Perché Toro-Juve è diverso da tutti gli altri derby

Milano, Roma e Genova. Le città dei derby, dove le sfide sono incerte. Ogni tanto è più forte il Milan, ogni tanto l’Inter. Qualche volta è meglio la Roma, altre la Lazio. Un anno si fa preferire il Genoa, la stagione dopo la Sampdoria. Poi Torino: anche lì c’è il derby, ma non l’equilibrio. Da una parte la Juventus, la squadra degli Agnelli, simbolo di potere prima ancora che di ricchezza. Dall’altro il Torino, anzi il Toro, la sua storia fatta di poesia e tragedia fuse insieme. Gli indiani e i cowboy, sintetizzò Emiliano Mondonico, l’allenatore granata più amato degli ultimi 30 anni, e l’immagine è efficacissima. Certa sociologia facilona ha spiegato la scelta della squadra per cui tifare in termini economici, i ricchi con la Juve, i poveri a simpatizzare per il Toro, toppando clamorosamente. Per i granata si è spesso schierata la borghesia, il Conte Cinzano presidente del primo scudetto e padre dello stadio Filadelfia, Ferruccio Novo imprenditore del cuoio che costruì il Grande Torino, Orfeo Pianelli unico capace di riportare il club al titolo dopo Superga. Una tifoseria che abita molto più il centro che la periferia, affascinata dalla passione e dell’agonismo di una squadra per la quale, nell’ora e mezzo della partita, si abbandona il proverbiale sobrio distacco dei torinesi. Il giudice Giancarlo Caselli ha sempre fatto convivere l’inappuntabile Dottor Jekyll procuratore antimafia di Palermo con l’agitatissimo mister Hyde tifoso granata sugli spalti. La Juve, invece, ha sempre rappresentato tutto l’universo sociale: con sciarpa e bandiera bianconera puoi vedere il benestante come il proletario, il colto e l’ignorante, la ‘madama’ dei caffè eleganti e il soggetto dai modi rudi, tutti innamorati di una squadra sinonimo di successo. I lavoratori del Sud arrivati a Torino negli anni del boom economico potevano contestare da operai l’Agnelli padrone Fiat, non il proprietario della squadra che consentiva a loro, emigrati in possesso solo della speranza di un lavoro dignitoso, di vincere tifando per la Juventus: si immedesimavano in un club che, fra l’altro, era trascinato da molti giocatori meridionali, con il siciliano Pietro Anastasi assurto a simbolo di riscatto. Il derby, a Torino, è sempre stato non solo contrapposizione ma anche distanza di interessi, in un campionato che per i bianconeri era votato al bene supremo dello scudetto e per i granata alle due partite in cui potevano rovinare i piani. A parte il dopoguerra con il Grande Torino e i ruggenti anni ’20, soli periodi in cui la Juventus è stata meno competitiva, quella è stata la filosofia, soprattutto negli anni ’70, l’epoca in cui alla classe bianconera si contrapponeva il ‘tremendismo’ granata, copyright dell’impareggiabile Giovanni Arpino: descriveva l’agonismo portato alle estreme conseguenze da chi in campo con il temperamento ribaltare i valori tecnici, virtù rappresentata ai massimi livelli da Giorgio Ferrini. Per questo il derby era patito molto più dagli juventini che dai torinisti, perché se la vittoria bianconera rappresentava la normale amministrazione, quella granata era il rovesciamento delle parti, l’uomo che morde il cane secondo l’assioma giornalistico che spiega cos’è una notizia. Gianni Agnelli, torinese prima ancora che juventino, diceva che il derby era la partita che odiava perdere ma non trovava gusto a vincere, e almeno l’Avvocato li vedeva per intero. Peggio era per Giampiero Boniperti, che soffriva troppo e lasciava lo stadio a fine primo tempo. Lo faceva anche per le altre partite, ma la sfida con il Toro era la più detestata, lui bianconero fino al midollo, eppure con Gian Paolo Ormezzano come miglior amico, giornalista di una classe immensa e non inferiore al tifo per i granata. Si era sempre augurato di vedere un derby in Serie B, e per un soffio non venne accontentato: l’anno della retrocessione a tavolino della Juventus il Toro aveva riconquistato la Serie A. Chi scrive ha occupato tanto spazio per spiegare cos’è il derby, al mitico GPO, come da firma ai suoi articoli, erano bastati due ausiliari: la Juve è l’avere, il Toro è l’essere.

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Perché Toro-Juve è diverso da tutti gli altri derby

Nicola Roggero