Il primo Giro d'Italia: nascita di un'epopea piena di sorprese

L’epopea è per definizione un’ampia narrazione poetica di gesta eroiche. Ed eroici erano gli sforzi degli atleti che, su strade impervie e polverose, si sfidavano ai primi del Novecento dello scorso millennio nelle corse di bicicletta, che tanto appassionavano il popolo e i ricamatori della penna che scrivevano sulla stampa dell’epoca. Era l’alba del ciclismo quando il Giro d’Italia si apprestava a emettere il suo primo vagito, sulla linea di partenza di una massacrante frazione Milano-Padova-Ferrara-Bologna, presentata dallo strillo in modo altisonante e allarmata: “A stanotte la partenza dei concorrenti. Dei 166 iscritti quanti si presenteranno allo start? Quanti dei partiti verranno eliminati dai 400 km della prima tappa?”. La ‘Gazzetta dello Sport’, che aveva voluto e organizzato la kermesse dal 13 al 30 maggio del 1909, presentava a tutta pagina, sul foglio rosa dal costo di centesimi 5 diretto dall’illustre torinese Eugenio Camillo Costamagna , l’equivalente di una vera e propria chiamata alle armi… “Corridori!! L’ora è prossima, la battaglia incombe. Gli amatori del ciclismo di tutte le nazioni vi ammirano e vi attendono. Ognuno ha fra di voi il suo favorito, la sua speranza. Come corridori italiani avete il gran compito di difendere i colori della nazione. Come forestieri ed ospiti, troverete fra i nostri campioni avversari degni ma leali e cortesi. Corridori! Concorrenti tutti! Più che il premio vi sia incitamento l’amore puro per lo sport. In questo amore, in questa passione sana e sincera, voi troverete le forze per vincere, per trionfare. Noi seguiremo le sorti della battaglia sereni ma fermi nell’idealità immacolata della giustizia. Saremo degli amici, dei fratelli, dei confortatori, ma saremo anche dei giudici giusti, imparziali. Le lotte sostenute nel passato contro i soprusi e le azioni disoneste ne danno affidamento securo. Ed ora correte, correte, correte: tutta l’Italia vuole vedervi, ammirarvi. Tutti sentono il bisogno di applaudirvi. Il vostro bel gesto di aver saputo osare segna l’inizio di una vittoria. In ognuno di voi c’è l’anima di un trionfatore”. L’afflato, l’enfasi, il periodare ricercato , risentivano ancora della matrice letterario-bellico-argomentativa ricca di costrutti di tipo orale, di immagini imponenti, di richiami virtuosi. Che un po’ stonavano con il carattere accessibile a tutti, popolare, di un ciclismo fatto di sforzo, sudore, fatica, dolore in perenne lotta contro gli elementi. Ma c’erano orgoglio patrio e voglia di dimostrarsi altrettanto capaci dei francesi di organizzare un giro nazionale, sulla scorta di quanto già accadeva oltralpe, dopo un lavoro di preparazione lunghissimo lanciato, come una volata, dal 24 agosto del 1908, con la pubblicazione della notizia che anche l’Italia avrebbe avuto la sua corsa ciclistica a tappe. E fu già molto che non la si definì Gara Velocipedistica. Anche se, nonostante gli entusiasmi e le capacità già dimostrate con le corse in linea dei primi anni del XX secolo, si dimostrò complicato reperire finanziamenti e premi in denaro. Ma si ovviò con la geniale iniziativa di coinvolgere il Touring Club Italiano, nato nel 1894, perché ogni comune toccato dalla corsa ‘sponsorizzasse’ il Giro a costi variabili fra le 10 e le 25 lire. L’astensione della formidabile équipe francese Alcyon, patrocinata dall’omonima azienda di Neuilly-sur-Seine, dominatrice della Milano-Sanremo 1908, nella quale piazzò ben otto corridori nei primi dieci posti, vincendo la gara con il belga Cyrille Van Hauwaert , fece tirare più di un sospiro di sollievo alle altre squadre iscritte. Tra queste spiccavano la ‘Stucchi’ capitanata dal fenomenale Lucien Petit-Breton, la ‘Bianchi’ di Giovanni Gerbi , l’équipe ‘Atala’ di Luigi Ganna , la ‘Rudge Whitworth’ di Giovanni Cuniolo e la ‘Labor’ di Ferrari, Gatti e Ghirardini. D’altra parte la corsa veniva presentata come ‘la gara delle équipes’, nella quale le forze individuali potevano proporre tutt’al più qualche sorpresa, ma difficilmente imporre la legge dell’evento. Eppure, soppesati tutti i protagonisti annunciati, a emergere -sulla carta- sembrava soprattutto dovesse essere Cuniolo, atleta di primissimo ordine, resistente come il miglior stradista, veloce come uno sprinter e molto temuto anche da quel formidabile franco-argentino che era Petit-Breton, che pure aveva vinto la Milano-Sanremo e la Parigi-Tours e per due volte vincerà il Tour de France. Ma come ogni prima volta che si rispetti, anche il Giro d’Italia volle debuttare con una sorpresa. La prima tappa venne descritta accoratamente dalla rosea del tempo: “La prima fase del giro eroico sta per compiersi, nell’attesa attonita della folla d’Italia. Il manipolo dei grandi si lancerà fra breve sulla via lunga che per regioni pittoresche ed ubertose attraversa la penisola fiorita, alla caccia affannosa della gloria, il retaggio degno dei forti, ognuno dei quali ha degna sorte di affermazione suprema… In questa prima tappa piana e senza ingombri, ma lunga e faticosa, noi vediamo gli uomini di classe procedere compatti al traguardo di Bologna; sol verso i trecento chilometri qualche defezione interromperà il cronologico manipolo”. Se da un lato era logico che ‘gli uomini di classe’, ovvero i migliori, facessero la corsa, dall’altro c’era anche da attendersi che i meno quotati cominciassero da subito a provare una certa sofferenza. Fatto sta che a tre quarti di tappa, fra i cronisti al seguito del Giro, cominciò a farsi largo l’idea che Cuniolo potesse avere davvero qualcosa in più, dopo una corsa di attesa e prudenza, dotato com’era di un rush finale infallibile. Il solo a dargli noia sembrava potesse essere il francese Louis Trousselier, uomo della pattuglia ‘Stucchi’ che avrebbe dovuto coprire le spalle a Petit-Breton insieme a Pottier, Decaup e Gaioni e che invece dava l’impressione di non voler mollare la ruota del tortonese. In apparente crisi di forma e di smalto ecco passare poco convincente, nel gruppo che andava disgregandosi, il riverito Petit-Breton. Secondo alcuni al Giro per preparare la successiva ‘Grande Boucle’, per altri poco interessato a darci dentro da subito e cosciente del suo valore da veterano, glorioso atleta capace di qualsiasi vittoria e di qualsiasi sacrificio, in possesso di tutte quelle qualità utili a reggere le fatiche prolungate di una gara lunghissima a tappe, poco propenso a sprecare cartucce sin dal primo giorno. Ma la verità era altra. A Petit-Breton poco dopo Brescia era scoppiata una gomma e vicino Peschiera era pure caduto lussandosi il braccio destro. Intanto in mezzo al mucchio, dopo trecentocinquanta chilometri, pedalava un atleta molto dotato, forte, giovane e piuttosto ignorato. Alto, vigoroso, dallo sguardo penetrante e incisivo, a detta di molti risoluto e di animo nobile, ma già temprato. Era un ragazzotto romano, poco più che ventenne, che dava l’impressione di saperla lunga. Il primo sforzo, per la precisione, era misurato in 397 km di corsa. A 47 km dalla fine non pareva ancora avere patito granché l’affaticamento come molti altri suoi colleghi. Dal portamento aristocratico ed elegante anche in bicicletta, dai tratti e dai modi gentili, era un ottimo passista veloce, che non solo sapeva gestire le lunghe distanze ma aveva serbatoio sufficiente per presentarsi competitivo anche nelle volate conclusive. Una delle quali tre mesi più tardi gli avrebbe fruttato il primo dei suoi due titoli italiani su strada, davanti a Mario Bruschera e proprio a Giovanni Cuniolo. Questo giovane corridore si chiamava Dario Beni, confuso in mezzo ai 127 partenti presentatisi alla punzonatura di Milano a Piazzale Loreto, in gran parte attirati dal montepremi complessivo messo insieme dall’organizzazione, capace di racimolare alla fine ben 25.000 lire. Che, rapportati alle 3 lire al giorno che guadagnava un operaio in quegli anni, davano un senso alla fatica. Considerato che gli atleti che avrebbero terminato la corsa avrebbero ricevuto 300 lire di ‘borsa’. A trenta chilometri dall’Ippodromo Zappoli, dove è previsto l’arrivo di tappa, Beni sembrò agitarsi. In fondo non aveva squadra, correva da ‘individuale’ e oltre a doversi preoccupare di vitto e alloggio, doveva anche occuparsi della strategia di gara e di fare tutto da sé. Compreso recuperare da bere. Operazione non sempre semplice, come Beni capì a Padova, al rifornimento, dove rimase senza borraccia e si dovette arrangiare abbeverandosi in un canale lungo il percorso e riempiendo lì anche le proprie bottiglie. Operazione dispendiosa in termini di energie e di tempo, che tuttavia non gli aveva impedito di restare a contatto con i migliori. Man mano che il pomeriggio avanzava cambiarono anche le temperature e la giornata andò facendosi uggiosa. Tanta polvere, aria pesante e ‘girini’ in fila indiana. Fra i tanti, Beni sembrava essere fra i più ‘freschi’ e pimpanti. A differenza di Cuniolo andato progressivamente staccandosi, mentre in testa a strappi facevano l’andatura alternandosi Pavesi, Galetti e Rossignoli. Tra una secchia levata di mano a una giovinetta sul ciglio della strada, nella quale l’accaldato Zavatti corse a tuffare la testa fra le risate dei presenti e un tentativo di fuga di Ganna arginato da Trousselier, il gruppo dei battistrada si avvicinò in fretta a Bologna e alla sagoma in lontananza dell’Ippodromo Zappoli, che nel 1888 si era sostituito alla Montagnola. Un struttura imponente situata appena fuori porta San Felice, nel triangolo oggi costituito dalle vie Vittorio Veneto, Timavo, Pasubio e Col di Lana, con accesso da via Saffi. Sede prestigiosa non solo dell’attività ippica bolognese, ma anche hangar di sosta per gli aerei che partivano dai Prati di Caprara per il triangolo Bologna-Venezia-Rimini, velodromo, sede del primo derby cittadino e del primo dei due spettacoli che tenne nel capoluogo felsineo lo show itinerante di vaudeville ‘Buffalo Bill’s Wild West and Congress of Rough Riders of the World’, con il Colonnello William Frederick Cody in persona. A pochi chilometri dallo Zappoli, la battaglia a due ruote infuriò quasi come una carica indiana a Little Big Horn. E San Luca sullo sfondo, traguardo quasi a tiro nella prima delle otto mete del primo Giro d’Italia, che partendo da Piazzale Loreto sarebbe ritornato a Milano dopo poco meno di 2.500 km, dei quali, durante la quinta tappa Roma-Firenze, Camillo Carcano da Soncino scelse di farne 240 in treno da Civita Castellana a Pontassieve, venendo per questo poi squalificato. Pioveva che Dio la mandava, quel pomeriggio, dopo 14 ore, 6 minuti e 15 secondi di moccoli e di pedalate. Una folla immensa aveva rotto i cordoni e riparava sotto tetti e tettoie spintonandosi per vedere l’arrivo dei gloriosi senza nome; in pochi sapevano distinguere i corridori l’uno dagli altri. L’ingresso nell’Ippodromo per l’ultimo giro accolto dalle urla del pubblico aveva lo stesso sapore del fragore del Colosseo all’entrata nell’Arena dei gladiatori. I ciclisti sudati, sporchi, affannati, al limite del collasso, tesi fino allo spasimo, protesi nell’ultimo sforzo, disposti a tutto pur di non cedere neppure un millimetro di quei 397 chilometri di battaglia. La parossistica esasperazione dell’evento sportivo che si consumava sugli spalti e giù dabbasso è indescrivibile ancora oggi. Il nervosismo, la rabbia, la foga, la confusione, la mancanza forse di sufficiente servizio d’ordine fecero il resto. In quella bolgia infernale in quattro si presentarono sulla linea del traguardo nell’entusiasmo generale. La corsa, partita alle 2:53 del mattino, si era conclusa in un modo clamoroso. Ganna era riuscito a entrare primo nell’Ippodromo, poi era caduto ma si era rialzato, riuscendo ad arrivare comunque quarto. Davanti a lui Carlo Galetti preceduto da Mario Pesce e a braccia alte proprio Dario Beni da Roma, che entrava così nella storia. La foto del suo arrivo è nella copertina di questo articolo. In quel Giro, Beni avrebbe vinto non solo la prima ma anche l’ultima tappa. Andando da Milano a Bologna, a Chieti, a Napoli, a Roma, poi risalendo a Firenze, Genova e Torino, prima di tornare in Lombardia. Frazioni interminabili che costringevano a uno o due giorni di riposo fra l’una e l’altra. La più breve fu proprio quella conclusiva, 206 km, praticamente metà della prima tappa. Meglio di Beni fece Ganna, che alla fine vinse l’edizione , aggiudicandosi tre vittorie parziali e le 5.325 lire del primo premio, che gli furono consegnate poco dopo l’arrivo al Parco Trotter di Milano, dove gli assicurarono che l’anno successivo avrebbe corso con il numero 1 del campione in carica, togliendolo al primo iscritto in assoluto della storia, tale Felice Peli diciannovenne originario di Zanano, frazione di Sarezzo, a diciassette km da Brescia, che ogni giorno partiva da casa, in via San Martino e si allenava sulle sterrate della Valtrompia sognando di fare il corridore. E per un attimo, breve, ci riuscì.