Se mi lasci ti cancello: Trent, Nico Williams, le bandiere e i murales

Mi lasci? E io ti cancello. La commedia visionaria del 2004 diretta da Michel Gondry e interpretata da Jim Carrey è ormai sbarcata concettualmente nell’arte e nelle dinamiche psicologico/sociali che animano il mondo del calcio. Gli ultimi esempi, in ordine cronologico, riguardano Alexander-Arnold e Nico Williams, calciatori di Liverpool e Athletic Bilbao elevati ad 'eroi' e poi precipitati in un istante nella voragine della “damnatio memoriae” inflitta dai loro stessi tifosi all’indomani della decisione di trasferirsi altrove. Un 'tradimento' vissuto come insopportabile e che ha generato la forza distruttrice dello sfregio, nel caso specifico l’imbrattamento dei murales a loro dedicati. Ma cosa sono, cosa rappresentano esattamente i murales? E perché diventano bersaglio della becera manifestazione di dissenso di chi condanna le scelte professionali degli atleti che ne sono diventati soggetto? L’arte, sin dai temi degli antichi greci, si è sempre dedicata allo sport, regalandoci opere di meraviglioso pregio: 'il discobolo' di Mirone, 'l’atleta vittorioso' e 'l’apoxyomenos' di Lisippo o 'il pugile a riposo' ne sono paradigmi mirabili. E tuttavia quelle opere rappresentavano modelli universali, estetici e valoriali, staccati dal contesto. Era insomma arte idealizzata che nulla ci dice dello specifico protagonista raffigurato, ma che ci parla dei canoni di quella bellezza esteriore connessa alla pulizia interiore: quella cosa, insomma, che i greci chiamavano “kalocagathia”, per indicare in una crasi la stretta relazione tra ciò che è bello esteticamente e ciò che è buono moralmente. E l’arte ha sostanzialmente mantenuto questa portata valoriale sino al Rinascimento e oltre, dedicandosi alla rappresentazione di Re e Principi dediti alla caccia o ai tornei cavallereschi, cioè le forme di sport connesse alla nobiltà di censo e di estrazione etica del soggetto che si voleva esaltare. Sino ad arrivare al 'giuramento della pallacorda' di Jaques-Louis David, uno dei simboli della Rivoluzione francese ambientato nella Sala della Pallacorda di Versailles, evento politico reale e di portata storica inserito in un contesto, per così dire, 'sportivo'. O alle tante immagini di sport uscite dalle pieghe del Futurismo e del Cubismo, dalla teorizzazione nel Manifesto di Marinetti alla celebrazione del dinamismo nello spazio di Boccioni sino alle opere 'olimpiche' di Robert Delaunay. Insomma, l’arte ha sempre celebrato lo sport, quale che fosse la visione del mondo e gli afflati filosofici che ne hanno mosso la creatività nel corso dei secoli. Ma mai si era soffermata sul singolo atleta da celebrare e consegnare all’eternità in virtù della sua specifica storia e/o delle sue imprese. In questo senso la Street Art ha operato una vera e propria rivoluzione. Intanto perché si pone direttamente nel tessuto sociale rifuggendo velleità museali e rinunciando alla pretesa di eternità. E poi perché tende a incarnare i simboli della sua visione del mondo in personaggi reali e quotidiani, affidando al contingente la critica sociale e i valori ispiratori di una comunità. Ma andiamo con ordine. Questa forma d’arte, che oggi può valersi di maestri di grande spessore, nasce come elemento di ribellione e di critica sociale, inserendosi nel contesto urbano, dapprima come espressione non autorizzata e oggi come forma d’arte tout court. I murales interagiscono direttamente col tessuto sociale, modificandone la percezione dello spazio, i colori e la 'personalità'. In molte città esistono interi quartieri, solitamente periferici, 'dipinti' e trasformati da queste opere che 'urlano' o 'accarezzano' dalle facciate delle case e che pongono domande sui grandi temi della convivenza civile, a partire dal pacifismo e dalla libertà di coscienza di Banksy. Ecco perché, nella sua evoluzione, la Street Art si è inevitabilmente avvicinata allo sport e ai suoi campioni. Perché questi sono simboli di appartenenza, riscatto, elevazione di un’intera comunità. Il volto di Maradona a San Giovanni a Teduccio o quello di Messi al quartiere Palermo di Buenos Aires o ancora di Zidane a Parigi e di Ronaldo vicino a Old Trafford non sono solo splendide opere d’arte: sono bandiere, insegne civiche o nazionali che affrescano la storia di un popolo con le icone di cui sono permeati. Qui l’arte rispetta il fine di comunicare valori, visioni, storia e filosofia attraverso simboli. Ma lo fa incarnandoli nel reale, nel vissuto, nell’espressione e nello sguardo di un 'eroe', un po’ come avveniva nella mitologia tramandata oralmente dagli antichi. E spesso di un eroe nell’ hic et nunc, colto cioè nell’attimo di gioia collettiva o di un gesto sublime che trascende lo sport o ancora di lotta per una bandiera. A Milano è comparso per un certo periodo di tempo il murale del 'testa a testa' minaccioso tra Lukaku e Ibrahimovic, immagine consegnata ai posteri da un frammento polemico di una sfida di Coppa Italia tra Inter e Milan. Non era la pedissequa copia di quella specifica circostanza: era al contrario la sublimazione e l’omaggio a due identità contrapposte che convivono nella stessa città. Ognuna con la sua passione, i suoi valori, la sua percezione di appartenenza. Oggi le foto e le immagini di quel gesto di sfida esistono ancora, il murale no. Già, perché questa forma d’arte trasfigura le immagini spingendole nella dimensione valoriale. E il 'tradimento' di Lukaku, indispettito dalla marginalizzazione della sua ultima esperienza nerazzurra e protagonista del 'gran rifiuto' con successiva fuga da quel mondo, ha indotto i tifosi a cancellarlo per sempre da quel muro. Perché ai loro occhi aveva cessato d’improvviso di essere l’incarnato di un contesto sociale. Del resto la natura della Street Art è questa: offrirsi, consegnarsi alla comunità con cui vive e respira, accettandone di fatto il giudizio e l’umore contingente. Non ci sono teche a proteggere le opere, né guardiani addetti alla vigilanza. Solo l’attimo, il sentimento catturato in un istante che in un istante può scomparire. Ecco quindi che anche Alexander-Arnold e Nico Williams passano da simboli a storia vissuta e accartocciata in uno sfregio. Resta un atto di irrispettoso teppismo nei confronti di un’opera, certo. Ma non è la versione moderna dell’abbattimento delle statue di Re, Imperatori o tiranni della storia: là c’era la condanna per il culto della personalità di uomini di potere colpevoli di vessazioni oppressive nei confronti di parti significative di popolazione. Qui c’è la ferita da infliggere all’identità violata, un atto di odio generato da una visione distorta di amore eterno. Una sorta di Dorian Gray al contrario: non le ferite della vita trasferite al ritratto, ma le ferite al ritratto per allontanare il bivio doloroso della vita. Dunque il murale è una bandiera, un simbolo. E non vale solo per i grandi campioni che incarnano un popolo numeroso, ma anche per le piccole comunità orgogliose delle loro radici. Tutti respiri identitari, tutti a rischio imbrattamento, come è avvenuto per esempio a Rimini o Palermo. Perché l’affermazione del sé contiene il seme dell’esclusività che traccia confini definiti tra chi sta dentro e chi sta fuori. Dunque anche la forma d’arte che vi si ispira diventa in qualche misura divisiva, accendendo lo spirito antagonistico. Totti non è forse un personaggio tendenzialmente ammirato da tutti? Sì, ma a Roma resta simbolo di una parte, esponendo i suoi murales a sistematici attacchi teppistici. Mancini non ha forse unito l’Italia vincendo gli Europei? Certo, ma la sua scelta di lasciare l’azzurro ha indotto qualche anima becera a imbrattare il suo murale a Jesi. I grandi dell’Inter del passato non sono uomini ricordati con nostalgia? Sì, ma il murale celebrativo dei 110 anni della società ha subìto il solito sfregio. De Andrè non è un artista e poeta amato universalmente? Già, ma è simbolo genoano e in quanto tale qualche buontempone ha deciso che meritava il sabotaggio. E si potrebbe continuare quasi all’infinito. Arrivando sino a territori che col calcio o con lo sport non c’entrano nulla, perché da qualche parte nel mondo si troverà sempre una mano contestatrice pronta a infliggere tagli brutali a qualsiasi valore, sia esso il pacifismo, l’amore o la libertà di espressione. E allora dovremmo concludere che i simboli, i valori e le bandiere non servono a nulla, se non a dividere e a sollecitare la parte peggiore dell’essere umano? Certamente no. Tanto è vero che, tornando al calcio, le singole società sembrano aver compreso bene che il senso di appartenenza è un elemento fondante di una squadra vincente. E non è un caso che Conte a Napoli abbia costruito lo scudetto più su questo aspetto che su trovate tattiche, o se a Roma sia servito Ranieri per risollevare una squadra sino al confine della Champions. O ancora che l’Inter abbia deciso di forgiare lo zoccolo duro su giocatori italiani che oggi costituiscono la schiera dei 'veterani' o che nell’ambiente Milan si guardi con nostalgia all’epoca di Maldini o infine che la Juve si sia affidata a un pezzo di storia come Chiellini. Le bandiere servono eccome. Perché funzionali alla realizzazione di progetti, ma anche perché portatrici di quelle istanze che avvicinano e armonizzano le varie componenti di un intero ambiente, tifosi compresi. E non esiste affatto un automatismo tra l’adesione a valori comunitari e la necessità di rifiutare ciò che si percepisce come altro e diverso rispetto al proprio humus culturale. Perché ogni bandiera brilla accanto alle altre e ogni murale emoziona tracimando gli argini dell’esclusione. Ma se anche tutto questo comporta qualche 'sfregio' non importa. Perchè la Street Art non si indigna né si scompone. Nasce, lancia i suoi messaggi e si consegna a rischio di scrostarsi nell’oltraggio e cadere nell’oblio. Del resto un’arte che vive sui muri e parla alla carne non può esimersi dal loro stesso destino.

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Alessandro Biolchi