Abbatterlo o conservarlo? L'eterno dilemma sul futuro di San Siro che riguarda la memoria

“Tutte le stelle già de l’altro polo Vedea la notte e ‘l nostro tanto basso, che non surgea fuor del marin suolo. Cinque volte racceso a tante casso lo lume era di sotto da la luna, poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo, quando n’apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avea alcuna” Per generazioni di bambini il ‘battesimo’ di San Siro è stato un viaggio dell’anima, simile a quello che Dante attribuisce a un attempato ma tenace Ulisse nel meraviglioso Canto XXVI della Divina Commedia: la navigazione verso un ignoto irresistibile e affascinante, l’emozione di un’avventura tesa all’infinito, il battito ancestrale di un’immagine che compare improvvisa e potente. Quella montagna bruna per la distanza, ma gigantesca e magnetica, era brivido poetico, da assorbire porgendo la mano a papà o stringendo al cuore la sciarpa con i colori della passione. La salita al cielo attraverso le sue rampe elicoidali, simili alle spire del serpente marino in attesa di Laocoonte, era un percorso iniziatico che scioglieva i vincoli spazio-temporali allungandosi come un’ombra sull’incontrollabile attesa. Finchè il portale del sogno si spalancava consegnando a quei piccoli occhi una vista ipnotica e sublime: anelli ricolmi di genti sospese tra i cerchi infernali e i cieli celesti, brusio immobile come una nota inquietante appiccicata al respiro, cori improvvisi a lacerare le viscere ritmando le speranze rannicchiate nel petto. San Siro, insomma, è da sempre il tempio romantico di una città che nel suo catino ripone storie, sorrisi, pianti e ambizioni. Del resto cos’è il Romanticismo se non Sturm und Drang, forza travolgente dei sentimenti e della natura? Che cos’è se non idealizzazione del passato e rifiuto della razionalità come strumento per l’interpretazione della realtà? Sì, perché quello stadio è inevitabilmente luogo della memoria che si fa storia. E non solo perché il suo nome, Giuseppe Meazza, evoca origini e vittorie, ma anche perché il fiume dei ricordi sfocia nel mare della poesia: l’eleganza di Rivera, i dribbling di Mazzola, i gol di Boninsegna e Prati, la sfide fraterne dei Baresi, la dinastia Maldini, la classe di Beccalossi, le opere d’arte di Van Basten e l’anima olandese di un Milan stellare, la potenza di Rummenigge e Mattheus, le acrobatiche meraviglie di Djorkaeff, il genio di Savicevic e Boban, le traversate folli ed estatiche di Weah e Adriano, la gioia bifronte regalata da Ibrahimovic, i diamanti dispensati da Ronaldo il Fenomeno, le delizie di Ronaldinho, le fughe di Inzaghi, le sentenze di Milito, ma anche i colpi di tacco di Bettega e le magie di Del Piero. Una cornice di pura poesia entro cui ogni persona che abbia varcato almeno una volta la soglia di quel tempio incastona le proprie esperienze, i propri idoli, i propri frammenti di gioia e dolore, le proprie immagini, a volte minimaliste e vissute come secondarie che, per qualche arcano motivo, si fissano nella mente e accompagnano per la vita. La memoria è valore, il sedimento su cui poggiano le fondamenta del futuro, il presupposto su cui plasmare i comportamenti e la personalità. Degli individui, ma anche dei contesti sociali. In una parola, la memoria è patrimonio dell’umanità. Ed ecco perché è così difficile rinunciare ai simboli che di questa memoria costituiscono l’incarnazione, empirica concretizzazione di un pensiero, di un’emozione, di una filosofia. San Siro non è semplicemente un edificio, ma un testimone silente di storie la cui voce riecheggia nell’anima di una città e che dunque, negli anni, ne è diventato icona. Impreziosendo Milano, il calcio, i sentimenti popolari, le suggestioni di un intero Paese. Ma la memoria a volte è anche illusione. Distorce il reale virandolo color seppia e vestendolo di quella mitologia che abbellisce e nobilita. Spesso diventa la dimensione di ciò che avremmo voluto essere e non di ciò che realmente fummo. La possessività e la gelosa protezione per ciò che attraversa la vita conferendole sapore si trasforma in delicata e melanconica debolezza che rende l’uomo amabile prigioniero di ciò che non è più. Quando nel 1990 San Siro uscì dal profondo maquillage imposto dal Mondiale assegnato all’Italia, molti rimasero prostrati da quello che percepirono come 'scempio': il terzo anello, ma soprattutto l’armatura di torri e travi d’acciaio che avvolsero il 'vecchio' stadio con un esoscheletro di modernità sembrarono uno sfregio inferto con noncuranza sul volto e sul corpo di una figura amata senza riserve per 40 anni. Un atto di violenza brutale e ignorante che lacerava la storia. Ma la successiva stratificazione di ricordi, di etica ed estetica, di gesta epiche e amorevoli frequentazioni hanno progressivamente ricomposto quella apparente frattura. Certo, la compresenza di modernità e storia continuò per un certo periodo a frustare i sensi dei puristi e di tutti coloro che provano disagio per gli azzardati accostamenti cromatici che trasformano un abito da elegante in sgraziato, ma il tempo seppe ridare significato e armonia a un simbolo che divenne iconico per le nuove generazioni. Tanto che a rivederlo oggi, in fotografia, quel San Siro composto di due soli anelli e completamente scoperto sembra quasi spoglio, incompiuto. Sì, perché il tempo ha una proprietà magica, quella di insinuarsi nella tendenza all’adattabilità insita nell’uomo innestando con pazienza nuova linfa di emozioni e ricordi nel suo fluire. Dunque se la memoria è valore, le entità fenomeniche che ne rivestono il cuore sono spesso illusioni. Lo insegnavano gli antichi, quando predicavano la serena atarassia rispetto al reale, al fine di non perdere di vista l’essenza del significato della vita. E solo la ragione consente questo processo di complessa scrematura. Detto banalmente, mai affezionarsi troppo a ciò che si 'possiede' perché la caducità umana spazzerà via ogni cosa: tranne il senso, l’essenza, la memoria collettiva intesa come strumento di progresso. Ecco, il progresso. Per l’Illuminismo era l’affrancamento dai dogmi e dalla schiavitù delle dottrine imposte d’imperio, dal sentimento irrazionale come unico comandante delle vicende terrene. Era la liberazione dell’uomo attraverso la ragione e la scienza in un percorso evolutivo votato ineluttabilmente al miglioramento degli individui e della società. Il futuro, insomma, non può restare appeso alla stasi del passato, soprattutto se questo riposa su dettami immutabili, insondabili e non sottoponibili a critica razionale. Dunque un nuovo simbolo, un nuovo stadio, un nuovo San Siro non è follia modernista, ma il naturale esito di una storia che evolve. Esistono molte ragioni tecniche e contingenti a consigliarlo, alcune disarmoniche rispetto alla visione romantica del mondo: le necessità economiche delle società che anche su questo versante cercano risorse per affrontare la endemica lievitazione dei costi del calcio, le necessità pratiche di evitare costose e complesse operazioni che cerchino pervicacemente di tenere in vita una creatura sempre più anziana, le necessità regolamentari che l’Uefa impone per considerare gli impianti europei all’altezza dei nuovi standard di sicurezza e fruibilità. Ma è soprattutto la dimensione emotiva che qui è in gioco e che qui si vuole indagare. E su questo piano c’è un aspetto che mantiene tutto il suo romanticismo: la scelta di Milan e Inter di stare insieme anche nell’impianto del futuro. Certo, ci saranno sicuramente considerazioni di convenienza alla base del progetto. E tuttavia la consapevolezza che le famiglie e i gruppi di amici che sciameranno verso i derby con sciarpe diverse e stessa passione non verranno mai divisi dalla sgradevole sensazione di essere gli uni 'ospiti' degli altri, scalda il cuore. Perché così è sempre stato sin da quando Celentano cantava “io dell’Inter, lei del Milan”. Ma c’è di più. Gli italiani che hanno avuto la possibilità di frequentare i più nuovi e innovativi stadi europei ne conservano grande ammirazione. Che fatalmente contribuisce ad alimentare la critica e la sfiducia per qualsiasi inazione italica: “loro li fanno e sono bellissimi. Noi abbiamo gli stessi stadi di 40 anni fa, per non dire 70”. Dunque l’attesa e la speranza del nuovo non sono affatto disvalori, ma sono al contrario il riflesso di una virtù umana fatta di evoluzione, curiosità, progresso, miglioramento. Esattamente quelle caratteristiche che Dante vide in Ulisse, paradigma dell’Uomo, rimettendolo in mare verso avventura e conoscenza. E così quella montagna bruna per la distanza non è la struggente visione del passato, ma al contrario la spaventosa meraviglia che indica il futuro. Dunque la natura umana è costantemente agitata dall’infinita lotta tra la naturale tensione verso l’avvenire e l’inevitabile nostalgia del passato. La fiducia nella ragione o nel sentimento hanno avvolto molti periodi storici, con alterne fortune. Del resto non solo la visione dogmatica del mondo, ma anche le “magnifiche sorti e progressive” hanno mostrato la corda quando sono state assurte a unico paradigmatico valore. Perché il progresso non porta con sé automaticamente la felicità, come teorizza Leopardi nella 'Ginestra', e perchè il romanticismo non ha di per sé maggior forza e più nobiltà della razionalità. E allora, in definitiva, a quale visione del mondo occorre aderire, per San Siro? Appoggiare con entusiasmo il suo abbattimento per rivolgere lo sguardo al futuro nutrendosi del fascino e della bellezza del nuovo, oppure osteggiare la demolizione abbracciando la commozione per un passato incancellabile? Nel mondo ci sono molti luoghi della memoria legati ad eventi terribili, la cui valenza tragica è diventata necessità di raccoglimento e riflessione: da Auschwitz al Museo di Hiroshima, da Omaha beach alla sezione rimasta intoccata della stazione di Bologna. In questi casi la conservazione fisica di un luogo che trasuda orrore e lacrime, eroismo e sacrificio, ha un significato che va ben oltre l’incidentale realtà fenomenica che sia stata contenitore di atrocità. Lì il luogo non è simulacro, ma simbolo. Di più, è la carne della memoria che restando in vita si fa maestra. Poi ci sono altri luoghi legati a momenti storici, come la Summit House di Reykjavik dove Reagan e Gorbaciov seppellirono la guerra fredda in una stretta di mano, o connessi a espressioni d’arte e civiltà del passato, come il Colosseo, Pompei, sino a tutte le meraviglie del Rinascimento. E la necessità della loro conservazione risiede nella loro incommensurabile valenza storica ed artistica, per quanto cristallizzata nel tempo. E gli stadi come si collocano in questa galleria? Beh, loro non si cristallizzano, sono materia 'viva' che respira con le emozioni della gente. In giro per il mondo moltissimi impianti sono stati smantellati e ricostruiti, persino due monumenti mondiali come Wembley e il Maracanà. E, a ben vedere, persino lo stadio di Domiziano oggi è diventato piazza Navona, capolavoro del barocco e spazio ammirato in tutto il mondo dopo la sua trasformazione. Ma talvolta non è necessario che sia l’arte a sostituire l’arte. Basti pensare al 'mitico' Sarrià, lo stadio di Barcellona dove l’Italia di Bearzot si guadagnò il prestigioso invito alla Finale di Madrid 1982 battendo Argentina e Brasile: fu abbattuto nel 1997 e oggi un visitatore nostalgico dovrebbe fare enormi sforzi di immaginazione per disegnare con la mente le tribune di quel luogo trionfale tra palazzi e giardini di un quartiere completamente riqualificato. In altre parole, ciò che con il popolo nasce, cresce e invecchia, ne subisce la stessa sorte. Evolvendo, modificando forme e 'personalità' insieme con esso. Qui, insomma, il luogo della memoria è la memoria stessa. E non altro. Del resto anche oggi chi volesse entrare a San Siro per evocare 'quel' pomeriggio di 40 anni fa in cui da bambino assistette a 'quella' particolare partita seduto accanto a mamma e papà, fallirebbe il transfer emotivo: perché 'quel' San Siro là non c’è più. E’ altro, è materia tanto inconsistente quanto potente e che risuona di emozione solo nell’anima di chi proprio a quell’istante vuole tornare. Molti non sono affatto contrari al nuovo San Siro, semplicemente osteggiano la demolizione del vecchio. Atteggiamento certamente romantico, ma che forse ha in sé i germi del potenziale pericolo. Non solo e non tanto per ragioni economiche , ma soprattutto per ragioni emotive: vederlo decomporsi, una ruga dopo l’altra, come simulacro vuoto di fronte alla sfrontata giovinezza del nuovo vigoroso stadio posto lì accanto, avrebbe il sapore dell’avvilente afflizione. Più che un tributo all’eroico passato diverrebbe stanco epilogo di un corpo fiaccato dal tempo. Forse allora la soluzione di lasciarne in piedi una piccola parte come monumento e simbolo di una cultura popolare che lo ha amato da sempre potrebbe avere un senso, anche per le generazioni future. Perché qui i sillogismi rischiano di diventare sofismi: la memoria è valore, San Siro è certamente memoria. Ma San Siro, abbandonato e silente, non sarebbe più un valore. Solo tristezza.

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Alessandro Biolchi