo di fulmine. Accarezzato e coltivato per mesi, prima della sua epifania. Perché Moratti, per quanto umorale, ha sempre cercato l’analisi, prima dell’azione. Spesso si confrontava con i giocatori per comprendere le dinamiche di spogliatoio e le frizioni passibili di frattura, spesso ‘annusava’ l’abito mentale dei suoi allenatori per carpirne entusiasmo o frustrazione. Dopodiché la decisione era sempre la sua, giusta o sbagliata che fosse. È in quest’ottica che occorre inquadrare due esoneri, tra loro molto diversi, e un addio eclatante. L’esternazione di Lippi dopo la sconfitta a Reggio Calabria fu presa in parola proprio per questa tendenza a cogliere un’atmosfera complessiva e non l’attimo di delusione. E così per Mancini che, dopo l’eliminazione in Champions contro il Liverpool, sentenziò “Questi saranno i miei ultimi 2 mesi all’Inter”. Uno sfogo che faceva emergere un piano ormai troppo inclinato perché potesse appianarsi. Fu lì che l’idea Mourinho divenne progetto. E fu la finale di Madrid a suggerire a Moratti il finale della sua avventura nerazzurra: l’avesse persa se ne sarebbe andato. L’avesse vinta, se ne sarebbe andato a maggior ragione. Perciò non rimase scandalizzato dalla ‘fuga’ del portoghese sull’auto di Florentino Perez un minuto dopo il trionfo. Istante, per altro, nel quale anche per il Presidente si chiuse il cerchio. Proprietario per passione, presidente per apprendere l’arte della saggezza, tifoso per emozione ed estetica, Moratti ha perso tutto e vinto tutto. Come suo padre. Ha amato il suo presente distillando il passato. E quando ha colto nel futuro uno sguardo senza luce, ha passato la mano. Perché a volte bisogna saper rinunciare, pur soffrendo. Del resto Moratti lo ha fatto con i trofei, con gli allenatori e con i calciatori. E non sempre per scelte tecniche: Kanu era un talento straordinario, ma con un difetto significativo alla valvola aortica. Il Presidente non lo rispedì all’Ajax, dopo le visite mediche, ma si offrì di accollarsi, sia economicamente che terapeuticamente, la sua guarigione attraverso l’intervento chirurgico e la conseguente riabilitazione. C’era anche lui a Parigi a festeggiare la Coppa Uefa, ma di fatto non giocò più fino al ’99, quando passò all’Arsenal. Così Adriano, potenziale fuoriclasse prigioniero di demoni potenti ereditati dall’infanzia e deflagrati nell’alcool. Moratti cercò di aiutarlo nascondendo al mondo il suo “mal di vivere” e proponendogli a più riprese la disintossicazione in qualche clinica specializzata lontana da occhi indiscreti. Ma senza riuscire a convincerlo. Dopotutto l’emozione è anche solidarietà e comprensione. E non esiste poesia senza il coraggio di affrontare la prosa della quotidianità. Massimo Moratti ha tenuto le redini dell’Inter dal 1995 al 2013, ha vinto 16 trofei e investito più di un miliardo di euro. Ma non è con il palmarès o con il denaro che lo si può comprendere. Diciotto anni non sono nulla rispetto alla storia ultracentenaria del club, eppure è palpabile la sensazione che sia lui ad incarnarla. E non solo perché il padre Angelo aveva forgiato la Grande Inter degli anni ’60, ma perché in lui si fondono virtù e difetti del mondo interista. Un po’ baùscia e un po’ lord, un po’ progressista e un po’ radical chic, un po’ padre e un po’ insofferente, un po’ esteta e un po’ pragmatico, Moratti ha sempre inseguito l’emozione. E quella di 30 anni fa riverbera ancora tra le stelle nerazzurre.

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