"Caro calcio, ti amo e ti odio. Ma sei tutto per me": lettera di Stefano Okaka al calcio

Caro calcio, io non so cosa tu mi abbia fatto. Ma so che me l’hai fatta. Me l’hai fatta sempre. Non riesco a non pensarmi calciatore, non riesco a vedermi diversamente. E forse è per questo che alla fine ho deciso di tornare dopo due anni: mi hai fatto fare questa pazzia, ma io sapevo nel mio cuore che l’avrei voluta fare. Sei stato tutto per me, sei tutto per me. Sei la mia routine quotidiana, sei il mio primo allenamento dopo colazione, sei il mio pranzo con la squadra, il lavoro in palestra a giorni alterni. Con te sono cresciuto, ci sono entrato nemmeno troppo in punta di piedi a 15 anni e da oltre 20 accompagni ogni secondo della mia vita. Perché non è solo la partita, ma è sentire il fisico stremato ma felice al termine dell’allenamento più pesante, percepire il suono del coro dei tifosi o sentire il vuoto quasi pneumatico dello stadio quando facciamo il giro di ricognizione. Per non parlare del profumo dell’erba tagliata e leggermente inumidita dall’irrigazione. Io a Ravenna ho deciso di sfidare me stesso: due anni di inattività, per un atleta, sono come un’eternità. Per un atleta della mia stazza fisica, poi, è forse ancora peggio. In pochi l’avrebbero fatto: è una scelta di resilienza, di testa e di cuore. È un grande sacrificio anche mentale, perché ho deciso di ripartire da zero dopo una carriera che a me ha dato tantissimo, anche se non tutti questo l’hanno capito. Perché ho sempre dovuto convivere con un’etichetta di ‘giovane predestinato’ che mi è pesata tanto. Molto di più di quello che si pensi: ho segnato un po’ ovunque e in tutte le categorie dei campionati più importanti al mondo, ho vestito la maglia della Nazionale. Penso di essere stato bravo. Non un fenomeno, come volevano che diventassi. Ma se non ero predestinato, ero comunque destinato a fare qualcosa e ne sono orgoglioso, al netto di errori che ho fatto e che mi tornano in mente. Perché un calciatore di alto livello non lotta contro gli altri, ma contro sé stesso. A 16 anni, deve essere maturo come una persona di 30. E ora che ne ho 36, devo essere il fratello maggiore per i miei nuovi meravigliosi compagni, ma devo comunque mantenere la forza di quando ero giovanissimo. È un costante limbo, una rincorsa continua a cercare di essere sempre la versione migliore di sé stessi, anche quando non è proprio possibile. Tornare a giocare rappresenta questa mia voglia non tanto di riscatto, ma di crescita. Perché l’Okaka di 36 anni si guarda allo specchio e si dice di voler ancora vivere tante sfide. E provare a vincerle. Non sono un uomo, ma quasi: e in quel quasi c’è tutto il mio aspetto giovanile che deve emergere, ci deve essere quel ragazzino che ha ancora voglia di giocare in campo per ottenere dei risultati, di sorridere. Di fare un gol di tacco. Quello con la Roma, di quando ero piccolissimo, è stato un po’ il mio biglietto da visita. A Ravenna l’ho rifatto e non ci ho nemmeno pensato: era l’unica scelta possibile, in quel momento, per segnare. Ma quando la palla è entrata, mi sono rivisto bambino: ho corso, corso come un matto. Mi sono tolto la maglia, sono esploso di gioia: dietro di me non c’era De Rossi, ma tutto il Ravenna che voleva abbracciarmi. E mi sono sentito davvero felice. Perché alla fine, caro calcio, tu per me sei odio. Ma sei soprattutto amore. E quando sono in campo, io sono felice e basta. Sono felice perché mi sento Stefano Okaka a tutti gli effetti. Perché sento che il mio corpo continua a seguirmi. Perché quei profumi di erba umida e tagliata non sono mai cambiati, anche se intorno a me è cambiato tutto. Perché, alla fine, è anche grazie a te che io sono riuscito a dare una vita migliore alla mia famiglia. Quando ho cominciato a giocare, il mio vero obiettivo era questo. Prima di ogni altra cosa. E se pensano che il ‘ragazzo predestinato’ non sia diventato uomo, si sbagliano di grosso. Io uomo lo sono diventato. Anzi, quasi. Perché la mia storia, caro calcio, la sto ancora scrivendo. Stefano Okaka

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