Facce da Giro d’Italia: che cosa hanno detto i primi tre giorni

Azzardo, scommessa, di sicuro una scelta non banale. Il Giro d’Italia è partito, per la prima volta, dall’Albania. Durazzo, Tirana, Valona: per chi ha qualche anno sulle spalle, ricordano le navi cariche di migranti, la solidarietà spontanea del popolo pugliese all’attracco della Vlora nel 1991. Poi c’è stato un razzismo strisciante, a ogni atto criminoso si sentiva: “Sono stati gli albanesi”. Come tutte le storie, il legame tra Italia e Albania è stato più forte delle maldicenze, degli stereotipi. Come dimenticarsi dell’immediata vicinanza fornita dal Premier albanese Edi Rama mentre l’Italia piangeva e sembrava disorientata nei giorni del Covid? In questi giorni invece si è trattato solo sport, paesaggi ora più conosciuti anche da noi italiani, sempre più attratti dal turismo d’oltre Adriatico. Già, le facce. Una si prende, di diritto, la copertina di questo inizio di Giro. È quella di Mads Pedersen. Due trionfi in tre giorni, due guizzi potenti e rabbiosi. Una cronometro al limite della perfezione e una maglia rosa persa per solo un secondo e riconquistata già il giorno successivo: l’obiettivo della Lidl-Trek di Luca Guercilena era di sbarcare in Puglia con la rosa sulle spalle, missione compiuta. Super Mads, già il danese più vittorioso di sempre, si sta prendendo un posto, a suon di successi e grandi prestazioni, tra i fenomeni di quest’epoca. Guardate gli ordini d’arrivo delle corse che più contano, il suo nome c’è quasi sempre. Vittorie in volata, a Tirana e a Valona, costruite con strategie di squadra semplicemente perfette . E qui entra in gioco anche la faccia di Giulio Ciccone. In questa corsa rosa non ha compiti precisi, è un battitore libero di fare e disfare. È sereno, ne abbiamo avuta una riprova lo scorso novembre, chiacchierandoci in occasione della festa di fine anno organizzata dai suoi agenti Johnny e Alex Carera. Nella prima tappa, sulla seconda e ultima ascesa del Surrel, ‘Cicco’ ha aiutato Pedersen da autentico gregario. Nella cronometro di Tirana ha perso tanto , sì, ma non è quello il suo pane quotidiano. Crediamo invece abbia nel mirino la tappa di Tagliacozzo, la settima, nel suo Abruzzo. Là, proverà a vincere. E magari ci spiegherà quell’emoticon che lui, Jannik Sinner e Antonio Giovinazzi si mandano ripetutamente. C’è la faccia, serena, concentrata e sorniona, di Primož Roglič. Lo sloveno ha il ruolo di favorito numero uno e in queste prime tre tappe ha dimostrato di avere tutto sotto controllo. La cronometro l’ha persa per appena un secondo. E da un giovane fenomeno delle prove contro il tempo, Joshua Tarling, ma ha conquistato la maglia rosa e l’ha restituita a Pedersen l’indomani. La sua Red Bull–BORA–hansgrohe sembra solida e attrezzata, la meta è però ancora lontana: il Giro si deciderà nell’ultima settimana, l’importante è arrivarci senza problemi e pronti a giocarsela. E a metà, alla decima, c’è un’altra cronometro in cui poter dimostrare quanto già fatto vedere in quella di Tirana. Il contendente sulla carta più pericoloso ha la faccia di Juan Ayuso. La UAE Emirates-XRG, senza Tadej Pogacar, schiera comunque la solita corazzata: con lo spagnolo, Isaac Del Toro , Adam Yates, il promettente Filippo Baroncini, Jay Vine, Brandon McNulty… Il capitano designato è Ayuso. A cronometro non ha perso tanto , ma sa che correre nella stessa squadra di Pogačar significa dover sfruttare ogni occasione in cui il fenomeno sloveno è assente. Il 22enne catalano ha la dose giusta di sfrontatezza, le doti del corridore di classe. Questo suo primo Giro è il suo vero banco di prova ai massimi livelli, per ora è rimasto quasi nell’ombra; la faccia, lui, l’ha un po’ nascosta e forse è anche una tattica, leggera caduta e problemi tecnici a ruota e radiolina a parte. La faccia della speranza tricolore, per la generale, è quella di Antonio Tiberi. Al momento è ottavo nella generale, ma ora parlare di classifica non ha alcun senso. Meglio concentrarsi sui secondi di distacco e quelli che ha perso nella cronometro non spaventano. Nei 28 km contro il tempo tra Lucca e Pisa dovrà però trovare quel qualcosa in più che a Tirana gli è mancato. Anche lui, come Ciccone, sembra aver ritrovato la giusta serenità. Antonio si è messo alle spalle scorie e storie, è libero da troppe pressioni ma ha l’obiettivo di arrivare in top ten a Roma, e magari qualcosa di più. E per questo, più che la serenità, servono i cavalli, la cilindrata, la forma fisica. C’è anche la faccia di Giulio Pellizzari, giovanissimo scudiero di Roglič. Dall’anno scorso ce lo ricordiamo per l’incoraggiamento di Pogačar sul Monte Grappa a proseguire insieme nella fuga, per la maglia e gli occhiali regalatigli poi al traguardo dallo sloveno come segno di stima e di rispetto per almeno averci provato. Dalle lacrime al grande salto in una squadra World Tour, al fianco di Roglič. È un percorso di crescita, ha 21 anni: il ragazzo si farà, dice la canzone. C’è poi la faccia felice di Joshua Tarling, a 21 anni, 2 mesi e 25 giorni il più giovane di sempre a vincere una cronometro al Giro d’Italia. Battuto il primato di Romeo Venturelli, che il 20 maggio 1960 vinse a Sorrento a 21 anni, 5 mesi e 11 giorni. Josh è diventato anche il più giovane vincitore di una tappa al Giro dai tempi di Moreno Argentin, che il 22 maggio 1981 vinse la Sala Consilina-Cosenza. In assenza di Filippo Ganna e Remco Evenepoel, nelle prove contro il tempo Tarling è l’uomo da battere. E la sua Ineos Grenadiers ha una certa familiarità con i cronomen. Chissà se il giovane Josh sarà l’ennesimo enfant terrible di questa epoca destinato a scrivere pagine di storia del ciclismo. Poi, inevitabilmente, ci sono anche le facce tristi. Su tutte quella di Mikel Landa, che termina il suo Giro subito, con una terribile caduta nella prima tappa. Frattura stabilizzata dell'undicesima vertebra lombare, fine dei sogni a 5,2 km dall’arrivo a Tirana. Nel ciclismo avvengono cose misteriose, persino quasi esoteriche. Una di queste è il landismo, una forma appassionata e meravigliosa di amore di tantissimi tifosi per il basco della Soudal-Quick-Step. Un affetto incondizionato e che prescinde da risultati, prestazioni, imprese. È il bello di questo sport, in cui l’autenticità di un corridore può prevalere sul suo palmarès. Si può diventare dei miti semplicemente restando sé stessi. Aupa Mikel siempre, il landismo non finisce certo qui. E a proposito di idoli del ciclismo, non possiamo non parlare dello sguardo di Wout Van Aert. Voleva entrare Papa per la prima maglia rosa, è uscito cardinale e forse anche meno. Ha faticato moltissimo in salita nella prima tappa, e ancora di più in una delle sue specialità, la cronometro, perdendo secondi come fosse uno scalatore. È rimasto dietro anche nella tappa di Valona. Solo preparazione sbagliata, condizione fisica non ottimale, gli antibiotici presi per un’infezione? Stiamo assistendo alla sua parabola discendente, o forse ha ormai smarrito il killer instinct, o magari è troppo in pace con sé stesso? Che sia sempre stato ‘Paperino’ è risaputo, sempre a dover avere a che fare con l’avversario storico, Mathieu van der Poel, i 51 secondi posti in carriera. Ma prima era un ‘Paperino atomico’, potente, straripante, che fosse in una classica, nel ciclocross o da gregario di super lusso per Jonas Vingegaard al Tour de France. Quest’anno è diventato Wout Van ‘Quart’ per la quantità di quarti posti raggranellati, di vittorie sfumate e a volte buttate alle ortiche. La speranza è che la migliore condizione torni e che lui ci regali qualcosa anche in questa corsa rosa. Non si tratta di tifo, di simpatie: Van Aert è un patrimonio del ciclismo, e sperare che Wout torni ai suoi massimi livelli significa solo amare questo sport. In questo Giro non c’è Pogačar. Il possibile GOAT, con la sua assenza, lascia una finestra di opportunità ad Ayuso. Tadej invece è già focalizzato su Tour e Vuelta. Scherzo del destino, ci ha pensato una goat in carne e ossa, una capretta, a prendersi qualche secondo di warholiana popolarità: ha abbandonato il gregge, attraversato la strada durante il passaggio dei corridori, centrando il neozelandese Dion Smith, che per fortuna è riuscito a controllare la bici senza cadere. L’ovino ha poi raggiunto l'altro lato della carreggiata, saltando su una parete rocciosa dopo aver attraversato il gruppo. Episodio curioso e pericoloso che per puro caso non ha avuto conseguenze. Infine, c’è la faccia del Giro d’Italia. Il Giro è sempre il Giro. Un’immensa macchina organizzativa, con tanti problemi grandi e piccoli da risolvere in mesi di preparativi, e altrettanti da affrontare in corsa. Il Tour de France è da ormai da decenni un altro pianeta, è un dato di fatto. Non bastano la buona volontà degli organizzatori, scelte anche fantasiose come la partenza in Albania, percorsi per quanto adatti allo spettacolo e invitanti. Il Giro dovrebbe diventare sempre di più una ‘questione nazionale’, non solo delegata a chi lo organizza. Si dice, spesso retoricamente, che la corsa rosa è una formidabile cartolina del Paese, un grande messaggio promozionale per le bellezze del nostro territorio. Per rendere questa idea meno retorica e più reale, servirebbe che il Giro diventasse davvero un patrimonio italiano. La nostra Festa di maggio.

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