Matteo Zazzera: "La mia vita Eroica"

La bicicletta è quel mezzo di trasporto che ti insegna la pazienza. Perché parti dal punto A e devi, o meglio vuoi, arrivare al punto B, possibilmente, ma non necessariamente, nel più breve tempo possibile. Se poi dal punto A al punto B, ma anche C e così via fino a zeta, vuoi andarci con una bici che ha 40 anni se non di più, beh nel borsellino sotto la sella oltre agli attrezzi e alle camere d’aria di scorta ci deve essere sempre una bella riserva di pazienza. Perché pedalare su biciclette da ‘Eroica’ non è come andare su una moderna bicicletta anche di livello medio basso, non è mai una gara, non è una corsa nonostante il modello di bici sia, effettivamente, proprio da corsa. È un’esperienza, fisica, mentale, umana e a volte mistica. Piccola parentesi per i non addetti ai lavori: quando si parla di ‘Eroica’ si intende un evento ciclistico che si corre su strade prevalentemente sterrate con bici non successive al 1987 e che rispondano agli equipaggiamenti d’epoca. C’è quindi chi la corre con bici di inizio secolo e chi con mezzi di fine anni ’80 più moderni certo ma sempre lontanissimi da quelli attuali per rapporti, confort, gomme, affidabilità. Guidabilità. Nata da un’intuizione geniale di Giancarlo Brocci nel 1997 come una pedalata tra amici, ora conta decine di eventi in tutto il mondo che si dividono tra ‘Eroica’ appunto, dedicata ai mezzi appena descritti, e Nova Eroica con percorsi d’epoca ma fatti con bici moderne. E allora abbiamo voluto parlarne con Matteo Zazzera, che le ‘Eroica’ e le ‘Nova Eroica’ le ha pedalate tutte, ma proprio tutte, e in un anno solo. Ma per arrivare a farlo, passati i 40 anni, è partito da lontano, da una prima bicicletta comprata con i risparmi di un’estate di lavoro quando di anni ne aveva dodici. “La mia prima bici – ci racconta - è stato praticamente il premio che mi sono meritato lavorando nei boschi con mio padre. Lui aveva un'azienda agricola in provincia di Piacenza, in alta Val Nure a circa 1200 metri d’altitudine, e facevamo un po’ di raccolta fieno, raccolta granaglie per gli animali da cortile che avevamo e le mucche, ma soprattutto il business di mio padre era l'abbattimento legname”. Con le piccole paghette legate a quei primi lavori, si compra una mountain Bianchi Meta, all’epoca il sogno di molti ragazzi. In bici Matteo sapeva già andarci ma non ne aveva una sua perché, per un ragazzino di una famiglia come la sua, era un lusso. “Ho imparato intorno ai 7 anni ad andare in bicicletta, ma non era una questione di incapacità motoria. Era proprio una questione di non avere il mezzo, eravamo una famiglia decisamente, decisamente umile, per dire un termine che è appropriato, ma in realtà eravamo poveri. Ecco, questa è la verità”. Matteo non lo sa ancora ma quel primo passo, quella prima bici comprata con i soldi risparmiati, quel primo momento di indipendenza segnerà tutta la sua vita. Comincia a fare qualche garetta e quando ha quasi diciassette anni partecipa ad una competizione nazionale di mountain bike a pochi chilometri dalle sue montagne. “Ed è stata proprio la fortuna di essere nel posto giusto al momento giusto. Ecco, non so se ero l'uomo giusto, sicuramente ero nel posto giusto al momento giusto. Con una bici più performante e leggera della Bianci, che nel frattempo mi ero costruito, mi sono infilato nel percorso, diciamo clandestinamente, perché non avevo i soldi per l’iscrizione. Correvo senza numero. Qualche giorno dopo ricevo una chiamata da Piacenza: ‘Ti abbiamo visto che correvi sei andato forte, eri senza numero, se vuoi siamo disposti ad aiutarti e farti provare a correre in bici’. Era l’Hard Rock Race, una squadra piacentina che esiste ancora. E con loro ho cominciato a correre”. E Matteo corre tra gli juniores facendo bene, poi passa under 23 ma ai campionati italiani a Lungagnano Val D’Arda, sempre vicino a casa, uno spettatore entra sul percorso a piedi non accorgendosi che sta arrivando un gruppetto guidato proprio da lui. “Mi ha letteralmente infilato la gamba nella ruota anteriore, è stato un urto terribile. Lui si è distrutto la gamba, io sono finito in coma per circa per circa tre giorni. Questa situazione e la concomitanza col fatto che mio padre era già molto malato e poi è deceduto, ha fatto un po’ svanire tutti i miei sogni di gloria”. La passione per la bici, che era già un primo lavoretto perché Matteo veniva pagato qualcosina per correre, viene messa da parte ma non abbandonata del tutto. Smette di pedalare a livello agonistico, da Piacenza si sposta a Modena e comincia a viaggiare per lavoro, a conoscere una serie di personaggi legati al mondo della controcultura, della sottocultura e della street art. “Mi ritrovo a condividere con loro il vedere la bicicletta utilizzata a livello urbano, a vivere le grandi città, come New York, in una maniera che poi è quella che mi ha sempre affascinato: l'uso della bicicletta quotidiano, però con dello stile. Torno saltuariamente in Italia ma quando lo faccio mi ritrovo a condividere questa passione, questo modo di vivere con altre persone. E insieme decidiamo di aprire un’attività, la chiamiamo Iride e decidiamo di concentrarci sulle bici a scatto fisso per portarne la potenza comunicativa e penetrativa in Italia”. E qui bisogna fare un’altra parentesi tecnica per i non addetti ai lavori: le bici a scatto fisso, che principalmente a livello agonistico nascevano per la pista dove sono usate ancora oggi, hanno un unico rapporto. Non esiste il cambio e nemmeno la ruota libera, quell’invenzione che permette di smettere di pedalare ed avere la ruota posteriore che scorre senza bloccarsi. Le bici a scatto fisso dei puristi non hanno nemmeno i freni , come del resto accade, appunto, nei velodromi. Facile intuire però come la strada non sia un velodromo e come dover frenare bloccando la ruota posteriore e derapando non sia la soluzione migliore nell’uso urbano. Qualcuno allora opta per delle ‘single speed’ sempre niente rapporti ma almeno un freno e la ruota libera decisamente più pratiche e facili da guidare. Non saranno pratiche forse ma sono sicuramente molto amate dalla sottocultura urban, dai writer e, in generale, da una certa America che subisce la fascinazione di tutto il mondo delle bici da corsa degli anni ’70 e ‘80 non solo delle scatto fisso. Robin Williams, l’attore, era un appassionato ciclista da strada , Keith Haring, lo street artist, girava sempre in bici per New York scappando dalla polizia tra un graffito e l’altro. Negli anni ’90 la bici entra anche nella moda e nello spettacolo: nel manifesto di ‘Chi non salta bianco è’ Wesley Snipes, il duro del film, ha un cappellino da ciclista marchiato Colnago. Questa è l’aria che Matteo respira dal mondo delle ‘fixed’. Nei suoi giri fa amicizia anche con diversi artisi tra cui Futura 2000 nome d’arte del writer Leonard McGurr, uno che, tanto per capirsi, faceva mostre a New York con Haring e Jean-Michel Basquiat. “E lui è tutt'ora uno che gira tanto in bici, gli ho fatto due biciclette, una me l'ha decorata per me e ce l’ho nella mia collezione. E pensa che è stato all'epoca il fidanzato di Madonna , quando lui era più famoso di lei. E parliamo di Madonna”. Da Iride, l’azienda che produce le scatto fisso, nasce IRD la squadra corse che vince due volte il mondiale scatto fisso al Red Hook Criterium, il massimo circuito della disciplina. “E abbiamo vinto – dice Matteo con un bel po’ di giustificato orgoglio nella voce – contro colossi come Cannondale, Specialized o altre realtà americane, io e i miei soci, eravamo 5 amici che avevano portato lo scatto fisso in Italia e sono andati a vincere due mondiali”. E a proposito di mondiali e campioni del mondo, l’incontro più significativo della vita ciclistica di Matteo è stato con Eddie Merckx: “Ero all’EICMA del ’98 e il personaggio cercato da tutti era Marco Pantani ma era sempre protetto da una cerchia di carabinieri. Allo stand Colnago c’era, in disparte, un omone, sarà stato 100 chili e passa, che rispondeva al nome di Eddie Merckx. Mi avvicinai e in francese, perché io sono madrelingua avendo madre francese, gli dissi qualcosa e mi feci firmare una sua bella foto scattata da mio padre a una partenza della Sanremo. A mo’ di battuta gli dissi: ‘Ma qua eri più in forma di oggi, eh?’. E lui mi fa: ‘Stai attento a non lasciarti mai andare nella vita perché per noi ciclisti è importante essere sempre in forma’. E io, che prima di riprendere a pedalare ero arrivato anche a 120 chili, l’ho capito bene quell’insegnamento. E anche lui visto che adesso è più in forma di 25 anni fa. A me, a parlare con lui, una divinità terrena si è fermato il tempo. È stato il più grande di tutti anche per quello che ha fatto con quelle bici e quelle strade, lui la Mamba Mentality di Kobe Bryant ce l’aveva già negli anni ’70”. Tutta la vita di Matteo ha gravitato e gravita attorno alle due ruote a pedali: consulenze per aziende del settore tenendo contatti con fabbriche e fornitori da Corea del Sud e Cina e anche una docenza in un progetto voluto dalla Camera di Commercio di Milano, Lodi e Monza Brianza all’Istituto Gatti della Confartigianato e che si chiama Bike Factory. “Praticamente un ateneo di formazione per tutte le persone che vogliono entrare nella bike economy italiana. Però, partendo dalla porta d'ingresso, quindi dalla porta principale. Parliamo di formazione sulla meccanica della bicicletta, la saldatura, la verniciatura. Tutti gli aspetti che riguardano proprio la bike economy e lo teniamo all'interno del Velodromo Vigorelli, uno dei simboli del ciclismo italiano”. Con tutte queste bici attorno per Matteo Zazzera, che abbiamo dimenticato di dire avere un fisico più adatto al rugby che al ciclismo, continua a pedalare e sceglie di farlo con le bici d’epoca e, come d’obbligo in questi casi, con abbigliamento abbinato in stile. Decide anche, essendo tra le altre cose consulente di ‘Eroica’ per l’estero, di pedalare tutte le tappe, sia quelle per bici d’epoca sia le Nova Eroica. E sceglie, per non farsi mancare nulla, di fare sempre il percorso lungo. In otto mesi fa 2380 chilometri solo di ‘Eroiche’. Da Cuba a Buonconvento, passando per le Dolomiti, Valkenburg , Gran Sasso, California tanto per citarne alcune per finire a Gaiole in Chianti dove tutto è cominciato nel 1997. Con una bici “pesante, con il cambio che funziona poco o nulla, un rapporto di trasmissione ridicolo, gomme strettissime, freni che non frenano e con cui le salite diventano, a confronto dei mezzi attuali, un’impresa. Diventano la tua impresa, quella in cui mettere il piede a terra e magari scendere a spingere non è un’onta ma un modo per andare avanti e finire il percorso. L’impresa che ti sei detto che vuoi fare. Non serve arrivare prima, non c'è un traguardo. Servono testa e pazienza. È proprio fare quello che ti sei messo in testa, tu dici oh, se oggi riesco a fare sta ***** di salita tutta in bici veramente non so cosa faccio. E il bello dell’Eroica è che se ci riesci ti senti campione del mondo, anche se non hai vinto nulla e arrivi dopo gli altri”.

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