Roglic IV, anatomia di un trionfo annunciato: il racconto della Vuelta 2024

La quarta, tre anni dopo. Come da pronostici, ma tutt’altro scontata nel suo percorso. Sarà pure il suo giardino di casa, ma per Primož Roglič – mai così sorridente, a suo agio e rilassato, divertito e divertente – questo è stato il più strano del suo poker di successi finali alla Vuelta a España. Come lui, in 89 anni e 79 edizioni, per numero di vittorie solo lo spagnolo Roberto Heras, primo nel 2000 e poi dal 2003 al 2005, per numero di vittorie; e per triplette consecutive pure lo svizzero Tony Rominger , pur con l’asterisco del controllo positivo, non punito, del 1994. E così, con la doppietta Giro-Tour di Tadej Pogacar, 26 anni dopo Marco Pantani, la Slovenia diventa la quarta nazione a vincere nello stesso anno i tre grandi giri: nel 1964 la Francia con l’accoppiata giallo-rosa di Jacques Anquetil e l’allora amarillo di Raymond Poulidor, nel 2008 la Spagna con Alberto Contador e Carlos Sastre , nel 2018 la Gran Bretagna con il Giro di Chris Froome, il Tour di Geraint Thomas e la Vuelta di Simon Yates. A Madrid, sede di arrivo in tutte le edizioni, ha vinto tre tappe , indossato la 42ª maglia rossa e chiuso con 2’36” sull’australiano Ben O’Connor, a 28 anni al suo primo podio nei grandi giri, a 3’13” lo spagnolo Enric Mas, già tre volte secondo . Ma delle quattro vinte sulle sei disputate non è stata la sua Vuelta più combattuta: nel 2020 batté di soli 24” l’ecuadoriano Richard Carapaz e di 1’15” sul britannico Hugh Carthy. Né la più dominata: nel 2021, lasciò a 4’42” lo spagnolo Enric Mas e a 7’40” l’australiano Jack Haig. E neppure quella dal podio più nobile: nel 2019 inflisse 2’33” all’Imbatido Alejandro Valverde e 2’55” al super deb Tadej Pogačar, alla sua sin qui unica partecipazione. È stata però quella forse più aperta e comunque – classifica alla mano – la più in bilico fino a due tappe dalla fine. Per non parlare poi della sindrome-Primož: il rischio, tra cadute, incidenti, guai tecnologici e/o meccanici, sempre rogličianamente in agguato. Rogla, incappato come tanti, troppi altri big in quella terribile caduta in discesa del 4 aprile nella quarta tappa al Giro dei Paesi Baschi, la Etxarri Aranatz-Legutio, era poi rientrato il 2 giugno al Delfinato per preparare il Tour de France. Il suo principale obiettivo stagionale e del finale di carriera, per il quale a fine 2023 aveva lasciato – non proprio così senza rancor – la Visma per il nuovo, milionario progetto Bora-Hansgrohe cui da quest’anno si è affiancato il colosso multinazionale Red Bull. La sua Grande Boucle, per la prima volta coi Fab Four tutti insieme appassionatamente, non è però mai apparsa al livello degli altri tre e comunque si era interrotta a metà per un’altra 'rogličianissima' caduta. Avvenuta peraltro non per colpa sua : a 12 km dall’arrivo della 12ª tappa, da Aurillac a Villeneuve-sur-Lot, Alexey Lutsenko, kazako dell’Astana, gli era finito addosso come una palla da bowling. Referto: “Frattura non scomposta del processo trasverso nella parte bassa della schiena”. Schiena che, parole sue, fino a Vuelta inoltrata era “ancora non a posto”. E meno male, il pissi-pissi nel plotone e in carovana: sennò chissà come e di quanto avrebbe stravinto, se fosse stata a posto. Primož, non prenderle L’indomani Rogla non era partito per la 13ª frazione del Tour, la Agen-Pau. E da quel 12 luglio non aveva più corso nei 37 giorni che lo separavano dal prologo portoghese del Giro di Spagna. “La settimana scorsa sono stato in cura al Red Bull Athlete Performance Center , dove mi hanno assistito nel migliore dei modi. Sto lentamente tornando in bici e mi sto prendendo del tempo per recuperare, vedremo dove questo ci porterà”, aveva poi scritto su Instagram. La sua partecipazione alla Vuelta, dunque, era tutt’altro che scontata. Figuriamoci vincerla. Quanto a dominarla, neanche nei sogni più reconditi. A dicembre, durante la presentazione del percorso 2024, mentre sullo schermo gigante dell’Hotel Auditorium di Madrid scorrevano i profili altimetrici delle 21 tappe, nel salone si sentivano in sottofondo mormorii e mugugni crescenti. Ma al disvelamento della penultima frazione, c’era stata un’esplosione di decibel all’apparire di quella che sembrava la strisciata di un elettrocardiogramma impazzito: sette GPM per oltre 4700 metri di dislivello in ‘appena’ 172 km tra Villarcayo e la vetta ai 1491 metri del Picón Blanco. Il Mont Ventoux di Spagna ma più duro: 7,9 km al 9,1% medio, con punte al 18%. Una ‘barbaridad’, persino per i finissimi palati iberici in materia di fachiresche ascensioni. Come spesso accade, carta e video sono una cosa, la strada tutt’altra. Ma tutti pensavano si sarebbe comunque decisa là, alla vigilia della crono finale e piatta di Madrid, la corsa dei nove arrivi in salita e 61 mila metri di dislivello spalmati in tre settimane. Ottomila più del Tour de France e addirittura 15 mila più del Giro d’Italia corsi quest’anno. Poi c’è chi dice che la Vuelta non è abbastanza spettacolare, è meno competitiva o combattuta rispetto agli altri grandi giri. Specie in mancanza di Pogi, Vingo e Remco. Qui però bisogna mettersi d’accordo. O la Vuelta, senz’altro meno glamour e global della Boucle, e per tradizione da sempre inferiore alla Corsa Rosa, non vale granché nemmeno se a vincerla è il predestinato Evenepoel , o quando la superstar Tadej si rivela al mondo facendo terzo all’unica partecipazione , oppure qualcuno dovrà pur spiegare un dato che altrimenti parla da solo: okay che al Tour va la crème del panorama internazionale, quest’anno 27 dei top 40 corridori del ranking UCI, ma al Giro ce n’erano nove e alla Vuelta diciassette . Come mai? Se poi si vuole obiettare che la Vuelta a settembre è per tanti un esame di riparazione della stagione, e che nell’ultimo grande giro dell’anno le prestazioni risentano delle fatiche fatte in precedenza, allora: objection sustained per la ‘qualità’ dei partecipanti, tra cui magari qualche carneade locale di troppo, spesso misconosciuti al grosso pubblico, ma overruled sui valori assoluti che la corsa e i suoi interpreti esprimono. Le medie non mentono. Senza contare il clima. Provate, per credere, a correre sotto il solleone nell’Andalusia agostana. La tre giorni portoghese Per la sesta volta in 79 edizioni e 89 anni di storia la Vuelta parte dall’estero, e per la seconda – 27 anni dopo Lisbona 1997 – in Portogallo. Prima era toccato a Paesi Bassi, pure due volte , e Francia: Nîmes 2017. La prossima sarà Montecarlo nel 2026. La tre giorni portoghese si apre il 17 agosto con la cronometro individuale di 12 km dalla capitale a Oeiras. Un biliardo sufficientemente lungo per derubricarlo a ‘semplice’ prologo ma non abbastanza da favorire troppo gli ultraspecialisti. La vince comunque un campione nazionale della categoria, Brandon McNulty, 26enne statunitense della UAE Emirates, che chiude in 12’35” alla supersonica media di 57,197 km/h. A 2,17” Mathias Vacek, ceco della Lidl-Trek, uno che predilige distanze più lunghe e l’unico altro capace di terminare a oltre i 57 km orari. Terzo a 2,80” il belga Wout Van Aert, altro reduce da una tremenda caduta di inizio stagione, ma alla Dwars door Vlandereen . Poi però ripresosi con un discreto Tour e il bronzo olimpico a cronometro di Parigi, dietro il connazionale Evenepoel e il nostro Filippo Ganna, di appena tre settimane prima, il 27 luglio. Ottimo quinto, a 7,92” e a lungo sulla hot seat speranzoso di vincere, Edoardo Affini, uno fra i pochissimi, della nostra sparuta pattuglia tricolore al via, che almeno contro il tempo può fare corsa per sé e non solo al servizio del proprio capitano. Nel suo caso, Van Aert alla Visma-Lease a Bike. Il migliore tra i big è però il loro ex compagno Roglič, ottavo a 16,93”, arrotondati a 17”. Già staccato di 20” il criança local João Almeida, leader designato della UAE Emirates in assenza di Pogačar: mai neppure considerata nel team l’irrealistica ipotesi – solo mediatica – che Pogi tentasse il triplete post-doppietta Giro-Tour, centrata 26 anni dopo l’ultima delle 12 compiute: quella di Marco Pantani. E al contrario della Triple Crown , riuscita solo al belga Eddy Merckx nel 1974 e all’irlandese Stephen Roche nel 1987, quella sì l’altro suo maggiore obiettivo dell’annata. La tre giorni in terre un tempo abitate dai Lusitani si è poi chiusa con due delle rare volate ‘concesse’ da plotone e percorso. A Ourém è Kaden Groves a bruciare Wout Van Aert, che al debutto alla Vuelta almeno si consola con el maillot rojo del leader. E il giorno dopo – nella Lousã-Castelo Branco – gli ricambia a ruoli invertiti la cortesia. Per Wout, dopo 172 giorni di astinenza, è il gran giorno in cui ritrova la vittoria inseguita per quasi sei mesi, dalla classica belga Kuurne-Bruxelles-Kuurne del 25 febbraio. Iconica la sua esultanza, per di più di rosso vestito, agitando le braccia come fossero ali. L’Albatros di Herentals è tornato. E se la scena v’è parsa un déjà vu, avete ragione. Solo che allora vinse in giallo, e sempre in un martedì da leoni, quarta tappa del Tour: la Dunkerque-Calais. Era il 5 luglio 2022. Rogla, la voce del padrón Alla quarta tappa, la prima in Spagna, si inizia già a salire. E a fare sul serio. Non che con quel caldo torrido si sia sin lì scherzato, ma è con la strada all’insù che comincia la ‘vera’ Vuelta. In cima ai 1544 metri del Pico Villuercas s’ode subito – forte e chiara – la voce del padrone, o pronosticato tale: tappa e maglia con 8” su Almeida e 32” su Mas, entrambi tra i più accreditati per il podio finale. Quello che si poteva prevedere meno è magari la modalità del suo successo. E che ha ricordato un po’ la sua Liegi-Bastogne-Liegi, vinta nel 2020 beffando al fotofinish il francese Julian Alaphilippe, ingenuo nell’esultare alzando le braccia troppo presto. Stavolta a commettere identico peccato – nel suo caso – di gioventù è la Grande Speranza belga Lennert Van Eetvelt, 23enne di cui si dice un gran bene perché va forte dappertutto. E vincitore, a febbraio, dell’UAE Tour, a casa-Pogačar, in cui s’era preso pure la settima e ultima tappa e la maglia bianca di miglior giovane. Il talentino della Lotto Dstny, convinto di aver tagliato per primo il traguardo in curva a destra, solleva per un attimo il braccio destro dal manubrio e Rogla lo brucia buttandosi sulla sinistra. Magari lo sloveno avrebbe vinto lo stesso, ma su quel genere di arrivi Primož è una sentenza. Inappellabile. Ben gli sta Le altre due volate previste per la prima settimana, Siviglia alla quinta tappa e Cordova alla settima, sono inframmezzate dalla frazione che segnerà, nel bene e nel male, l’intera corsa. Nella prima s’impone a sorpresa il baby ceco Pavel Bittner, 22 anni il prossimo 29 ottobre , che si mette alle spalle Van Aert e Groves, i due che sin lì s’erano spartite le uniche occasioni per le ruote veloci. Nella seconda concede il bis il belga, grazie al gran lavoro del fido Sepp Kuss, improbabile quanto meritorio trionfatore della Vuelta 2023. Wout però stavolta non fa l’Albatros e indossa il verde della classifica a punti. La rossa l’ha conquistata il giorno prima l’australiano Ben O’Connor con una fuga-bidone da leggenda. Raramente il gruppo sbaglia i conti nel lasciare via libera ai fuggitivi. Ma spesso quando la ‘balena’ si lascia scappare il boccone, finisce che si strozza: o per la volata sfuggita agli squadroni dei velocisti, o per il big sottovalutato di turno che poi fa il vuoto nella generale. È il caso della Jerez de la Frontera-Yunquera, stravinta dall’australiano Ben O’Connor con 4’33” su Marco Frigo. Il 24enne prospetto della Israel-Premier Tech poi settimo nella 16ª tappa, conquistata dal cavallo pazzo Marc Soler sul classico arrivo ai Laghi di Covadonga per 18” su Filippo Zana nella miglior giornata dei nostri. Oltre alla crono madrilena: terzo Mattia Cattaneo e quarto Filippo Baroncini, per il resto al servizio dei rispettivi capitani Mikel Landa alla T-Rex Soudal e Joao Almeida alla UAE Emirates. Tornando al ‘Big Ben’, il più grande spettacolo prima del weekend fa esplodere l’universo della generale: O’Connor, dopo 62 km di fuga, 27 dei quali in solitaria sui 185,5 di gara, stacca di 6’31” Roglič e gli altri califfi. Allo sloveno sfila la maglia rossa e si prende un tesoretto di 4’51” sullo stesso ex leader e di 4’59” su Almeida. E che fosse una tappa folle pareva scritto dall’altrettanto improbabile partenza-show: il via neutralizzato all’interno di un supermercato della catena sponsor di un gigantesco Barnum itinerante su due ruote. La scena dei corridori in sella che tremebondi ‘pattinano’ sulle corsie è però da sagra di strapaese. A 28 anni, l’australiano della Decathlon AG2R La Mondiale – dopo i quarti posti al Tour 2021 e al Giro 2024, sembra dunque aver raggiunto l’apice della maturazione. Ancora non può saperlo, ma a breve diverrà l’Aussie con più giorni da leader in un grande giro: dodici. Cinque in più di Cadel Evans, uno che le tre maglie le ha vestite , sui tre podi ci è salito e il Tour l’ha vinto. Eppure, lo scetticismo di pubblico e critica a O’Connor non dà troppo credito. Nel ciclismo, come si sussurra anche in altri sport piuttosto popolari, esistono le fantomatiche ‘categorie’. E il buon Ben – la carriera parla per lui – non ha le stimmate dei cosiddetti ‘vincenti’. Anche se proprio da noi aveva dimostrato di saperlo anche essere. Al Tour of the Alps 2018, il 17 aprile, uno sconosciuto 22enne allora alla Dimension Data si era messo in mostra sull’ascesa finale dell’Alpe di Pampeago. E l’indomani, attaccando ai -8 km dall’arrivo a Merano, vinse la terza tappa con 5” sul gruppo regolato dal francese Thibaut Pinot su Domenico Pozzovivo, il neozelandese George Bennett, lo spagnolo Luis León Sánchez, il britannico Chris Froome, Fabio Aru e compagnia. Non proprio gli ultimi arrivati, alla voce scalatori puri. E quanto al fondo per le tre settimane, la metaforica medaglia di legno a Boucle e Giro è – o dovrebbe essere – una garanzia. Operación ‘Remuntada’ Già il giorno dopo a Cazorla, però scatta la Operación ‘Remuntada’ di barcellonista memoria, che il clan-Roglič si augura più fortunata di quelle che il pueblo culé ogni tanto invoca con video auto-motivazionali poi spesso controproducenti. Rogla sprinta su Mas e stacca di 46” O’Connor, cui rosicchia altri 10” di abbuono per la vittoria. Un minutino scarso già scalato che però dà subito l’idea delle rispettive forze in gara. Sempre schiena dello sloveno permettendo, e Primož – vecchia volpe slava – lo ripete in ogni intervista con il suo ricorrente “I mean…”. La nona frazione è però anche quella del ritiro di Antonio Tiberi, dopo quattro giorni totali in maglia bianca e il duplice colpo di calore patito nella fornace andalusa il giorno dopo aver fatto quarto a Cazorla appiccicato ai migliori: a 17” dal vincitore Roglič e Mas e 3” dietro Mikel Landa. Tutt’altro meteo, per fortuna, caratterizzerà la seconda e soprattutto la terza settimana salendo verso nord-ovest. Quella prima del riposo si chiude con l’acuto di Adam Yates, vincitore in solitaria a Granada con 1’39” su Carapaz e 3’45” su O’Connor, che regolando il gruppo dei big risponde a Roglič grattandogli via i 4” di abbuono per il terzo posto. La seconda settimana si apre con il terzo sigillo di Van Aert, che a Baiona lascia a tre secondi il compagno di fuga francese Quentin Pacher in una volata mai nata. Il belga si porta così sul 3-1 su Groves e rafforza la maglia verde: 243 punti contro i 162 dell’australiano. La Vuelta torna a parlare inglese al Campus Tecnológico Cortizo Padrón, dove l’irlandese brucia di due secondi il belga Quinten Hermans e il britannico Max Poole. Sarà solo il preludio della sua impresa più grande, la vittoria sul Picón Blanco alla 20ª. La tappa-regina fra le tante ‘tappe-regina’ , e che invece tale era stata quella del giorno prima: da Logroño all’Alto de Moncalvillo. Là dove Primož non solo ha rivinto come nella Vuelta ottobrina del 2020 , ma nel riappropriarsi del primato ha pure stracciato i suoi stessi record di scalata e di potenza. Lo sloveno è andato su a 7 watt per chilo e uno straordinario 1892 m/h di velocità ascensionale media in meno di 24’. Schizzati a un quasi irreale 1990 negli ultimi 6 km. I più duri degli 8,6 all’8,9% medio totali. Salendo in 23’57” a 21,38 km orari, ha abbassato di quasi 59” il suo 24’55” del 2020, e con una cadenza sempre oltre le 90 pedalate al minuto. Un marziano di valori pogačariani. Partito con 5” da recuperare, è lassù che ha ipotecato la Vuelta 2024. E il fermo-immagine di Florian Lipowitz che fa il buco dietro il suo capitano, per far andar via altri tre compagni con Roglič nell’attacco, è l’istantanea-simbolo di questa edizione. Roba da manuale del ciclismo. Il giorno dopo, il leader è quasi parso non voler cercare a tutti i costi la quarta vittoria di tappa, e accontentarsi di controllare à la Miguel Indurain. Da generoso ‘don’ del gruppo. Chiude terzo all’arrivo, a 7” da Mas e con 2” su Carapaz, 14” su Urko Berrade, con il doppiettista Pablo Castrillo l’altra rivelazione della Kern Pharma, squadra Professional che con tre vittorie è stata la vera sorpresa, e lo stesso O’Connor. Il 23enne Castrillo, assistito dal biellese Giuseppe Acquadro e già mezzo promessosi per il 2025 alla Ineos-Grenadiers, ha centrato l’impresa della vita a Manzaneda alla 12ª. E l’ha persino superata tre giorni dopo sui mitici 1835 metri del Cuitu Negru: 18,9 km al 7,1 % medio. In assenza dell’Angliru, l’altro spauracchio della Vuelta #79. Come non bastasse, ha lasciato a 12” Aleksandr Vlasov, la testa di ponte della maglia rossa Roglič, quinto a 1’04” dietro Pavel Sivakov e con lo stesso tempo di Mas. Nel frattempo, Michael Woods s’era tolto la soddisfazione di vincere in solitaria a Puerto de Ancares in maglia di campione nazionale canadese. E Groves aveva ‘segnato’ il 2-3 su Van Aert battendolo allo sprint a Villablino. Ritiratosi il belga per due cadute alla 16ª, la prima con Filippo Zana in avvio di tappa, la seconda dopo aver conquistato due GPM e senza poter evitare Felix Engelhardt, scivolatogli davanti, sulla discesa bagnata giù dal Collada Llomena: per Wout ginocchio destro ko, addio Europei e mondiali, stagione finita. Kaden ne erediterà poi la maglia verde. E pareggerà il conto a Santander alla 17ª bruciando Bittner. Killing me softly “Doucement mais sǔrement” titolava L’Équipe il 31 agosto, all’indomani della 13ª tappa. E “lenta ma inesorabile”, procede da parte di Roglič l’erosione del suo svantaggio: sceso da 4’51” a 5” nell’arco di dieci tappe. Un po’ meno sportiva invece la battaglia per il resto del podio. Carapaz, a metà Vuelta quarto a 4’10”, è andato giù non solo duro ma anche per le terre contro la Decathlon AG2R La Mondiale, che per proteggere capitan O’Connor e bloccare la corsa non si faceva problemi a schierarsi orizzontalmente in testa al gruppo fino a occupare l’intera carreggiata. Nell’11ª tappa, ai -93 km dal traguardo di Padrón, l’ecuadoriano ci si era trovato dentro ed era finito giù. A fine gara la giuria aveva sanzionato con un cartellino giallo “l’ostruzione da parte di un corridore, volta a impedire o ritardare la progressione di un altro corridore” tre compagni di O’Connor e il loro diesse Cyril Dessel. Un buffetto sin troppo perdonista secondo il povero Carapaz, abbattuto e mazziato. “Neanche si sono scusati. Questa è arroganza, è mancanza di rispetto, è triste”, s’era sfogato l’indomani con Eurosport l’olimpionico di Tokyo alla partenza del tappone di Manzaneda. Nel 2011 la montagna teatro di grandi battaglie, ma solo ciclistiche, fra Vincenzo Nibali e il duo-Sky Chris Froome & Bradley Wiggins. Il ditino fuori però no Altrettanto poco edificante è stata la sceneggiata dell’ammiraglia T-Rex Soudal con Mattia Cattaneo. Il proprio corridore in testa con due compagni, Mauri Vansevenant e Casper Pedersen, fra i fuggitivi della 18ª frazione e platealmente richiamato in mondovisione – umiliante quel dito indice sporto fuori del finestrino dal diesse Iljo Keisse alla guida – per aspettare Landa, staccatissimo e in preda a una cotta memorabile. Pur tardivamente Vansevenant e Pedersen sono stati poi richiamati in aiuto al capitano, mentre Cattaneo è stato bloccato ai -13 km, quando era ancora in tempo per giocarsi la tappa e di certo non più per tornare utile al suo leader in crisi. Peggio della toppa il rammendo del solito Patrick Lefevere, il boss che è stato un grande manager ma ultimamente, diciamo dal caso-Alaphilippe in poi, ne pesta una dietro l’altra. Stavolta, nella sua rubrica settimanale sul quotidiano belga Het Nieuwsblad, se l’è presa con la tecnologia. “La corsa stava attraversando il Parco Naturale Izki, dove non c’è campo. Il direttore sportivo Wilfried Peeters non conosceva la situazione dei battistrada e non riusciva a chiamare Iljo Keisse e Geert Van Bondt sull’altra ammiraglia. La fuga e il gruppo erano troppo distanti, quindi le radio non funzionavano. Il risultato è stato uno spettacolo di m. Cattaneo poteva vincere la tappa, ma gli è stato detto di aspettare. È rimasto fermo otto minuti, avrebbe pure potuto fumarsi due sigarette. Quando è rientrato Landa, ormai non si poteva più rimediare. non mi chiama spesso, ma stavolta l’ha fatto. Non ci ha dormito la notte. L’ho rassicurato: il problema è il ciclismo, non sono i nostri diesse. Nel ciclismo le autorità competenti vogliono che i nostri diesse navighino a vista. La Formula 1 abbraccia la tecnologia, noi la respingiamo: è doloroso da vedere”. Mai però quanto le altre due immagini-choc di questa Vuelta. Brandon McNulty grondante sangue fino all’arrivo dopo essere finito nei rovi alla 13ª. O Van Aert che, seduto in lacrime sul bagagliaio aperto dell’ammiraglia, si tocca il ginocchio destro che perde sangue e picchiato così forte da costringerlo al forfait. Otto le sue cadute stagionali. Troppe, e un paio troppo gravi, persino per un habitué della malasorte come lui. È lui il vero “Paperino” del plotone, con buona pace di Mirco Maestri. Aspettando Gaudu Nella terza settimana s’è visto il milgior David Gaudu dopo due anni di buio. Spesso all’attacco, continuo nell’azione e senza gli scatti reiterati e irrazionali del pur generosissimo Marc Soler, con Castrillo e Van Aert – big a parte – quelli che più hanno animato la corsa. Alla fine, però, essendo Gaudu, dopo la tappa del Moncalvillo alla penultima , gli è sfuggito pure il quinto posto: scavalcato con la crono conclusiva dal danese Mattias Skjelmose, maglia bianca davanti al tedesco Florian Lipowitz e allo spagnolo Carlos Rodriguez, settimo e decimo nella generale ma con quest’ultimo finito in calando. ¡Adiós Amigos! È stata anche la Vuelta degli addii. Il più doloroso quello del 37enne Rigoberto Urán Urán, all’ultima stagione, caduto e ritiratosi alla sesta tappa per la “frattura nel grande trocantere dell’anca sinistra”. Fra i più amati in gruppo e porto sicuro per ogni colombiano che viene a correre in Europa, ‘Rigo’ ha vinto l’argento olimpico a Londra 2012, tappe nei tre grandi giri e calcato due podi in fila al Giro e uno al Tour . Più dolci e sereni ma non meno malinconici i saluti di Thomas De Gendt e Robert Gesink, 49 grandi giri in due: 25 e cinque vittorie in 501 tappe e un terzo posto rosa per il 37enne belga, re barbuto delle fughe; 24 per il 38enne olandese che in carriera è stato e ha fatto tutto: leader anche vittorioso , gregario, treno per le volate, chioccia. Dopo 6 Tour e 12 Vuelta saluta anche ‘nonno’ Luis Ángel Maté, 40 anni di cui gli ultimi 17 da pro’ e non sentirli. Come regali d’addio una tappa e la maglia degli scalatori al Giro del Portogallo. E la soddisfazione di avere indossato, alla terza tappa, pure quella a pois blu della Vuelta, alla fine strappata per soli due punti a Soler da Jay Vine, suo compagno alla UAE Emirates. Non per niente prima nella classifica a squadre. Italians did it better E gli italiani? Filippo Zana secondo ai Laghi di Covadonga e Marco Frigo a Yunquera, Mattia Cattaneo e Filippo Baroncini terzo e quarto nella crono finale di Madrid, perlomeno si sono piazzati. Giovanni Aleotti, dopo il gran lavoro fatto per Dani Martínez secondo al Giro, e la vittoria al Giro di Slovenia s’è ripetuto immolandosi per Roglič. Edoardo Affini, quinto nel prologo da Lisbona a Oeiras, s’è speso – finché lo ha avuto – per Van Aert. Alessandro De Marchi, a 38 anni e compagno di Zana nella Jayco AlUla, idem per Dunbar. Luca Vergallito, al primo anno di World Tour, ha fatto top ten a Puerto de Ancares. Lorenzo Fortunato il più in alto nella generale, ma 16° a 40’43” e mai in lizza per almeno provare a giocarsi una tappa. Questo per ora il convento tricolore passa. Mentre l’erba del vicino è sempre più verde. Sarà perché brilla tanto di riflessi rosagiallorossi a noi così vicini, così lontani.