Thiago Motta, le meteore e i fiumi carsici: storie di esperimenti più o meno riusciti

Una meteora è una promessa non mantenuta, il “fermo palpito d’ali” di Alcmane, il fascino magico della luce che si scioglie nel buio, un’emozione carica di attesa che brucia in un istante. Thiago Motta avrebbe dovuto essere la pietra angolare intorno alla quale costruire il nuovo progetto juventino: allenatore giovane, emergente, prodigo di idee innovative e architetto di un gioco vincente ed esteticamente appagante. Ma la sua scintilla si è spenta nella notte senza accendere la fantasia che aveva illuminato il cielo di Bologna. La sua grande occasione si è sfarinata tra le pieghe di una storia senza lieto fine e che lascia sul terreno perplessità, retroscena e giudizi sin troppo trancianti, quasi che Motta debba finire tra i superbi di Dante per la sua presunzione di poter affiancare quei giganti che dalla panchina seppero scrivere la storia bianconera. “Non è il mondan romore altro ch’un fiato Di vento, ch’or vien quinci e or viene quindi, E muta nome perché muta lato” Eppure la storia offre molti esempi di grandi sogni spezzati all’alba, occasioni imperdibili implose nel deserto del fallimento che, come ogni costruzione umana, si nutre del contingente e del ‘relativo’. Basti pensare ad Andrea Pirlo, chiamato sulla panchina della Juventus a 41 anni, nell’agosto del 2020, dopo una splendida carriera da calciatore ma senza tacche sul curriculum da allenatore. E con l’ingrato compito di mettere la decima perla alla collana di scudetti che Conte, Allegri e Sarri avevano messo in sequenza nei nove anni precedenti. Fornendo contestualmente alla nobile dama juventina una veste più europea, più propositiva, più in linea con la modernità continentale tanto spesso evocata da Cristiano Ronaldo. Anche lui, insomma, avrebbe dovuto incarnare l’uomo nuovo, il ‘verbo’ del futuro, sbocciando nel ventre di una società gloriosa e crescendo con essa, sul modello che aveva già prodotto miti come Guardiola o Zidane. Vinse Supercoppa e Coppa Italia, in campionato viaggiò alla media di 2.05 punti a partita, in Champions arrivò agli ottavi. Risultati che oggi sarebbero interpretati come perfettamente in linea con gli obiettivi, ma quel quarto posto in campionato conquistato all’ultima giornata dopo 9 scudetti consecutivi e quell’eliminazione inferta dal Porto stesero una grigia patina di fallimento sull’intera stagione. Fine del sogno, ritorno ad Allegri e grande occasione scivolata via come sabbia tra le dita. Certo, il punto di partenza posto ad una quota molto alta espone al rischio di caduta molto più di una gavetta costruita dal basso, ma spesso è l’opinione che si forma sul contingente a ostracizzare le singole storie. Tanto che Pirlo dovette aspettare un anno per ripartire, per altro dalla Turchia e in una società di medio cabotaggio. Per poi finire alla Samp, in Serie B e in un complicato periodo societario, circostanze limitanti per qualsiasi orizzonte di gloria. Ma prima di lui una sorte simile, e sempre alla Juventus, era toccata ad un altro mostro sacro del calcio giocato: Ciro Ferrara. Chiamato nel 2008/09 al posto di Ranieri, conquistò la fiducia di tutti vincendo le due partite che restavano prima della chiusura della stagione e certificando il piazzamento Champions. Aveva 41 anni e poteva vantare, a parte il glorioso passato di calciatore, solo la collaborazione con Marcello Lippi in Nazionale, in particolare nella trionfale spedizione mondiale di Germania 2006. Ma la sua storia da allenatore bianconero fu un volo effimero e illusorio: 21 partite di campionato, eliminazione ai gironi di Champions, eliminazione dalla Coppa Italia. E il conseguente esonero. Non bastò partire con quattro vittorie consecutive, né battere l’Inter di Mourinho che di lì a pochi mesi avrebbe vinto tutto. Perché la discontinuità fu il marchio di fabbrica di quella sua Juve e lo stesso Ferrara avrebbe poi confessato che nei momenti di crisi gestire e allenare tanti amici che pochi anni prima erano semplicemente compagni di squadra, si sarebbe rivelato un ostacolo e non un vantaggio. Esonero ed emozione spenta in una brevissima parabola nel cielo notturno. Con relativo contraccolpo, visto che Ciro sarebbe tornato in panchina solo due anni più tardi alla Samp per un’altra esperienza incompiuta. E che la sola altra panchina su cui si sarebbe seduto si trovava a migliaia di chilometri, in Cina, nel 2016/17. Da lì in poi preferì la carriera di commentatore Tv a quella di allenatore. La storia insomma ripropone ciclicamente un sabato del villaggio pieno di speranza e ricolmo di attese cui qualche volta segue il verso leopardiano “Diman tristezza e noia recheran l’ore”. Il Milan ci ha provato più volte a coltivare ‘in casa’ l’allenatore del futuro, muovendosi tra le figure più luccicanti della sua galleria di campioni. E se Capello, battezzato in panchina da Berlusconi, o Ancelotti, che aveva mostrato doti strategiche già nella sua Emilia, furono esperimenti riuscitissimi, non altrettanto si può dire dei tentativi successivi che, complice un crepuscolo societario, divennero meteore scomparse nella notte dei rimpianti. Fu così per Clarence Seedorf, chiamato in panchina a 37 anni per sostituire Allegri nel gennaio 2014. Un derby vinto e una media punti di 1,84, ma anche un ottavo posto finale che non valse l’Europa per la stagione successiva. Il tutto condito dalla doppia eliminazione in Champions e in Coppa Italia e da rapporti progressivamente sempre più freddi con Adriano Galliani. Quella stella, dunque, cadde. Ma non il progetto concettuale, tanto che al suo posto fu chiamato Filippo Inzaghi, altro super campione milanista sin lì forte della sola esperienza da allenatore della Primavera rossonera, con la quale per altro aveva vinto il Viareggio. All’epoca aveva solo 41 anni e mostrava in panchina la stessa feroce determinazione che trasudava in campo. Durò una sola stagione. Che si concluse col decimo posto, uno di quelli grigi e senza Europa che disegnano una parabola effimera. E l’addio arrivò puntuale e scontato. Ma se per Seedorf il sentiero ‘tecnico’ avrebbe riservato solo altre fugaci e non esaltanti avventure prima che gli si aprissero le porte del Consiglio amministrativo della Nazionale olandese, per Pippo quel fallimento fu l’architrave di una ricostruzione umile e ambiziosa allo stesso tempo. Perché la gavetta, per chi gode di fama planetaria, non è necessariamente una diminutio. Anzi, può rivelarsi l’architettura più solida per una carriera affrontata con onesta fatica. E allora ecco la promozione col Venezia dalla serie C alla serie B, ecco quella col Benevento dalla B alla A ed ecco la corsa verso lo stesso traguardo col Pisa. E poco importa che le uniche altre tre esperienze nella massima serie con Bologna, Benevento e Salernitana si siano rivelate dolorose. Perché chi non teme la gavetta, sa sempre come ricominciare spendendo l’esperienza accumulata in progetti luminosi. Come Gennaro Gattuso. Anche lui arrivò giovanissimo sulla panchina del Milan, sostituendo l’esonerato Montella. Aveva già preso confidenza col nuovo ruolo tecnico da qualche anno, ma sempre con percorsi piuttosto accidentati: 6 partite al Palermo prima che Zamparini lo esonerasse, una quindicina con l’Ofi Creta prima delle dimissioni, una promozione dalla C alla B col Pisa prima che turbolenze societarie non chiudessero con amarezza anche quell’esperienza. E anche lui, come Inzaghi, passò dalle giovanili rossonere direttamente alla guida della prima squadra. Un primo segmento di stagione promettente nella quale rivitalizzò una squadra spenta sino a portarla al sesto posto e in Europa League con una media punti di 1,83, oltre che in Finale di Coppa Italia. Una seconda stagione più tormentata, nella quale il piazzamento Champions fu solo sfiorato. L’addio non ebbe il sapore del buio che consuma una meteora, visto che il Napoli lo scelse subito per sostituire Ancelotti e visto che, dopo la doppia stagione in Campania, restò fermo solo un anno prima di Valencia, Marsiglia e Spalato. E tuttavia anche per Rino si spalancò l’antro dei rimpianti per quell’occasione di diventare il nuovo ‘verbo’ rossonero. La storia, insomma, riempie il suo cielo di stelle cadenti come nella notte di San Lorenzo. E non risparmia nessuna delle tradizionali grandi dell’italico mondo calcistico. De Rossi non è solo un ex campione della Roma, ne incarna lo spirito e l’umore vibrando all’unisono rispetto all’ambiente e alla tifoseria. E nel gennaio del 2024 fu chiamato ad occupare la panchina dei suoi sogni, più per calmare la piazza dopo l’esonero di Mourinho che per effettiva convinzione. Del resto aveva 40 anni e un’unica esperienza, per altro breve e poco esaltante, sulla panchina della Spal in Serie B. Ma la sua anima romanista e le sue competenze, alimentate nel periodo passato accanto a Mancini in Nazionale, furono sufficienti per rianimare il talento e le ambizioni di una squadra che, con lui, si attestò sulla media punti di 1,89 fino al raggiungimento del sesto posto. Sembravano i rintocchi di una storia d’amore capace di evolversi dal campo alla panchina senza soluzione di continuità. Ma il traballante incipit della stagione successiva fu fatale: 4 partite, zero vittorie e la sua scia nel cielo scomparve di colpo. E tornando indietro di qualche anno, anche Napoli testimoniò il rapido e incolore passaggio di un grande ex campione che in quello stadio vinse uno scudetto strepitoso in maglia rossonera contro Maradona, ma che da quella panchina spiccò un volo più breve di un’effimera. Roberto Donadoni non era certo alla prime armi quando arrivò alla corte di De Laurentiis per sostituire Reja. Anzi, era reduce dall’esperienza di Ct della Nazionale italiana. Ma a livello di club quella rappresentava la sua grande occasione, perché sino ad allora in Serie A aveva allenato solo il Livorno. Non decollò mai. Né nelle ultime 11 partite del 2008/09 , né nelle prime 7 della stagione successiva . E la storia si chiuse con l’arrivo di Mazzarri. Certo, la carriera di Donadoni proseguì eccome. In modo più che dignitoso e con qualche perla che rimane nella storia, come il sesto posto centrato col Parma nel 14/15. E tuttavia la grande occasione napoletana fuggì via senza lasciare segni, come un desiderio espresso di corsa allo spegnersi di una stella cadente. Ma non occorre essere stati grandi campioni sul campo per imbattersi in opportunità che svaniscono in fretta. Un paradigma è Andrea Stramaccioni. Lui a calcio non giocò praticamente mai, perché un gravissimo infortunio mise fine ai suoi sogni quando ancora era un promettente ragazzino del Bologna. Ma la sua freschezza e i suoi successi con la Primavera dell’Inter convinsero Massimo Moratti a promuoverlo alla guida dei nerazzurri a soli 36 anni al posto di Ranieri. E a confermarlo per la stagione successiva. Nella quale vinse un derby, mise insieme la bellezza di nove vittorie consecutive e si prese il lusso di infliggere alla Juventus la prima sconfitta nel suo nuovo stadio. Ma non bastò. Perché la solidità della sua Inter si consumò in mille rivoli finendo per disegnare una stagione negativa marchiata dal nono posto, un girone di ritorno da 19 punti e 16 sconfitte complessive. Ma le occasioni perse non sono una sentenza. I fallimenti di ogni singola storia umana non sono la quintessenza di un destino cui assoggettarsi con rassegnazione. E ciò che scompare alla vista non necessariamente è una meteora che smette di brillare. La storia è un continuo divenire, che qualche volta costringe a lunghi e intricati percorsi ma che in alcune circostanze dimostra che ciò che sembra una stella cadente è in realtà un fiume carsico. Che si inabissa nelle viscere della terra per poi ricomparire più possente e travolgente. La prima esperienza in Serie A di Antonio Conte fu un mezzo disastro. Arrivò a Bergamo dopo un’estate tribolata, fatta di una surreale miscela di gioia e amarezza. Aveva appena centrato la promozione col Bari, ma il suo addio alla società dei Matarrese sembrava ormai scontato. Molti sostenevano che dietro al lungo e sfiancante balletto sul rinnovo di contratto ci fosse la Juventus, pronta ad accoglierlo per dare vita a un nuovo ciclo. Ma quel sentiero non era ancora maturo, tanto che alla fine il sospirato rinnovo col Bari arrivò. Per durare lo spazio di qualche giorno, prima di una rescissione determinata da distanze incolmabili nella progettualità di allenatore e società. E allora ecco profilarsi l’occasione Atalanta. Certo, non era ancora la Dea di Percassi ma solo la dignitosissima creatura di Ruggeri, ormai giunto al crepuscolo della sua presidenza, il cui unico orizzonte era rappresentato dalla salvezza. Ma l’esonero di Gregucci dopo una manciata di giornate aprì le porte della Serie A proprio al quarantenne Antonio Conte. Che durò poco più di 100 giorni e 13 partite, prima di dimettersi di fronte alla contestazione dei tifosi e alle frizioni con alcuni senatori in seno allo spogliatoio, a partire da Cristiano Doni. Allora non furono in molti a scommettere sul roseo futuro di un allenatore poco incline alla diplomazia e al compromesso, sia nei confronti delle componenti societarie sia riguardo ai rapporti con l’ambiente e con lo spogliatoio . Un candidato perfetto per la notte di San Lorenzo, insomma. E invece Conte di lì a poco avrebbe dimostrato che di fronte alla disponibilità dello spogliatoio sapeva perfettamente come creare alchimia e struttura in un gruppo di lavoro. E avrebbe cominciato a macinare titoli su titoli: 3 scudetti alla Juve, uno al Chelsea e uno all’Inter, al netto di 2 Supercoppe italiane e di una Coppa d’Inghilterra. Altro che meteora. E così Gian Piero Gasperini. Il suo Genoa aveva fatto epoca, certo. Basti ricordare il quinto posto del 2008/09. Ma quando arrivò la chiamata dell’Inter sembrò che finalmente, a 53 anni, una delle tradizionali ‘grandi’ del nostro calcio si fosse accorta di lui per mettergli tra le mani un progetto ambizioso. In realtà era l’Inter del post triplete, che in pochi anni avrebbe portato Moratti alla cessione di una società ormai troppo onerosa per un mecenate schiacciato dall’evoluzione finanziaria del calcio europeo. E i dogmi del Gasp avrebbero forse avuto bisogno non solo di tempo, ma anche di assoluta adesione da parte di tutte le componenti. Una convinzione che probabilmente a Moratti mancava sin dall’inizio. Aveva perso Mourinho e Leonardo in due anni e finì per subire, più che promuovere, la scelta dell’ex allenatore del Genoa per la guida tecnica dell’Inter. Tanto che a Novara, dopo una sconfitta umiliante, passò all’azione esonerandolo. Erano passate solo 3 partite di campionato: 2 sconfitte e un pari . Fine dei giochi. “Non è un allenatore da grande squadra”, dissero in molti. Un conto è creare un gioco in piazze pazienti e senza quei supercampioni che nello spogliatoio possono guardare un allenatore negli occhi e opporre resistenza, un conto è farlo invece all’Inter, al Milan, alla Juventus o nelle altre società costruite per vincere. Gasp seppe ripartire, non senza qualche difficoltà , ma il ritorno al Genoa e soprattutto il passaggio all’Atalanta di Percassi piegarono la storia. E’ vero, nei successivi 13 anni nessuna ‘grande’ gli ha mai seriamente offerto una seconda opportunità. Ma se una ‘grande’ non si fa viva, non resta che crearla forgiandola direttamente in provincia: per 5 volte in 8 anni la sua Dea si è piazzata nelle prime 4 posizioni della classifica, all’estero ha sorpreso tutti mettendo in fila estimatori e ammiratori sino alla conquista dell’Europa Legue nella scorsa stagione, il suo bilancio complessivo nei 9 anni di guida tecnica ha contorni storici e favolistici. E questa sarebbe una stella cadente? Per non parlare di Luis Enrique. Arrivò a Roma nel 2011, a 41 anni, dopo la sola esperienza al Barcellona B. Fece intravvedere la sua idea di calcio in alcune esaltanti partite, alternate tuttavia a sfide scoraggianti. Finì la stagione al settimo posto, fuori dai piazzamenti europei come da quelle parti non accadeva dal 1997. La sua media punti si rivelò bassa, diciamo pure deludente, con 1,47 a partita. Un fallimento. Una meteora neppure troppo brillante. Ricominciò dal Celta sino a meritarsi il ritorno alla casa madre, il Barcellona, stavolta alla guida della prima squadra. E negli ultimi 5 anni di carriera, tra Barca e Psg, ha vinto 4 volte il campionato. Del resto negli anni ’70 dissero tutto il peggio possibile anche di Brian Clough, in qualche modo antesignano dei fiumi carsici scambiati per stelle cadenti. Era stato un mediocre giocatore di Second Division con Middlesbrough e Sunderland, ma da allenatore aveva già avuto modo di stupire alla guida del Derby County col quale aveva conquistato il primo storico titolo nel 71/72. Tuttavia la sua grande occasione portava il nome di Leeds United, fresco campione d’Inghilterra e club di grandissimo prestigio sotto la guida di Don Revie, appena diventato Ct della Nazionale. Durò una manciata di partite, litigò praticamente con tutti, lasciò con la squadra allo sfascio. Carattere fumantino e incline a una comunicazione spesso greve e senza filtri, venne ritenuto una figura professionale con troppe lacune per poter aspirare a grandi traguardi. E su quella storia al Leeds si scrisse moltissimo, compreso un romanzo che diede vita al film “Il maledetto United”. Eppure nel 1975 finì al Nottingham dove non solo vinse tutto, comprese 2 Coppe dei Campioni, ma dove restò per 18 anni con buona pace di chi non lo riteneva capace di rapporti interpersonali decenti. Non meteore, quindi. Ma fiumi carsici. Che scompaiono e che ricompaiono dopo aver dato l’illusione di aver abbandonato la realtà e la storia. Come il Timavo, dove secondo il mito approdarono anche gli Argonauti, un manipolo di eroi guidati da Giasone votati alla conquista del Vello d’oro nella Colchide dopo mille avventure e apparenti sconfitte. Una parabola che vale per qualsiasi essere umano. Nessuno, in definitiva, deve sentirsi una meteora, quale che sia la sua storia, ma un fiume sotterraneo che prima o poi tornerà alla luce. Del resto lo diceva anche l’indimenticabile Bob Marley: “Se esprimi un desiderio è perché vedi una stella. Se vedi una stella è perché stai guardando il cielo. Se stai guardando il cielo è perché credi ancora in qualcosa”.

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