Mondiali di ciclismo a Zurigo, sarà un Tadéjà vu? Pogačar cerca la 'Tripla Corona'

«If you want to enjoy the rainbow, be prepared to endure the storm.» – Warren W. Wiersbe Quindici anni dopo, ancora tu. A tre lustri da Mendrisio 2009, il Mondiale su strada di ciclismo torna in Svizzera e oggi come allora si respira la stessa aria, rarefatta, che profuma di Storia. Di grandissimi da raccontare ai nipotini. Anzi: da farglieli vedere dal vivo. Perdonate l’autoreferenzialità, ma è nell’essenza stessa di Insider l’essere, per mestiere, testimoni oculari e dunque privilegiati degli eventi che raccontiamo. Flashback, allora. Mendrisio, a sud del Canton Ticino, potemmo assistere al passaggio ravvicinatissimo della ‘Locomotiva di Berna’. Non c’eravamo ancora ai tempi di quella Umana, il Learco Guerra così battezzato da Emilio Colombo, all’epoca direttore della Gazzetta. Ma c’eravamo, eccome, nipotino compreso, accovacciati sul ciglio mentre in strada sfrecciava ‘Spartacus’. Fino all’avvento di Pippo ‘Top’ Ganna, mai più vista né ammirata di persona, o sentito al passaggio un sibilo anche solo comparabile, una simile combinazione di debordante compostezza, levità e potenza. Un extra-terreste. Cui forse solo giochi di potere interni al gruppo impedirono la doppietta iridata. Ingiocabile a cronometro il bernese , in linea fu quinto. L’oro andò a un Aussie, Cadel Evans, poi diventato ticinese d’adozione. A Zurigo, quindici anni dopo, le chance di testimoniare vis-a-vis la presenza terrena di alieni si sono addirittura triplicate. Fab Three Lo sloveno Tadej Pogačar, reduce dalla storica doppietta Giro-Tour, 26 anni dopo quella di Marco Pantani, insegue la Tripla Corona riuscita solo al ‘Cannibale’ belga Eddy Merckx nel 1974 e, con circostanze tanto singolari quanto irripetibili, all’irlandese Stephen Roche nel 1987. E sfuggita anche a campioni e campionissimi. Fausto Coppi a Copenhagen 1949 fu terzo nella volata con il leggendario velocista belga Rik Van Steenbergen e lo svizzero Ferdi Kübler. “Mi sarebbe bastato un cavalcavia e li avrei staccati tutti e due”, disse l’Airone quasi in lacrime al traguardo all’amico giornalista torinese Ruggero Radice, in arte ‘Raro’. Ma “le aquile non volano sulle aie”, vergò con mirabile sintesi Gianni Brera. Il francese Jacques Anquetil, che in casa a Sallanches 1964 chiuse settimo dopo aver corso contro il connazionale Raymond Poulidor, terzo dietro l’olandese Jan Janssen e l’azzurro Vittorio Adorni. Bernard Hinault si ritirò sia a Goodwood 1982 , sia a Montello 1985 . Miguel Indurain la sfiorò ben tre volte: nella sua Spagna a Benidorm 1992, ma il ‘Duca’ Giancarlo Perini trascinò per le orecchie Gianni Bugno allo sprint per il bis consecutivo dopo Stoccarda. A Oslo 1993, sotto il diluvio, il navarro sperava fosse Claudio Chiappucci a inseguire il fuggitivo Lance Armstrong, ma il Diablo nel finale non ne aveva più e sul podio col texano, l’iridato su strada più giovane di sempre, ci finirono proprio Miguelón e il tedesco Olaf Ludwig. Idem a Duitama 1995, quando da gran signore Indurain non volle andare a prendere il suo sosia e connazionale Abraham Olano e sfilò l’argento allo sprint a Marco Pantani, che invece, a Valkenburg 1998, guardò alla tv l’oro dello svizzero Oscar Camenzind davanti al belga Peter Van Petegem e a Michele Bartoli. L’olandese Mathieu van der Poel, affilatosi di un chilo e mezzo per tenere su quel tipo di dislivello e affinata la gamba con tappa e maglia verde al Giro del Lussemburgo, sfilatogli per 15” dal nostro Antonio Tiberi, punta a non sfilarsi l’arcobaleno che tanto gli dona da Glasgow 2023. E il circuito di Zurigo, sì più duro ma non così tanto e meno tecnico, gli sconfinfera assai. Il belga Remco Evenepoel punta all’immortalità come primo di sempre a vincere – nello stesso anno – oro olimpico e mondiale sia a crono sia in linea. Dei ‘Fab Four’ manca solo Jonas Vingegaard. Il danese, dopo il terribile infortunio ai Paesi Baschi, il miracoloso secondo posto al Tour e vinto quasi per sfizio il Giro di Polonia, ha chiuso anzitempo la sua stagione per rifarsi nella prossima. Peccato perché questo percorso, come pure Rwanda 2025, pareva fatto su misura per lui. E per lo stesso ‘Pogi’, che ha già messo le mani avanti: se non vinco questo, vincerò quello successivo. La sostenibilissima, anti-kunderiana leggerezza dell’essere . Tra i big non ci sarà neanche Wout Van Aert, argento uscente dietro il rivale di sempre VDP e davanti al marziano sloveno. Il ‘Paperino’ belga – nove cadute in stagione: urge bagnetto a Lourdes – è in vacanza riabilitativa in palestra a Pinzolo e soltanto il 25 settembre, anche in video a uso social, ha buttato nell’indifferenziata le stampelle per camminare finalmente libero, con la compagna Sarah De Bie, i primi 2,74 km dopo la tremenda botta alla Vuelta. Il ginocchio destro, testuale, “fa piccoli progressi”. Ma la strada del rientro è ancora lunga e data 2025. Alla corte dei Tudor, casa dolce casa Del gran favorito Pogačar tutto s’è detto e scritto, a cominciare dai tredici attacchi vincenti a più meno lunga gittata che ne hanno contraddistinto sin qui la stagione: dal minimo di 4,2 di Oropa alla seconda tappa del Giro ai 34,4 della Liegi, fino agli 81,1 della Strade Bianche. Tutto tranne forse un dettaglio, che però non sarà sfuggito ai più attenti fra gli addetti ai lavori. Rifinita la gamba con una bella azione e il settimo posto finali al GP del Québec vinto dal suo amico Michael Matthews il 13 settembre, ‘Pogi’ ha fatto le prove generali due giorni dopo in quello di Montréal: primo posto con attacco letale sulla salita penultima ascesa del Camillien-Houde, ai -23,3 km dall’arrivo. Domandina facile: dove è posta l’ultima côte al mondiale zurighese? Ai meno 20 dal traguardo. Si spiega forse anche così il suo gesto di esultanza canadese, un cenno con la mano destra tesa, palmo in basso, come per dire di mantenere la calma. In fondo, al mondiale mancavano ancora due settimane. Qualche cronista locale vi aveva letto anche un gentile riferimento alla statua di Sir George-Étienne Cartier che si trova sul rettilineo d’arrivo. Di sicuro era un segnale. Chirurgico. Il pissi-pissi del plotone però suggerisce di aggiungere al ristretto novero di favoriti un corridore – in tutti i sensi – di casa. Anche se, come UAE, ancora per poco. Marc Hirschi, tornato ai livelli mostrati nel 2020 quando – vinte la tappa di Serran al Tour e la Freccia Vallone – sembrava poter avere, lui pure, le stimmate del predestinato. Il 23enne bernese ha ammesso di “attraversare una buona fase”, confermata dal pokerissimo di cinque-vittorie-cinque in fila: Clásica di San Sebastián , Bretagne Classic, GP Industria & Artigianato, Coppa Sabatini e infine Memorial Pantani. Non corsone, ma neanche corsette. C’è poi il retroscena di mercato a impepare il tutto: dal prossimo anno lascerà la UAE Emirates del suo capitano Pogačar per la svizzera Tudor del suo illustre concittadino Cancellara. E dunque a Zurigo sarà libero di fare la sua corsa. E “Born to Dare” , mantra sociale della sua futura destinazione, per lui pare quanto mai pertinente. Una ‘Liegi’ svizzera Zurigo ha già ospitato il mondiale su strada in tre occasioni, e all’Italia ha portato spesso fortuna: nel 1923 vinse Libero Ferrario sugli svizzeri Othmar Eichenberger e Georges Antenen; nel 1929 bronzo ad Alfredo Binda dietro il belga Georges Ronnse e il lussemburghese Nicolas Frantz tra i professionisti e doppietta nei dilettanti con Pierino Bertolazzi e Remo Bertoni davanti al francese René Brossy; nel 1946 podio sfiorato per Mario Ricci alle spalle del padrone di casa Hans Knecht e dei ‘soliti’ belgi Marcel Kint e Rik Van Steenbergen. La gara maschile élite partirà però da Winterthur, 25 km a nord-est dal capoluogo che dà il nome al Cantone. Nei primi 68,5 chilometri il gruppo pedalerà a nord e scalerà il morbido Wolschberg fino alla salita di Buch am Irchel . Dopo un passaggio sul luogo di partenza, le pendenze s’inaspriscono: il breve ma ‘cattivello’ Kyburg e il Suessblatz precedono il circuito cittadino zurighese, e ci vorrà quasi un intero giro per tagliare per la prima di sette volte il traguardo. La parte iniziale dell’anello conclusivo di 26,8 km e 400 metri di dislivello è la più difficile. Due le salite toste, e in rapida successione: la Zürichbergstrasse inizia su uno stradone largo, ma dopo un paio di curve si restringe e inizia la vera ascesa. È una quarta categoria pedalabile per gradi, ma gli ultimi cento metri toccano il 15,9%. La strada poi spiana per un chilometro e mezzo prima della Witikonerstrasse , tutta su carreggiata ampia. I primi tratti non sono proibitivi, ma c’è un chilometro all’8% di media. Verso la cima la salita si regolarizza, ma negli ultimi giri si farà comunque sentire. Superato un altopiano di dieci chilometri vallonati sul Pfannenstiel, ci sono la Zollikonstrasse e la Farlifangstrasse prima di scendere verso Küsnacht. Ultima asperità la Alte Landstrasse, 1,5 km al 5%, fino a Zollikon, a cinque km dall’arrivo. La corsa seguirà poi il lungolago con una leggera discesa e poi due chilometri pianeggianti fino al traguardo. In totale 273,9 km con 4470 metri di dislivello. Non ci sono salite lunghe e dure-dure da grandi giri, ma forse comunque troppi – gli uni e gli altri – per i cacciatori di classiche, pur baciati dal Talento come il campione uscente Mathieu van der Poel. La spunterà magari uno da Ardenne, ma solo se in giornata di grazia. Per avere un termine di paragone recente e attendibile per misure e tracciato e forse anche meteo: la Liegi 2024, stravinta il 21 aprile da Pogačar con 1’39” su Romain Bardet e addirittura 2’02 su VDP, era di ‘soli’ 254,5 chilometri con 4266 metri di dislivello. Zurigo 2025 sarà dunque più lungo di 19,5 km e più duro di altri 204 metri di dislivello positivo. E con una differenza forse ancor più sostanziale: il mondiale è sì una gara di un giorno ma non si corre come una classica. In ballo c’è molto di più. A partire da certe dinamiche in gruppo, tanto per esser chiari e senza tornare troppo indietro col pensiero fino a Lisbona 2001. In sintesi: il percorso scelto dall’organizzatore Oliver Senn di sicuro non è per velocisti , ma nemmeno per scalatori puri. Più duro e meno tecnico di Glasgow 2023 sì, ma non è Sallanches 1980 . E neanche Innsbruck 2018 col 28% massimo del Gramartboden, fidatevi: testato di persona senza nipotini e ‘impossibile’ persino a piedi. Caso vuole, proprio a Innsbruck 2018, Evenepoel – ex stellina e nazionale del calcio con Anderlecht e PSV – stupì il mondo con la sensazionale doppietta crono-linea e Hirschi vestì l’iride degli Under 23. Credete alle coincidenze? Noi, nì. L’azzurro tenebra e l’avventura di “Huckleberry” Finn Sì, ok, ma gli italiani? Prima il bicchiere mezzo pieno. Dopo 17 anni, dal back-to-back 2006-2007 di Diego Ulissi, l’Italia con Lorenzo Mark Finn ha spezzato l’incantesimo e ha riconquistato l’oro nella categoria Juniores maschile. Una gara, la sua, da predestinato delle corse a tappe quale gli addetti ai lavori lo pronostico già da un bel po’. Saggia e lungimirante la scelta, a 17 anni , di correre i prossimi due negli Under 23 e continuare la crescita agonistica, alla Auto Eder, la Devo della Red Bull-Bora-Hansgrohe di Primož Roglič e, dal 2025, Giulio Pellizzari. Ecco, il bravo Giulio capace di arrivare a soli 16” da Tadej Pogačar nel tappone di Santa Cristina Valgardena al Giro e riceverne al traguardo occhiali e maglia rosa, era la nostra punta nella corsa degli Under 23. A Zurigo, ha chiuso undicesimo con una condotta tattica forse rivedibile, ma che ci dà lo spunto per una riflessione-provocazione . Visto che, con il bacino attuale, realisticamente il Ct Daniele Bennati con le convocazioni non può fare miracoli, non sarebbe stato forse il caso di fargli correre il mondiale già con gli élite? Certo, ha solo 20 anni , e limiti tutti da esplorare a partire dalla completa maturazione fisica ancora da terminare. Ma aveva più senso farlo correre da leader per una maglia che comunque mai avrebbe poi indossato in gara, o piuttosto fargli fare esperienza – magari ora sin troppo ostica – con i big veri, sul palcoscenico che più conta e senza il peso delle aspettative? È l’eterno dilemma sul fare il pesce grosso in uno stagno piccolo o il viceversa, e una risposta ‘giusta’ – specie con l’infallibile senno di poi – non c’è. È vero che la scelta, rischiosa e pure criticata, di convocare Elia Viviani ai Giochi di Parigi anche per la gara su strada così da poter dare al Ct Marco Villa un uomo in più per la pista, ha poi ripagato con lo straordinario bronzo del 35enne veneto in coppia con Simone Consonni nella Madison. Ma stavolta forse si potevano fare valutazioni, e magari scommesse, diverse. Un po’ come lo stesso Bennati ha fatto, alla luce delle loro buone premondiali fra Montreal e Québec, con Andrea Bagioli, Lorenzo Rota, Edoardo Zambanini e Filippo Zana. A loro si aggiungono l’esperienza di Ulissi, il gran momento di forma di Mattia Cattaneo, già bronzo nella staffetta mista e, Marco Frigo, usciti da un’ottima Vuelta al servizio dei rispettivi capitani: Mikel Landa alla T-Rex Quick-Step di Mikel per Cattaneo, Michael Woods, George Bennett e Matthew Riccitello alla Israel Premier Tech per Frigo. In salita e con ottimistiche speranze per un piazzamento che sarebbe comunque un grande risultato, puntiamo su Giulio Ciccone, si spera finalmente risparmiato da malattie e sfortune assortite . E su Antonio Tiberi, che dopo l’abbandono alla Vuelta per duplice colpo di calore, si è ripreso vincendo il Giro del Lussemburgo davanti a sua maestà van der Poel, ancora per poche ore di arcobaleno vestito. Ha solo 23 anni, ma avendo in camera alla Bahrain-Victorious una chioccia come Damiano Caruso, pare pronto per il grande salto. Gli outsider Ma se lo scontato copione dovesse presentare qualche buco di sceneggiature, e le cose non dovessero andare come previsto, chi potrebbe sorprendere i grandi favoriti? Detto di Marc Hirsch, da tempo ‘mentalizzato’ sul mondiale di casa, il 2024 è stato l’anno della consacrazione di Matteo Jorgenson, lo statunitense primo alla Attraverso le Fiandre e alla Parigi-Nizza, secondo con maglie verde e bianca al Delfinato, piazzato nel tappone di Isola 2000 e ottavo nella generale al Tour, nono in linea ai Giochi di Parigi. Primož Roglič è una star, viene dal quarto successo in carriera alla Vuelta e certo non gareggerà ‘al servizio’ di Pogačar, ma neppure gli correrà contro. In più la Slovenia ha perso un gran corridore come Matej Mohorič, caduto durante la ricognizione di una gara gravel in preparazione al bis mondiale consecutivo di specialità, il suo vero obiettivo: il 6 ottobre a Leuven, in Belgio. Il Ct Uroš Murn lo ha rimpiazzato con Matic Žumer, che si spartirà il lavoro per i due co-capitani con le certezze Jan Tratnik, Domen Novak e Luka Mezgec, più Matevž Govekar e Jaka Primožič. Avrà la testa libera anche Julian Alaphilippe, finalmente sollevato anche dal gioco delle continue critiche del padre-patron Patrick Lefevere. Due volte iridato e sempre alla sua maniera, a Imola 2020 e Leuven 2021, l’epitome del corridore tutto cuore e panache ha già firmato un triennale per la Tudor di, massì, Cancellara. A 32 anni, può ancora divertire e soprattutto divertirsi. Lo ha dimostrato al Giro con la tappa – epica – vinta in solitaria a Fano. Qui sarà dura ripetersi, ma con la forma ritrovata , chissà che non si riaccendano magari anche solo lampi dell’antico Loulou. Detto che lunghezza e durezza ci sembrano troppo anche per un folle delle discese come il britannico Tom Pidcock, non siamo ancora così ingenui romantici da aspettare in eterno il beckettiano David Gaudu, comunque riemerso alla Vuelta da due anni di oblio. Tra i più citati, leggerete e sentirete in giro magari di Eddie Dunbar, primo a Cortizo Pardon e soprattutto al Picón Blanco alla Vuelta, l’imprevedibile irlandese Ben Healy compagno di Archie Ryan, l’austriaco Felix Großschartner, campione nazionale a cronometro e terzo in linea, il 37enne canadese Michael Woods vincitore a Puerto de Ancares al Giro di Spagna e già sul podio mondiale a Innsbruck 2018 , il tricolore ungherese Attila Valter, il lettone Toms Skujiņš, sesto a Montréal, il norvegese Tobias Halland Johannessen maglia bianca al Giro di Germania, il neozelandese Finn Fisher-Black vincitore ad Auxerre alla Parigi-Nizza, il portoghese João Almeida compagno di Pogačar alla UAE Emirates e il russo Aleksandr Vlasov, sua la tappa di Madone d’Utelle nella ‘Corsa del Sole’, secondo al Romandia e sul Cuitu Negru alla Vuelta, che corre sì da indipendente ma è in squadra con Roglič alla Red Bull-Bora-Hansgrohe. Tutti buoni se non ottimi corridori, ma quella maglia – sortilegi compresi – è unica. E sa concedersi solo a pochi eletti. Dovessimo invece fare un nome spendibile anche per il futuro neanche troppo remoto, andremmo su Mattias Skjelmose, che va forte da inizio anno: la tappa di La Colle sur Loup alla Nizza, miglior giovane allo Svizzera e alla Vuelta, campione di Danimarca a cronometro. Peccato la recente caduta e il ritiro al Lussemburgo. In alternativa Maxim Van Gils. Certo, corre per la corazzata belga di Evenepoel, ma se dovesse infilarsi in una fuga-bidone poi bisognerebbe andare a prenderlo. E chi peggio del Belgio, da sempre e pur privo di Van Aert, può sdottorare in materia di fuoco amico? Da Rik Van Looy a Freddy Maertens/Eddy Merckx, dall’atavica sindrome-Benoni Beheyt non si guarisce mai. Mentre noi, anche in tempi come questi di magra, siamo sempre stati e saremo – anche all’estero – La Squadra. Invidiati da tutti, a volte in primis noi stessi.

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