Ho visto un Re(mco)

Ci si aspettava un Na-Poel-leon, inteso come van der Poel, e invece sotto la Tour Eiffel ecco il Re, inteso come Remco. Taglia il traguardo e scende di sella per mettersi in posa con la sua bici sotto quel favoloso intreccio di travi di ferro simbolo di Parigi. Possiamo affermare senza possibilità di smentita alcuna che la corsa in linea di ciclismo ha regalato l’arrivo più scenografico nella storia delle due ruote alle Olimpiadi. Lo spettacolo nello spettacolo è stato il tracciato. Montmartre che si trasforma in una côte da classiche del nord, con la differenza che qui ci sono bar, bistrot, tanto che il tedesco Nils Politt ne approfitta per andare a far pipì niente meno che al Café des 2 Moulins, reso celebre dal “Favoloso mondo di Amélie”. Tripudio degli spettatori dentro lo storico locale, immortalato dai telefonini che per una volta compiono la loro funzione più alta, documentare momenti semplici ma particolari e che aggiungono bellezza e non la bruttura del mondo. Il gruppo va veloce e fa scattare anche i flash degli autovelox, un’altra immagine che aggiunge simpatia al movimento delle due ruote a pedali. Dicevamo, Remco Evenepoel, e abbiamo detto, più volte e non ci stanchiamo, di questa età dell’oro del ciclismo contemporaneo. Il belga è uno dei fenomeni, dei marziani di questo sport tornato ad appassionare, a regalare momenti storici ed epici. Non c’è stata storia, quando Evenepoel ha deciso di sprigionare i cavalli non ce n’è stato per nessuno, Mathieu van der Poel ha provato a rispondere e a inseguirlo ma sulla strada ha trovato Wout Van Aert nella sua versione forse migliore, quella di gregario extralusso , pronto a rintuzzare e a marcare l’olandese, suo eterno rivale, fin da quando erano bambini. E allora Remco, dopo aver stravinto la cronometro davanti al nostro Filippo Ganna e al compagno di nazionale Van Aert, si spinge là dove nessun corridore uomo era mai arrivato: doppio oro, a cronometro e in linea, nella stessa Olimpiade. Dietro di lui i francesi non si incazzano, anzi hanno più di un motivo per sorridere: Valentin Madouas argento e Christophe Laporte bronzo, ci avrebbero messo cinque o sei firme alla vigilia. Ma i riflettori e gli onori sono per Evenepoel. Ha 24 anni e questo è il suo palmarès: la Vuelta nel 2022, una tappa a cronometro, terzo e maglia bianca al debutto Tour 2024 , due Liegi-Bastogne-Liegi nel 2022 e 2023, maglia iridata in linea nel 2022 e a cronometro nel 2023 e ora il doppio oro olimpico. E vi invitiamo ad andare a vedere le sue vittorie da juniores, impressionanti per numero e valore . Il padre, ex corridore professionista, non lo voleva sulla bicicletta e lo spinse al calcio. Terzino sinistro ma giocatore polivalente, gioca nelle giovanili dell’Anderlecht per poi passare al PSV. Diventa capitano della nazionale belga Under 16 e gioca anche contro l’Italia in cui c’è Raoul Bellanova. Si stufa però del calcio, corre una mezza maratona in un’ora e 16 minuti e a 16 anni decide di dedicarsi esclusivamente alla sua grande passione, la bicicletta. Non è l’unico esempio di ragazzi che passano da uno sport all’altro e diventano campioni, nel ciclismo c’è il caso di Primož Roglič, passato dal salto con gli sci alle maglie rosa del Giro e rosse della Vuelta. Remco forse sarebbe diventato un professionista di alto livello anche nel calcio e questo ci dice molto sull’atleta, sulla sua volontà di competere e sulle doti naturali, su quel talento primario che è il fisico. E ci racconta come sia talvolta un luogo comune la frase: “Eh, ma ormai è tardi per iniziare seriamente con questo sport”. E pensare che la carriera, se non la vita stessa, di Evenepoel, poteva finire il 15 agosto 2020, in Italia. Giro di Lombardia, discesa dopo il muro di Sormano, Remco tocca il muretto di un ponte e finisce giù in una scarpata. Salvato, probabilmente, da salvifici rami, si frattura il bacino e subisce danni a un polmone. E invece eccolo qui, a regalare una pagina di ciclismo che resterà nella storia. Evenepoel, Pogačar, van der Poel, Vingegaard, Van Aert, Roglić… E ce ne sono altri: se ci fossero oggi le biglie come cinquanta, sessant’ anni fa, i bambini non saprebbero quale preferire, avrebbero l’imbarazzo della scelta. Questi ragazzi sono stati capaci di essere personaggi autentici, non costruiti, con il vezzo di scegliersi esultanze molto particolari che diventano subito oggetto di imitazione e, perché no, anche di reciproca emulazione: Pogačar che alza la bici alla Strade Bianche, van der Poel e la sua esultanza alla Roubaix, l’inchino sempre di Pogačar al Tour, e ora Evenepoel versione uomo d’acciaio come la Tour Eiffel. Per fortuna, tra tutti gli sport, forse il ciclismo è quello in cui lo sciovinismo ha meno forza, salvo fastidiose eccezioni. Il pubblico delle due ruote tifa il talento a prescindere dal Paese di provenienza. E i corridori sono quasi apolidi, corrono in un gruppo in cui si parlano tante lingue e si hanno culture diverse, vivono in una forma di esperanto continuo, dovendo condividere corse che durano ore interminabili e soprattutto la fatica, timbro che, nonostante la tecnologia, nuove metodologie di allenamenti e alimentazione, resta come dna di questo sport. Certo, un po’ di tristezza c’è lo stesso, per noi italiani. A Rio 2016 l’oro più che probabile di Vincenzo Nibali ci scappò via per quella maledetta caduta in discesa ai -11 km. Ma dopo lo Squalo dello Stretto, che giusto dieci anni fa vinceva il Tour e che è stato capace di conquistare tutti e tre i grandi giri, c’è stato – e dura ancora – un vuoto clamoroso. Ci aggrappiamo a Ganna a cronometro, a Jonathan Milan per le volate, a Giulio Ciccone in salita, e a sporadici exploit come quello, indimenticabile, di Sonny Colbrelli alla Roubaix. Ma nella prova in linea, nonostante una corsa svolta in modo tatticamente onesto, siamo stati lontani con i nostri Alberto Bettiol, Elia Viviani e Luca Mozzato. Pista a parte è innegabile che il movimento ciclistico italiano sia in crisi. Le motivazioni possono essere tante: la mancanza di grandi investimenti per competere con i budget di corazzate come UAE Emirates, Visma-Lease a Bike, Ineos Grenadiers e ora anche Red Bull-Bora-Hansgrohe. Non abbiamo un team World Tour, quando invece un tempo erano le squadre italiane a fare la storia . Certo, ora non basta più la figura del “patron”, servono multinazionali con tanti soldi, molti di più di un tempo, a disposizione. C’è poi il tema della sicurezza stradale: possiamo biasimare i genitori che scelgono di non far praticare il ciclismo ai loro figli per paura che vengano coinvolti in incidenti, più frequenti in Italia che altrove? Su questo tema si può invece fare molto, sia sul miglioramento della sicurezza stradale sia su quello, culturale, del rispetto di chi va in bici. Poi, forse, c’è anche quella definitiva scomparsa di quell’anima contadina e proletaria di larghe parti d’Italia da cui nascevano i grandi campioni cresciuti nella quotidianità del concetto di fatica. Eppure, il nostro settore industriale è altamente competitivo, il ciclismo appassiona e sempre più persone lo praticano anche nelle sue versioni gravel e cicloturistiche. Qualche giovane promettente c’è, ma il tema, qui solo accennato forse anche in modo superficiale, andrebbe sviscerato, analizzato e finalmente affrontato. Servirebbe un piano, un apriscatole, un’idea, direbbe il saggio.

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