Pantani, Pogacar e il castello dei destini incrociati

2 agosto 1998, fermo immagine e primo incrocio del destino. Felice Gimondi alza il braccio di Marco Pantani, sul podio degli Champs Elysèes. 33 anni dopo il trionfo di “Nuvola Rossa” un altro italiano conquista la maglia gialla. Pantani sorride, pizzetto giallo, bici gialla, bandana gialla, un trionfo atteso e conquistato dopo cadute, risalite, ancora cadute, gatti che tagliano la strada, suv che lo centrano in pieno. Non doveva correrlo quel Tour, esattamente come nel 1965 non doveva correrlo Gimondi. Prima il trionfo al Giro d’Italia, con le imprese a Piancavallo, Plan di Montecampione, Alpe di Pampeago e una lotta vinta contro il temibile russo Pavel Tonkov. Poi la Grande Boucle. Dicevamo, non doveva partecipare. Dopo il trionfo in rosa i programmi erano altri. Poi il 26 giugno la morte di Luciano Pezzi, suo allenatore e più che allenatore, un secondo padre, figura di riferimento. Il partigiano Stano, ex corridore e poi direttore sportivo e negli ultimi anni consulente proprio della Mercatone Uno. Per Marco, una presenza fondamentale, essenziale. La scomparsa del suo mentore gli fa cambiare idea e programmi. E allora su, a pedalare sul Carpegna, montagna romagnola che per il Pirata è un amico, un confidente. E’ lì che lui si ritrova, si rigenera, è su quelle rampe che pensa, riflette. E si allena, sì perché se andate sul Carpegna vi renderete conto che è una salita più che seria. La partenza del Tour, nel 1998, è spostata per la concomitanza dei Mondiali di calcio . Si parte dall’Irlanda, Dublino, e subito Marco perde secondi a cronometro. Il favorito è il tedesco Jan Ulrich da Rostock, della corazzata Deutsche Telekom. Il Pirata accumula un ritardo importante, ma prima conquista la vittoria a Plateau de Beille , poi compie un capolavoro, un’impresa capace di cambiare i palinsesti televisivi e di diventare uno degli eventi sportivi non calcistici più visti di sempre. Nella tappa con arrivo a Les Deux Alpes Marco attacca, sotto la pioggia, sul Galibier, a 42 km dall’arrivo. Sbriciola avversari e distacchi, si consegna alla gloria sportiva con un’azione strepitosa, vertiginosa come la discesa dal colosso alpino, tremenda e per discesisti impavidi . Alla partenza Marco è quarto in classifica generale a 3’01’’ da Ulrich, all’arrivo sarà maglia gialla con 5’56’’ sul tedesco scivolato al quarto posto. 1998, sembra un’altra epoca: il presidente del Consiglio è un amante del ciclismo, che in gioventù si era pure cimentato in una corsa vinta niente meno che da Vittorio Adorni. Di lì a ottobre il suo governo sarebbe caduto. E’ anche l’inizio della lunga traversata nel deserto del ciclismo: in quel Tour scoppia lo scandalo Festina, perquisizioni notturne, fermi di polizia. Sciopero dei corridori, a cui Marco aderisce. Mezzo gruppo abbandona il Tour: dei 186 partiti termineranno la corsa in 96. Pantani con le sue magie quella Grande Boucle la salva, tanto da meritarsi la prima pagina dell’Equipe con un titolo inequivocabile: "C’est un geant". Sul podio Gimondi e Pantani. Gimondi è uomo ben piantato nel ‘900, è il direttore della Mercatone Uno del Pirata, gli alza il braccio come si fa con i pugili dopo una vittoria. Marco è un uomo a metà strada tra il vecchio mondo e il nuovo. Del ciclismo epico ha la sua caratteristica di scalatore puro, lo sguardo sempre sofferente, tirato, le sue smorfie quando attacca sono a metà tra grinta e fatica, quasi dolore, rimandano a tempi lontani. Eppure è già proiettato verso il mondo nuovo: la sua bandana, simbolo immortale, è un fenomeno social prima dei social. Pantani sorride sul podio all’Arco di Trionfo. Il suo sorriso, guardate le foto, è sempre timido, quasi imbarazzato, dolce ma estremamente schivo. Non è un guascone come Cipollini o il Diablo Chiappucci, non è neanche un iscritto al “partito dei pessimisti” come Gianni Bugno. Ma conquista almeno tre generazioni: nonni, papà e nipoti. E’ un idolo nazionalpopolare, come Alberto Tomba per lo sci o Valentino Rossi per la moto. I grandi giornalisti sono quelli capaci, forse per autorevolezza, forse per carisma, sicuramente per bravura, a farsi dare grandi risposte facendo le domande più semplici possibili. Gianni Mura, che Pantani lo chiamava “Pantadattilo” perché gli appariva come un essere mitologico a metà tra passato e futuro, gli chiese: “Marco, perché vai così forte in salita?”. Pantani dà la risposta che meglio lo identifica e chiarisce lo spirito di un vero scalatore: “Per abbreviare la mia agonia”. L’agonia che si trasforma in impresa, la fatica che genera un successo epico. Il Pirata entra in un club ristrettissimo, conquistando la doppietta Giro-Tour: prima c’erano riusciti Coppi, Merckx, Anquetil, Hinault, Roche e Indurain . Nomi che solo a pronunciarli è sublime cosmogonia del pedale. In quell’agosto del 1998 a Klanec , frazione di Komenda, Tadej Pogacar è ancora nel grembo materno. Nascerà il 21 settembre 1998. Prima il calcio, poi a 9 anni l’amore per la bicicletta. Viene scoperto da un idolo del ciclismo sloveno, Hauptman. Dicono che da piccolo stesse partecipando a una corsa con ragazzi più grandi di lui, percorso a circuito. Credendolo in difficoltà e troppo staccato dal gruppo, Hauptman chiede agli organizzatori di aiutarlo, ma questi gli rispondono: “Guarda che è lui che li sta doppiando…”. Brucia le tappe Pogi, vince il Tour del 2020 e 2021, secondo nei due successivi, su 13 partecipazioni alle classiche monumento ne vince 6. Tadej non è uno scalatore, un cronoman, un passista: è semplicemente uno che va… più forte degli altri. Tremendamente più forte. Su qualsiasi tipo di percorso. Anno domini 2024: Pogacar decide di tentare l’impresa, vincere Giro e Tour nello stesso anno. Fa suo il Giro dominandolo dall’inizio alla fine, conquistando sei tappe, attaccando sempre e comunque, dando spettacolo ogni volta che la strada sale, fosse pure un mezzo cavalcavia. Nella corsa rosa, tra i tanti successi di tappa, vince a Oropa : al Pirata rosa nel '99 saltò la catena ai -8,5 km, poi ne rimontò 49 e vinse senza neanche saperlo. Un quarto di secolo dopo, la maglia rosa slovena arriva dopo una foratura con caduta ai -11,2 km. E la consueta rasoiata, alla Pogačar, ai -4,5 km dal Santuario, primo arrivo in salita del Giro. A Roma alza il "trofeo senza fine". Ma molti pensano che non sia possibile, nel ciclismo contemporaneo, la doppietta con la maglia gialla. Qualcuno forse non conosce Pogacar. C’è una variazione al Tour: per la prima volta, causa Olimpiade, l’arrivo sarà a Nizza e non a Parigi . Pronti via attacca a Bologna sulla salita di San Luca, poi alla quarta tappa cesella un vero e proprio gioiello tecnico e tattico: attacca sulle rampe finali del Galibier e poi con una discesa da far restare senza fiato rifila 30 secondi a Vingegaard e compagnia . A Plateau de Beille ne combina un’altra delle sue, con una tappa che resterà nella storia , vincendo staccando tutti i rivali e sbriciolando il record di ascesa segnato proprio dal Pirata . Sei vittorie di tappa anche al Tour, compresa la crono finale a Nizza, fanno 12 con il Giro, meglio di Merckx che si era fermato a 11 nello stesso anno. E’ doppietta, 26 anni dopo quella di Marco Pantani . Sono solo incroci: impossibile, sbagliato, fuorviante fare paragoni. Dicevamo prima, il ciclismo ha affrontato una lunga traversata nel deserto. Oggi è totalmente cambiato, ha raggiunto un’oasi rigogliosa e abbiamo la fortuna di vivere un’epoca d’oro con una generazione di fenomeni veri: Pogacar, Vingegaard, Evenepoel, van der Poel, Roglic, Van Aert. Ragazzi spensierati, che si divertono e non si risparmiano mai. Si ‘menano’, sportivamente parlando, come fabbri. E poi scherzano insieme a fine corsa. Pogacar ha poi questa capacità di sorridere sempre: sorride dopo 200km e il Mortirolo, sulla rampa finale del Mottolino al 20%. Sorride e regala una borraccia a un bimbo, sorride e scherza con la fidanzata Urska a bordo strada facendole un gavettone con la borraccia. Forse l’unico più introverso e sofferente, quello che anche visivamente esprime la fatica con espressioni e smorfie, è Vingegaard, e non a caso tra tutti è il più scalatore puro. Ma torniamo a ribadirlo. Il ciclismo è in un’altra epoca: limitiamoci a fantasticare sul castello dei destini incrociati, sottolineiamo le coincidenze come gioco che rafforza storia e presente. Ricordiamo quel 2 agosto 1998, quando Pantani entrò nella leggenda, una leggenda che è rimasta intatta: non c’è strada e salita che non abbia il suo nome, le sue bandiere, le scritte sull’asfalto, un mito che resiste a 20 anni dalla morte e siamo sicuri che il suo nome resterà in eterno per le emozioni che ci ha dato. E godiamoci questa nuova stagione sensazionale, questi nuovi record, questi splendidi campioni. Di Pantani ce n’è uno e ne resterà solo uno. Così come un Pogacar nasce ogni cinquant’anni. Nessun confronto o paragone, quindi, solo un’ode alla meraviglia ciclistica, espressa in modi, tempi e situazioni diverse. Ma con lo stesso denominatore: il talento che stupisce. Poi c’è il destino, con i suoi castelli.

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