Il Toro da primato anni '70 raccontato ai più giovani

Sono i terribili anni ’70, vissuti tra recessione industriale, stragi neofasciste e terrorismo rosso. Torino paga un prezzo altissimo: solo nel 1977 vengono uccisi l’avvocato Bruno Caccia, il brigadiere Giuseppe Ciotta, il vice-Direttore della Stampa Carlo Casalegno. Economicamente la città patisce la crisi della Fiat, che evita il fallimento solo con il discusso ingresso di Gheddafi nel capitale sociale, ma nell’autunno 1980 mette in cassa integrazione 24.000 lavoratori dello stabilimento di Mirafiori. In questo scenario fosco l’unica luce arriva dal calcio, con la città che domina i campionati: c’è la consueta superiorità della Juventus, ma si aggiunge anche il Toro più bello dai tempi dello squadrone caduto a Superga. La facile sociologia, ricchi con i bianconeri, poveri con i granata, oltre che banale è falsa. La Juve non è solo la squadra degli Agnelli, ma anche la formazione per cui tifano gli operai emigrati dal Sud, che si identificano nelle gesta dei siciliani Anastasi e Furino, del pugliese Causio, del sardo Cuccureddu. Con i granata si schierano anche i borghesi che non si identificano con il mondo Fiat o, più semplicemente, coloro che hanno visto Valentino Mazzola e compagni: sono ancora tanti negli anni ’70, passione che ancora oggi si tramanda ai figli e ai nipoti. Il Toro dopo Superga ha vissuto anni grami, conoscendo persino la retrocessione in B e legandosi ai simboli: come Enzo Bearzot, capitano per oltre 10 anni prima di diventare leggendario commissario tecnico, o Gigi Meroni, meraviglioso talento irregolare, scomparso giovanissimo come tradizione di un club dove persino l’epopea è intrisa di tragedia. La luce comincia a intravedersi a inizio anni ’60: diventa presidente Orfeo Pianelli che porta sulla panchina il Paron Nereo Rocco. Terzo posto nel ’64, miglior piazzamento dopo Superga, e basi gettate per il futuro. Un paio di coppe Italia, 1968 e 1971, poi come allenatore spunta un colbacco. Sotto c’è Gustavo Giagnoni, sardo di Olbia, buona carriera da calciatore con il Mantova, formazione che da allenatore porta alla promozione in Serie A. Pianelli, originario proprio di quella città, lo vuole in panchina. Il Toro svolta, sfiorando subito lo scudetto. In testa alla classifica a quattro turni dalla fine, i granata vedono sfumare il titolo per una beffarda sconfitta a Marassi con la Samp: l’arbitro Barbaresco non vede che il tiro di Aldo Agroppi era stato respinto ben oltre la linea da Marcello Lippi . Sarebbe stato il pareggio, il punto perso diventa decisivo per la vittoria della Juventus. Sono anni in cui Giovanni Arpino, sommo scrittore innamorato del calcio, vara un termine che resterà per sempre appiccicato ai granata: ‘tremendismo’. Una squadra, cioè, che oltre alla tecnica esibisce rabbia e agonismo in tale quantità da rendere dura la sfida per ogni avversario. L’interprete massimo è Giorgio Ferrini, triestino fiero e coraggioso, condottiero più che capitano, ma ci sono anche il già citato Aldo Agroppi, il difensore Angelo Cereser, il terzino Natalino Fossati. L’esempio massimo del tremendismo arriva nel derby, dove la grinta dei granata annulla, sino a ribaltare spesso, la maggiore qualità della Juventus. In uno di questi perdono la trebisonda Causio e Giagnoni, e il primo finisce al tappeto, pardon sull’erba, con un gancio degno dei migliori ring: l’uomo del colbacco entra nel pantheon del tifo granata. Sono gli anni in cui la sfida cittadina è vista con apprensione dai tifosi bianconeri mentre i granata si affidano a un giovane attaccante arrivato dalla periferia di Milano e capace di esaltarsi come nessuno in quella partita: Paolo Pulici, per tutti ‘Puliciclone’, definizione di Gianni Brera che richiamava la potenza unita alle doti tecniche. Nessun giocatore del Toro dopo Superga godrà della sua popolarità, un semidio per la curva Maratona da cui sembrava trarre forza ed energia come in una vicenda omerica. Sarà lui il cardine su cui un giovane allenatore arrivato nel 1975 modellerà la squadra capace di vincere lo scudetto. Si chiama Gigi Radice, ha 40 anni, una carriera da calciatore al Milan troncata da un grave infortunio e un’avventura in panchina in cui ha già esibito ottime cose: promozione in B con il Monza, in A con il Cesena, buoni campionati con Fiorentina e Cagliari. Trova una squadra che ha già dei punti fermi: oltre a Pulici, Luciano Castellini, per tutti il ‘Giaguaro’, in porta e Claudio Sala, ala dal dribbling illeggibile, cui viene affidata la fascia di capitano. Radice è coraggioso, non solo sul campo dove il suo modello di gioco è il calcio totale dell’Olanda di Michels s Cruijff, ma anche nelle scelte. Vengono ceduti Agroppi e Cereser, Fossati e Rampanti. Lascia anche capitan Giorgio Ferrini, che diventa suo assistente. Meritava più di tutti lo scudetto da giocatore, farà giusto a tempo a goderselo da tecnico prima di essere portato via ad appena 37 anni: al Toro non c’è gioia senza dolore. Erano i giocatori simboli del tremendismo granata, la mossa è impopolare ma pagherà dividendi. Dal settore giovanili sono lanciati in prima squadra Renato Zaccarelli, centrocampista elegante in campo e fuori, e il solido difensore centrale Roberto Mozzini. Come centravanti da un paio di stagioni affianca Pulici un ciociaro di Subiaco, compaesano di Gina Lollobrigida: è Francesco Graziani, per tutti Ciccio, la coppia diventerà universalmente nota come ‘I gemelli del gol’. Sul mercato pochi movimenti, il principale l’acquisto di Eraldo Pecci, centrocampista del Bologna, romagnolo dai piedi fatati e la battuta tagliente. Sarà lui a suggerire l’ingaggio di un suo compagno in rossoblù, il libero Vittorio Caporale, friulano silenzioso, tatticamente importante, mentre dal Monza viene ingaggiato Patrizio Sala, ventenne come Pecci, polmoni da mezzofondista per il centrocampo. Squadra giovane, il solo Castellini ha 30 anni, tra i giocatori di movimento il più anziano è il ventinovenne Nello Santin, terzino dagli occhi belli come un divo di Hollywood, sulla fascia sinistra Roberto Salvadori, una delle chiavi del gioco di Radice, capace di risalire il campo dalla difesa per proporre il cross. Il Toro gioca bene, la classifica sorride e il primo segno che il destino potrebbe finalmente essere dalla parte dei granata arriva il 7 dicembre. Ottava d’andata, il derby pare in linea con un pomeriggio freddo e nebbioso, per 75 minuti non capita nulla. Poi, in tre minuti, i fuochi d’artificio: segna Graziani, Pulici raddoppia e il Toro si trova in testa. Non dura, alla vigilia della primavera la restaurazione è cosa fatta, Juve davanti con 5 punti sui granata, un abisso nell’epoca dei 2 punti a vittoria. Poi succede l’impossibile, anzi l’improbabile visto che accade sul serio. Il primo giorno di primavera la Juve va a Cesena, e nella Romagna che è un tempio del tifo bianconero perde 2-1, mentre una rete di Graziani regola la Roma e porta il Toro a meno 3. La settimana dopo c’è il derby, ed è un altro segno del destino, come spesso capita in quegli anni non c’è storia: 45 minuti, 2-0 per i granata aiutati persino dalla buona sorte, sulle conclusioni di Patrizio Sala e Graziani ci sono le deviazioni decisive di Cuccureddu e Damiani. Finisce lì, in tutti i sensi: Castellini colpito da un petardo e deve uscire, il gol di Bettega non varrà per la statistica, il giudice stabilisce il 2-0 a tavolino. Meno 1, ma davanti c’è ancora la Juve. 4 aprile, doppio incrocio con le milanesi. Mentre a San Siro la Juve è sullo 0-0 con l’Inter, Graziani porta avanti il Toro con il Milan. Virtuale parità in classifica, poi nuovamente quello che nessun copione può prevedere. Radice sfida l’ira della folla granata e toglie Pulici. Una specie di sacrilegio, ma avrà ancora ragione lui: entra Salvatore Garritano, giovane cosentino, segna il 2-0, punto massimo di una carriera che ad alti livelli di fatto finisce lì. Nello stesso momento, a San Siro, Mario Bertini su punizione infila Zoff, terza sconfitta consecutiva della Juve, un sorpasso giudicato impossibile che si materializza in appena quattordici giorni. Il Toro non si fermerà più, attento anche a riti apparsi come segnali. Come un tale che ogni sabato, alla vigilia delle partite in casa, si fa un’infinita camminata dal centro sino alla collina, a Villa Sassi, sede del ritiro granata. Dice di voler consegnare a Radice la formazione. Sulle prime lo respingono, ma con le cose che andavano bene anche il tecnico, pur rigido come un sergente, prende a farsi dare il magico foglietto. Cominciano a chiamarlo Ramsey, come il ct dell’Inghilterra campione del mondo. “Ramsey, sono in forma, domani gioco?”, chiedeva Pecci che proprio non riusciva a star serio. Quello rispondeva con un sorriso e se ne andava soddisfatto. O come una ragazza che salutava da un terrazzo di Via Filadelfia il pullman della squadra che arrivava allo stadio. Non sapevano chi fosse, la chiamarono ‘Bagna Cauda’, il famoso piatto piemontese. Anche quell’appuntamento era diventato sintomo di buona sorte: la volta che per esigenze di traffico si era deciso per un’altra strada i giocatori fecero invertire la rotta per il passaggio sotto il balcone. Sei giornate e il Toro mantenne il vantaggio, trascinato da un gioco moderno e dai gol di Pulici per la terza volta in carriera capocannoniere, mancando un record che sarebbe stato solo eguagliabile: il percorso netto di vittorie in casa, sfuggito all’ultima giornata per un autogol di Mozzini dopo un’incomprensione con Castellini nel match pareggiato con il Cesena. Era il 16 maggio, il Torino era campione d’Italia, ventisette anni dopo Superga, e allora non si sapeva che sarebbe rimasto l’ultimo scudetto. Giampaolo Ormezzano, Direttore di ‘Tuttospor’t e granata fino al midollo, partorì il titolo della prima pagina mentre usciva commosso dallo stadio. Aveva incrociato un signore che ben conosceva, a sua volta in lacrime. “Beato lei che può piangere in pubblico, io per ragione del mio ruolo non posso farlo”: era Bearzot, diventato ct ma rimasto capitano granata. “Toro lassù qualcuno ti ama”, si lesse il giorno dopo sul quotidiano torinese. Lassù era la collina di Superga, dove un fiume di persone salì in un corteo spontaneo: non era stato preparato nulla, era un omaggio fatto di devozione. Le strade si bloccarono, persino i giocatori furono costretti ad arrivare in cima con mezzi di fortuna: qualcuno, come Zaccarelli e Pulici, trovò un passaggio sul cassone di un camion. “La più bella festa di popolo dalla liberazione del nazifascismo”, commentò Diego Novelli, sindaco che proseguiva la tradizione dei primi cittadini torinesi di fede granata. Fu la notte del Toro e del suo popolo, grazie a una meravigliosa squadra che l’anno dopo andò vicina ripetere l’impresa, quando non bastarono 50 punti su 60: la Juve arrivò a 51. Una notte fatta di gioia e di commozione, sentimenti che il mondo granata coltiva in simultanea. Come accadde nell’agosto del 1976, quando al debutto stagionale chi aveva più di 35 anni era scoppiato in lacrime. I giovani non capivano, gli spiegarono che i granata per la prima volta tornavano a scendere in campo con lo scudetto sulla maglia. Era l’immagine classica per chi aveva visto in azione il Grande Torino. Solo chi tifa Toro poteva capire.

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