Tutte le cose che abbiamo imparato da Gianni Mura

Oggi, 9 ottobre, avrebbe compiuto 80 anni, e probabilmente ci avrebbe raccontato del suo trentanovesimo Tour da inviato. Si è fermato a 33, quello seguito nel 2019, e da allora siamo tutti orfani di Gianni Mura. Noi lettori, privati di articoli che erano romanzi quotidiani, tappa dopo tappa, tutti battuti sui tasti dell’inseparabile Olivetti lettera 22. Ma pure il Tour de France stesso, che senza di lui ha un motivo in meno per essere seguito. Gianni ci ha lasciati il primo giorno di primavera del 2020 e, sarà un caso, ma quell’anno causa Covid la Gran Boucle non si è corsa a luglio ma a settembre. Forse anche il destino ha capito che senza di lui non era la stessa cosa. Come quando si ritira un grande fuoriclasse e Gianni lo era della scrittura, riconosciuto pure dai francesi, che quando lo leggevano non solo non si incazzavano ma gli davano pure il premio Antoine Blondin, intitolato a uno dei più celebri ‘souivier’ della corsa: unico di lingua non francese a riceverlo. Trentatré Tour fanno, sommati, oltre due anni e mezzo di vita, riempiti con cronache che non erano solo di ciclismo o di ciclisti, ma di paesaggi, storia, cucina, vini, musica, vita. Parlava dei Pirenei, poveri e brulli, molto più volentieri delle Alpi, troppo belle e patinate, descriveva pranzi o cene con il Cassoulet, piatto con fagioli e spalla del maiale che ai 40 gradi di luglio gli meritavano l’applauso solo per il coraggio di ordinarlo, raccontava delle canzoni che lo accompagnavano, da Edith Piaf a Jacques Brel fino all’adorato Sergio Endrigo. Leggendolo percorrevi le tappe, ballavi sul pavè della zona di Roubaix, pedalavi sulle lunghe strade del Sud tra i campi di girasole, salivi sui tornanti cattivi del Tourmalet e quelli sulla pietraia del Ventoux, scendevi dall’Izoard, sentivi il profumo del pastis e ti concedevi una pausa in qualche bistrot: ti faceva capire che il Tour non si svolge in Francia, ma è la Francia a essere dentro il Tour. Conosceva lo sport, ma soprattutto gli uomini, e il suo amore non andava necessariamente ai vincenti: ha descritto il sorriso gentile di Raymond Poulidor, l’eterno secondo, così jellato da diventare popolarissimo, e la grinta di Luis Ocana, personaggio tragico, un torero imprestato alla bicicletta e dal destino segnato. Era incapace di voler male, così concluse che le emozioni regalategli da Lance Armstrong e Pantani valessero comunque, e specie per Marco provò a comprendere prima di giudicare. Detestava i finti, i leccaculo, i sotterfugi, comprese le diavolerie moderne che alterano il modo di comportarsi in corsa: epocale la sua battaglia contro le ‘oreilletes’, gli auricolari con i quali i ciclisti vengono teleguidati dalle ammiraglie, così si esaltò per Romain Bardet, buon scalatore francese che un giorno, fingendo che non funzionavano, le gettò a terra, andò in fuga contro il parere del Direttore Sportivo e vinse la tappa. Non solo ciclismo Gianni, ovviamente, non era solo il Tour, ma anche i ‘Sette giorni di cattivi pensieri’ su Repubblica, la rubrica che alla domenica mattina ti rendeva più gradevole il primo caffè al bar, o la celebre ‘Intervista al campionato’: domanda e risposta sulla stagione alla vigilia della prima giornata ottenuta, garantiva lui, consultando una palla di lardo. Nel calcio, alla fine, faceva fatica a riconoscersi, lui che da ragazzo aveva smesso di tifare Inter perché avevano venduto Angelillo alla Roma. Annusando l’atmosfera viziata da troppi figuri e faccendieri andava a cercare aria pura, trovandola in chi aveva qualcosa da dire e da dare anche fuori da un campo di calcio, come Damiano Tommasi, o rifugiandosi nelle magie di Roberto Baggio. Anche Gianni era un mago, capace di usare le parole non solo per gli articoli ma smontandole e ottenendo anagrammi possibili solo ai geni. Generoso come nessuno, impossibile pagare se eri a tavola con lui, e pensare che si sarebbe dovuto mettere mano al portafoglio solo per il piacere di sentirlo raccontare o per sfidare la sua memoria negli esercizi di mnemonica: ciclisti che cominciano con la B, non facevi in tempo a dire Binda che lui aveva già squadernato Bitossi, Basso, Battaglin, Bevilacqua e un’altra decina. Chi scrive queste righe è un piccolo giornalista che ha avuto la fortuna di passare con lui pranzi e soprattutto cene che si concludevano quando la notte cominciava a lasciar posto alla luce dell’alba. La prima volta notò che avevo una buona tenuta del rosso piemontese, e forse questo divenne una sorta di eterno passepartout. “Un buon debutto”, commentò lui stringendomi la mano. Grazie ancora Gianni, per quel complimento e per tutte le righe meravigliose che hai regalato.

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Tutte le cose che abbiamo imparato da Gianni Mura

Nicola Roggero