Cosa rimarrà di Inzaghi nella storia dell'Inter

Il tempo è una freccia che segue una direzione ben precisa disegnando un arco, lo spazio, elemento con cui va a braccetto come un amante fedele. Il problema è che non torna mai indietro malgrado non esistano leggi fisico/matematiche che ne escludano la possibilità. In altre parole, se facciamo cadere un bicchiere di cristallo a terra, la fisica sarà in grado di spiegarci esattamente perché vada in frantumi, perché ci vada esattamente in quel modo e perché l’arcipelago di cocci che restano a terra finiscano esattamente in quei punti. Ma non può spiegarci perché non accada mai il contrario: e cioè che un mucchio di cocci diventino un bicchiere grazie allo scorrere del tempo in direzione opposta. Sappiamo che non è possibile, ma non sappiamo perché. Il motivo, secondo la Scienza, è uno solo: la natura tende sempre a passare dall’ordine al disordine. E’ questa la direzione della freccia del tempo. E anche se nessuna legge della fisica può escluderlo, il tempo non invertirà mai quella marcia. Se questo è vero, allora valgono alcune equivalenze: la stasi che precede la nascita è ordine, la vita è disordine. L’ignoranza è ordine, lo studio e l’apprendimento portano disordine. Il fischio d’inizio di una partita è ordine, il suo svolgimento è progressivo disordine. Ogni emozione non è altro che una frattura dell’atarassia, del banale e noioso equilibrio che solo frantumandosi sparge cocci di rugiada. E in effetti cos’è la storia se non una galleria di frammenti di memoria che segnano svolte e custodiscono sentimenti che riemergono per sinestesia o per la testimonianza di chi li ha vissuti? E scorrendo il suo nastro, come si può stabilire in quale misura gli accadimenti incidano sulle scelte, sulle prospettive, in una parola sul futuro? Limitandoci alla storia dell’Inter, la domanda diventa: la separazione tra Simone Inzaghi e l’Inter è da considerarsi un’evoluzione naturale, prodotto dell’ineliminabile entropia, o contiene i germi di un errore cui i protagonisti di questa storia avrebbero potuto o dovuto porre rimedio iniettando tutta l’energia necessaria a frenarne l’esito? In altre parole, il divorzio era inevitabile o costituisce una forzatura? Certo, una Finale di Champions persa in quel modo rappresenta certamente una frattura emotiva di grande portata. Che porta con sé riflessioni, dubbi, moti di delusione, fatica psicologica e opprimente stress di cui si sente la necessità di liberarsi in fretta. Ma questo aspetto, per quanto enfatizzato dall’enorme valenza emotiva, non è altro che un dettaglio in un quadro molto più articolato che forse vale la pena osservare nella sua interezza. I criteri di analisi sono molteplici e ognuno offre una prospettiva originale e unica, sia che ci si fermi alla dimensione quantitativa, sia che si esplori quella qualitativa o “filosofica”. Partiamo dalla materia più fredda, i numeri: Inzaghi se ne va dopo aver conquistato 6 titoli, appena dietro ad Herrera e Mancini, che in questa particolare classifica occupano il primo posto con 7. Il tecnico argentino architetto della Grande Inter di Angelo Moratti negli anni ’60 portò nella bacheca solo trofei “pesanti”: 3 scudetti, 2 Coppe Campioni, 2 Coppe Intercontinentali. Il tecnico jesino, scelto dal figlio Massimo come scintilla per la costruzione di una nuova edizione di Grande Inter, portò a casa 3 scudetti , 2 Coppe Italia e 2 Supercoppe italiane. Simone Inzaghi ha messo insieme uno scudetto, 3 Supercoppe e 2 Coppe Italia. Ma una classifica basata meramente sul numero dei titoli rischia di essere fuorviante, perché esclude allenatori capaci di imprese storiche ed evita di “pesare” i trofei omettendo altri specifici criteri: quanto vale una Supercoppa rispetto a una Champions? E quanto una Coppa Italia rispetto a uno scudetto? E soprattutto, il numero di stagioni passate alla guida della squadra quanto incide rispetto al bottino complessivo? Sì, perché in questo caso dovremmo ricordare che Herrera è stato all’Inter 9 stagioni, Mancini 6, Inzaghi 4. Se dunque considerassimo solo il numero dei titoli vinti, Simone sarebbe al secondo posto, se invece considerassimo quei titoli in rapporto alle stagioni supererebbe gli altri due piazzandosi dietro a Mourinho, capace di vincere 5 titoli in soli due anni. E se, infine, decidessimo di attribuire un peso maggiore alle vittorie europee e agli scudetti, Inzaghi resterebbe nella galleria dei migliori, ma alle spalle di Herrera e Mou, gli unici allenatori nerazzurri ad aver sollevato la coppa dalle grandi orecchie portando a casa contestualmente qualche tricolore in più. Dunque i numeri cambiano la percezione a seconda dell’interpretazione, pur certificando a prescindere la grandezza di Simone Inzaghi nella storia dell’Inter accanto ad altri “mostri sacri”, tanto più se si considerano le due finali di Champions giocate in 3 anni, traguardo che solo chi è in malafede può considerare pleonastico. Ma i numeri, in ogni caso, raccontano poco. Perché non tengono conto del contesto, del metodo e della filosofia alla base delle imprese sportive. Partiamo dal contesto: Inzaghi è arrivato all’Inter in un momento di svolta, nel quale l’ambizione del club doveva necessariamente coagularsi a un ridimensionamento dei costi. La proprietà cinese della famiglia Zhang mostrava segni di evidente sofferenza economica e il bilancio non poteva più contare su massicce iniezioni di liquidità, circostanza alla base dell’addio di Conte nell’estate del 2021, subito dopo lo scudetto numero 19 della storia interista. E il primo mercato messo a disposizione di Simone non fece che confermare la nuova tendenza: via Lukaku per più di 100 milioni e via Hakimi per altri 60. Al loro posto Dzeko e Dumfries, allora solamente un prospetto interessante, per 12 milioni. Vero, arrivarono anche Calhanoglu e Dimarco, oggi pezzi pregiatissimi di quest’Inter, ma allora intuizioni di una strategia creativa della dirigenza impegnata a trovare soluzioni a bassissimo costo: il primo, infatti, arrivò a parametro zero, il secondo altro non era che un rientro alla base dopo l’ennesimo prestito, nella speranza che si rivelasse almeno all’altezza di quel Ashley Young giunto ai saluti. Inzaghi vinse Coppa Italia e Supercoppa, ma si fermò agli Ottavi di Champions e si lasciò sfilare lo scudetto dal Milan in volata nella fatal Bologna, suscitando critiche feroci. Sì, perché aveva dissipato, si disse, l’onda lunga del successo contiano trasformando una squadra solida in creatura graziosa ma molto meno efficace. Critiche che divennero veri macigni la stagione successiva, quando la sua Inter cominciò il campionato col freno a mano tirato perdendo presto il contatto col superlativo Napoli di Spalletti. Ma che non tenevano conto di un altro calciomercato costruito senza investimenti, per quanto definito da altre scelte intelligenti della dirigenza: Onana a parametro zero, il ritorno di Lukaku , Mkhitaryan a parametro zero, Acerbi in prestito . Gli unici investimenti veri furono i 4 milioni per il prestito con diritto di riscatto per Asllani e i 23 milioni del riscatto di Correa, arrivato in prestito l’anno prima per colmare insieme a Dzeko il vuoto lasciato da Lukaku. Inzaghi non si scompose e non si fece travolgere dalle voci che evocavano l’esonero. Niente sfoghi pubblici o alibi sventolati ai quattro venti. E seppe raddrizzare la stagione non solo col 4^ posto finale, ma anche e soprattutto con un percorso esaltante in Champions, culminato col doppio derby vinto in semifinale e con la successiva finale di Instanbul persa sì con Manchester City, ma al termine di una partita che nessuno si aspettava e che, per quanto prodotto, avrebbe potuto regalare un esito ben differente. Anche la terza stagione, quella della seconda stella, scudetto tanto desiderato quanto meritato, cominciò con un mercato finalizzato al bilancio e quindi volto all’autofinanziamento: via Onana per 50 milioni e Brozovic per 20. Per contro arrivarono Pavard a 30 milioni e Frattesi in prestito ma col il riscatto fissato su cifre simili. Gli altri crack ancora una volta furono il risultato di una lettura lungimirante delle opportunità: Sommer per 5 milioni, Bisseck per 7, Carlos Augusto in prestito, Thuram a parametro zero. La cavalcata trionfale in campionato sfumò le critiche, riemerse solo di fronte all’eliminazione dalla Champions per mano dell’Atletico Madrid, ma senza la passata virulenza. Infine la stagione appena conclusa, con la nuova proprietà e le vecchie abitudini di mercato per assestare definitivamente il bilancio. Nessuna cessione dolorosa, ma anche innesti guidati dalle necessità economiche: Zielinski e Taremi a parametro zero e un solo investimento significativo, quello di Martinez come portiere del futuro alle spalle di Sommer . Come è andata a finire lo sappiamo. Resta l’amarezza del cosiddetto triplete al contrario, certo. Con un altro scudetto perso in volata e la Champions naufragata in una finale scellerata al limite dell’incomprensibile. Ma nel contesto di una stagione affrontata col coraggio di un pioniere in territori inesplorati, perché mai una squadra capace di arrivare in fondo a tutte le competizioni aveva dovuto affrontare un così alto numero di partite. Circostanza che inevitabilmente ha evidenziato lo spessore di una rosa certamente abbondante, ma evidentemente non abbastanza forte e solida da evitare qualche scivolone rivelatosi decisivo. Con buona pace di chi sin dal primo giorno ha definito l’organico nerazzurro tra i primissimi d’Europa quasi a ridimensionare ex ante i meriti dell’allenatore fingendo di non considerare che il quadriennio di Inzaghi ha consentito di aggiustare il bilancio senza perdere in rendimento. Solo in quest’ultima stagione il club ha guadagnato più di 200 milioni grazie alle performances della squadra, elemento che non avrà il prestigio di uno scudetto o di una Coppa, ma che resta l’inalienabile presupposto per la vita e le ambizioni di una società di calcio. Il contesto, insomma, ha un peso. Non di poco conto. Quello in cui si trovò ad operare Helenio Herrera fu certamente diverso. Non fu scelto da Angelo Moratti come ripiego di lusso all’indomani dell’addio di un allenatore vincente, ma come prima e convinta scelta per la costruzione di un progetto ambizioso. Moratti se ne innamorò definitivamente dopo una sconfitta patita dalla sua Inter contro il Barcellona che il tecnico argentino aveva guidato per due stagioni consecutive alla vittoria in Liga. E gli mise a disposizione tutto, passione e disponibilità economica: accettò a malincuore l’allontanamento di Angelillo in rotta di collisione con l’allenatore e comprò pezzo per pezzo le tessere della futura corazzata da affiancare ai talenti cresciuti in casa come Mazzola e Facchetti: Suarez in primis, visto che fu pagato 250 milioni di lire, cifra enorme per l’epoca. Ma poi via via anche Burgnich, Jair, Peirò, Domenghini. E malgrado questo anche Herrera non vinse subito, ma conquistò il suo primo scudetto al terzo anno, dopo aver perso i primi due in volata, la prima volta con la Juventus e la seconda con il Milan, capace di rimontare lo svantaggio nel girone di ritorno per poi vincere con un distacco di 5 punti . E forse è bene ricordare anche che Herrera centrò la Finale di Coppa Campioni solo al quarto anno; vincendola certo, ma perdendo subito dopo lo spareggio scudetto col Bologna. L’anno perfetto di Helenio fu il quinto, il 1964/65, con la conquista di scudetto, Coppa Campioni e Coppa Intercontinentale. Ma anche lui ebbe, in tema di puri risultati, il suo annus horribilis, vale a dire la stagione 1966/67: il 25 maggio l’Inter perse a Lisbona la finale di Coppa Campioni facendosi ribaltare dal Celtic, da 1-0 a 1-2, e una settimana più tardi, il 1 giugno, cadde clamorosamente a Mantova all’ultima giornata regalando lo scudetto alla Juventus . Di fatto fu la settimana che segnò la fine della Grande Inter. L’armonia con Herrera si incrinò ineluttabilmente e Moratti, affranto e deluso, accettò più per rassegnazione che per velleità di ricostruzione lo smantellamento di quella squadra fantastica che l’allenatore riteneva a fine ciclo. Ma coltivando in sé l’idea che si fosse ormai chiuso anche il suo capitolo di presidente e proprietario, tanto che di lì a pochi mesi cedette la società a Ivanoe Fraizzoli. Contesto e risultati, dunque, in una relazione che non può essere ignorata. E anche il contesto di Mourinho fu sostanzialmente diverso. Fu scelto da Massimo Moratti per imprimere un salto di qualità di caratura europea a un’Inter che in Italia vinceva già da tre anni con Mancini e potè contare sulla totale disponibilità del presidente: dall’acquisto oneroso di Quaresma al primo anno alla rivoluzione vincente del secondo, quando, a fronte del mal di pancia di Ibrahimovic, Moratti reinvestì i soldi della sua cessione al Barcellona in campioni che resteranno nella storia: Eto’o, Milito, Motta, Lucio e Sneijder. Le due stagioni nerazzurre di Mou furono trionfali e sfociarono nel triplete che resterà vetta inviolabile per chissà quanto tempo, ma si svilupparono in un humus che riguardava tanto le sue doti indiscutibili quanto un contesto oggettivamente privo di vincoli di natura extra calcistica. Fu probabilmente il canto del cigno dell’era Moratti, tanto splendida quanto prossima al tramonto per ragioni economiche, ma fintanto che restò, Mourinho riuscì ad operare in condizioni pressochè ottimali. Da questo punto di vista la situazione di Inzaghi è stata per certi versi più simile a quella in cui si trovò ad agire Conte, inizialmente persuaso delle illimitate possibilità cinesi e poi deluso dalla presa di coscienza che il futuro avrebbe riservato diete inevitabili. E per uno che vorrebbe sedersi al tavolo di un ristorante con un portafoglio proporzionale al prestigio del locale, quella rivelazione non poteva che suonare stonata sino all’eccesso. Antonio ha vinto uno scudetto a suo modo storico, in nerazzurro, ma non è rimasto abbastanza per scrivere davvero la storia del club, respingendo le condizioni di improvvisa carestia economica che avrebbero potuto incidere sul suo progetto. Cosa che Inzaghi, arrivando dalla gavetta e non da successi pregressi, ha deciso di accettare. Rendendo la sua esperienza interista una sfida avventurosa e affascinante. Perché non è stata vissuta come capitolo di un curriculum da impreziosire, ma come impresa da realizzare. Resta da analizzare il metodo, la filosofia che veste i successi come un abito da red carpet. E ne esistono di due tipi: quella che attiene alla strategia comunicativa e quella che innerva il progetto tecnico. Non sono due realtà distinte, vanno a braccetto come lo spazio/tempo teorizzato da Einstein: uno non esiste senza l’altro, così come nel calcio l’estetica e l’efficacia di una squadra riflettono la personalità dell’allenatore. Non c’è dubbio che i successi di Herrera e Mourinho si siano fondati sul carisma, sulle capacità motivazionali e sul clima di battaglia permanente rispetto al mondo esterno, atteggiamento funzionale a forgiare il gruppo in una lega d’acciaio. Angelo Moratti dovette intervenire più di una volta per spegnere focolai polemici scatenati ad arte dal suo allenatore, abile a sfruttare gli elementi esterni come collante per il suo gruppo. E Mourinho presentò una versione aggiornata e moderna di questa identica strategia che accendeva lo spogliatoio e l’ambiente riportando tutto sotto l’egida della sua debordante personalità. Massimo Moratti lo scelse quando lo sentì rispondere a una domanda sulla semifinale di ritorno della Champions che avrebbe dovuto affrontare col suo Porto: “Non rispondo a questa domanda, io sto già pensando alla finale”. Sicurezza di sé, polemiche funzionali e sorrisi rassicuranti, un po’ come quelli degli eroi cinematografici nei film di azione, quando con una battuta pronunciata nel bel mezzo di un momento altamente drammatico abbracciano lo spettatore infondendo cieca fiducia sull’esito della lotta. Ma sul carisma e sull’ossessiva attenzione ai dettagli si fondava anche la via del successo di Conte, e per certi versi anche di Trapattoni e Bersellini, giusto per citare l’allenatore dello scudetto dei record oltre che della prima storica Coppa Uefa, nonché il tecnico dell’ultimo titolo totalmente “italiano” del club nerazzurro. E questo loro temperamento emergeva sul campo di gioco: nessuno di loro appartiene alla famiglia dell’estetica vincente del calcio totale olandese o della rivoluzione sacchiana, ma tutti loro hanno raggiunto successi grazie a disciplina tattica, valorizzazione dei talenti e solidità di gruppo. Risultatisti, si direbbe oggi, semplificando terribilmente il lavoro articolato e complesso di un allenatore e banalizzando l’evoluzione del gioco del calcio. In ogni caso Inzaghi esce da questo filone. Giochista, si direbbe oggi. Perché animato dall’idea di un calcio propositivo, fatto di movimenti armonici e meccanismi ad incastro votati al gol, alla finalizzazione. Nella sua Inter non si dribbla, si fa correre il pallone con geometria scandita dal metronomo, nel suo mondo ideale pressing e sovrapposizioni sono onde che frustano la battigia con regolarità e potenza, nel suo progetto diventano imprescindibili gli attori in grado di interpretare più ruoli, in una duttilità che affonda nel futuro. Per questo appare incontenibile ai bordi del campo: ogni fase prevede ritmo e armonia, la stessa che un direttore d’orchestra appassionato trasmette col corpo e le espressioni estatiche. Ma ad essere protagonista è lo spartito, non il carisma di chi lo ha vergato. E dunque la sua strategia comunicativa si adegua a questo dogma, restando aliena dai terremoti dialettici funzionali all’ambiente. Nei momenti critici non condisce l’analisi con termini trancianti, ma al limite con qualche “spiaze”, appoggiando sul suo accento piacentino-emiliano l’amarezza per un risultato sfuggito o per un errore fatale. E se getta qualche seme di alibi o di fastidio lo fa tra le righe, quasi con pudore, come se non volesse rinunciare a quell’argomento ma senza metterlo al centro del suo ragionamento. Certo, chi lo conosce sa bene che qualche picco caratteriale lo anima nel segreto dello spogliatoio o degli uffici dei suoi dirigenti. Ma la sua mentalità gli impedisce di utilizzare la bufera come strumento comunicativo, perché il diaframma tra le dinamiche interne e quelle esterne non deve mai essere squarciato. E’ per questo che per quattro anni ha incarnato perfettamente lo stile di un club che ha lavorato per dotarsi di quel prestigio internazionale che si nutre anche di fair play e di cultura sportiva. Il tributo offerto da Luis Enrique nella conferenza stampa successiva alla Finale è un trofeo che andrebbe esibito quanto una Coppa. E non per sterile vanteria, quanto per spessore educativo che un club è chiamato ad evocare anche e soprattutto nei momenti più difficili: “Voglio sottolineare una scena che è molto difficile da vedere al termine di una finale, quando ritiri il trofeo. Voglio elogiare l'Inter in modo assoluto: tutti i giocatori e tutto lo staff sono rimasti ad aspettare con rispetto, in campo, fino a quando abbiamo finito di festeggiare. Nonostante il dolore per la sconfitta - ha proseguito l’allenatore del Psg - hanno scelto di rimanere lì. Penso sia una grande lezione per i bambini, nella vita e nel calcio si vince e si perde. Bisogna anche saper perdere, a questo mondo ci sono persone che sanno solo vincere. No: bisogna mostrare rispetto al rivale anche quando si perde, come ha fatto l'Inter. Li ringrazio per questo". Un atteggiamento valoriale che è scelta societaria, ma nel quale c’è anche tanto Inzaghi: mai sopra le righe, mai fuori dallo spartito, sempre consapevole che i rovesci nascondono la chiave per le successive vittorie senza rappresentare il male assoluto da nascondere sotto montagne di alibi, proteste e polemiche. Anche se alla lunga Simone ha coltivato il sospetto che questo abito mentale alimentasse le critiche strumentali, trasformando un valore in elemento di debolezza tra le mani dei suoi detrattori. Le sconfitte dell’Inter sono sempre state tutte sue , quelle degli altri, al contrario, sono spesso figlie di scelte societarie, errori arbitrali o chissà che altro, perché certi suoi colleghi sembrano protetti da un’aura di prestigio pressochè inscalfibile. Inzaghi porterà con sé le stimmate di giudizi trancianti, eccessivi e immeritati. E di parole che ad altri non sarebbero mai state appiccicate, perché la “vergogna” dovrebbe essere evocata per ben altre situazioni e ben altri comportamenti. E che negli anni a venire avrà lo stesso sapore acre e surreale dei pomodori tirati contro gli Azzurri al ritorno da Messico 70’, dopo la sconfitta in Finale per 4-1 contro il Brasile. Sì, perché oggi quella partita lì non se la ricorda nessuno, mentre Italia-Germania 4-3 è diventata mito, materia documentaristica, letteraria e cinematografica. Lo stesso percorso, c’è da scommetterci, che seguirà Inter-Barcellona 4-3. Del resto che la forma sia anche sostanza lo affermava persino Aristotele, l’uomo dell’ipse dixit, il filosofo che trasporta nell’immanente il mondo delle idee che per Platone appartiene al trascendente. Per lui la sostanza, cioè l’Ousìa, è l’essenza, ciò che permette a una cosa di essere ciò che è. Ma è la forma, cioè l’eidos, che le permette di assumere una struttura. La sostanza senza forma, insomma, resterebbe materia indefinita. Teoria che vale per definire gli uomini e che, in definitiva, può essere applicata anche al calcio, dove la sostanza del gioco si esprime attraverso una forma. Non esiste un’alchimia vincente per definizione e dunque un’idea migliore di un’altra che vinca grazie a una forma che sia più efficace di un’altra. E tuttavia la via di Inzaghi appaga l’estetica, si nutre del coraggio di osare, si fonda sulla proposizione e non sulla gestione. La sua sostanza, insomma, ha una forma originale, un timbro caratteristico che rende la melodia riconoscibile come nella musica dei grandi compositori. E se l’entropia è il passaggio inevitabile dall’ordine al disordine, il caos sulla sua tavolozza genera vibrazioni inebrianti portando armonia e infondendo disordine solo nelle emozioni di chi guarda. Lo 0-5 di Monaco sembra spalmare una patina di ironica impotenza su tutti i suoi sforzi, ma la domanda, a costo di sembrare provocatoria, rimane: davvero la sua Inter non è stata vincente? E davvero non è stata divertente? Dunque, riassumendo: titoli vinti, successi in rapporto al tempo avuto per costruirli, contesto nel quale si è operato, metodo e spessore della filosofia ispiratrice, valore economico generato dal lavoro e dai conseguenti risultati. Sono sostanzialmente questi i criteri alla base di un’analisi seria, che per altro l’Inter ha fatto ed espresso nelle parole di Marotta, pronto alla conferma e al rinnovo di Simone Inzaghi. E che tuttavia non ha portato alla prosecuzione del rapporto ma, al contrario, alla sua conclusione. Perché? Dove sta il granello di sabbia che ha paralizzato il meccanismo? Forse va rintracciato nella materia oscura, quella sostanza apparentemente inconsistente ma che manifesta la sua esistenza nell’universo solo per gli effetti che produce. Probabilmente nella mente di Inzaghi tutti quegli attestati di stima espressi pubblicamente dalla dirigenza non erano esenti da ombre e da larvati dubbi. Legittimamente Simone ritiene di aver raggiunto uno status che non prevede l’esistenza di retropensieri, così come è comprensibile che credesse fosse giunto il momento di abbandonare le prudenze salva-bilancio, visti gli introiti che lui stesso ha contribuito ad assicurare al club con il suo lavoro. Dall’altra parte forse la percezione di Marotta e Ausilio che la batosta emotiva subita in questo finale di stagione potesse rappresentare un’asperità non facile da lasciare alle spalle per un allenatore altrimenti irreprensibile. E che dunque le sirene arabe costituissero una via di fuga più psicologica che economica, quasi una liberazione o un viaggio catartico come nella migliore tradizione letteraria. Non lo si saprà mai con esattezza. L’unica certezza è che nessuna delle due parti è riuscita ad immaginare un futuro solo e semplicemente luminoso, unico presupposto per rilanciare ambizioni ed energia senza se e senza ma. Disegnando così un esito che sembra uscito da un esperimento di meccanica quantistica: non sempre è il passato a incidere sul futuro. Per quanto la freccia del tempo sfrecci in una sola direzione, spesso è il futuro a incidere sul presente. E sul passato.

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Alessandro Biolchi