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Senna trasmetteva desiderio: Ayrton spiegato alle nuove generazioni

SENNA PER SEMPRE

Leo Turrini

Sono passati 30 da quel tragico 1° maggio 1994 che ci ha privato di uno degli sportivi, e degli uomini, più amati di sempre. Ma Ayrton Senna è oggi più vivo che mai. Vive nella memoria collettiva, nel ricordo di chi l'ha vissuto e nell'immaginario di chi, invece, non l'ha mai visto correre. Fuoriclasse, talento prodigioso, fragile, meravigliosamente umano: ecco chi era Ayrton

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Chiedi chi erano i Beatles, suggeriva a un ragazzo degli anni Ottanta una bella canzone degli Stadio. Chiedi chi era Ayrton, vorrei suggerire sommessamente io a chi non c’era o non aveva l’età per ricordare quando Senna era l’idolo degli autodromi, l’eroe della velocità, il mito dei Gran Premi per un mondo che stava scivolando verso la fine del secolo.

Senna se ne andò portando via i suoi e i nostri sogni

Sapete, la mia maestra delle elementari spiegava che, per chi scrive, niente è difficile come stilare un riassunto. E vale anche per la memoria del Campionissimo che morì con i suoi e i nostri sogni trent’anni fa, a Imola, contro il muro del Tamburello. Beh, la maestra aveva proprio ragione. Tanto è stato raccontato sull’uomo e sul fuoriclasse. Non poteva essere diversamente e molto meglio di me lo aveva compreso Omero: quando l’eroe viene rapito troppo presto in cielo, istantanea è la trasformazione in Leggenda.

Chi c'era allora ricorda benissimo dov'era nel momento della tragedia

Vedete, c’è un dettaglio che vale come stella polare del ragionamento. Chi c’era nel 1994, beh, sa dirvi esattamente dov’era quando arrivò la notizia della tragedia di Imola. Così come la generazione precedente alla mia sapeva cosa stava facendo quando apprese dell’assassinio di John Kennedy nel 1963. E allo stesso modo gli antenati mai dimenticarono cosa provarono nel 1949, quando si scoprì che l’aereo del Grande Torino si era schiantato contro la basilica di Superga. Forse, potrei fermarmi qui. Nel senso che Ayrton appartiene alla memoria collettiva come un presidente degli Stati Uniti o come la squadra di calcio che restituì al popolo italiano l’orgoglio patriottico, dopo la disfatta della guerra voluta dai nazifascisti.

Senna piaceva a tutti, anche a chi non tifava per lui: trasmetteva desiderio

Sto esagerando? Fidatevi: no. Senna ci piaceva, anche se magari tifavamo per Prost o per Mansell o per Alboreto o per Piquet padre, perché irresistibilmente trasmetteva il desiderio. Il desiderio della velocità, l’ansia per la competizione, l’ossessione per la vittoria. Mi direte, voi che non c’eravate: ma questo vale per qualunque pilota! E avreste ragione a formulare l’obiezione. Eppure, sbagliereste.

Ayrton, oltre il mito c'è di più

Senna non era solo mitico, al netto delle esagerazioni post mortem da letteratura in stile romanzetti rosa. Senna era un mistico: era uno che in un’epoca già lanciata, nell’opulento Occidente, verso la secolarizzazione, ecco, lui era uno che aveva il coraggio di dichiarare che aveva visto Gesù Cristo sotto il casco il giorno in cui finalmente, nel 1988, diventò campione del mondo con la McLaren. E testimoniava la sua profonda religiosità infischiandosene di chi lo prendeva in giro. Io ho adorato Ayrton non solo per le sue imprese al volante (su tutte, Donington 1993, una magia nel diluvio) e non solo per il talento prodigioso che esprimeva conficcato in un abitacolo. Lo ha adorato anche, se non soprattutto, per le sue fragilità. 

Non sempre fu esemplare sul piano etico: nel 1990 a Suzuka buttò fuori deliberatamente la Ferrari di Prost, perché l’incidente gli avrebbe consentito di laurearsi campione (e di vendicarsi per il torto subito dodici mesi prima, sulla stessa pista). Me lo aveva detto, che si sarebbe comportato così in caso di necessità. E io lo scrissi e lui non smentì mai e infine lo fece davvero. Insomma, non credete a chi pretende di fare di Senna un santo. Perché non lo era, non voleva esserlo. Era invece meravigliosamente, terribilmente umano

Fu l'unico a recarsi sul luogo dell'incidente Ratzenberger

L’ho visto, vivo, per l’ultima volta sabato 30 aprile 1994. Nel paddock di Imola. Era appena capitata la disgrazia di Roland Ratzenberger, il Milite Ignoto della F1. Ayrton era stato l’unico pilota a recarsi sul luogo dell’incidente. Ci siamo incrociati dietro il box della Williams, il suo team. Aveva gli occhi lucidi. Avrei voluto chiedergli qualcosa, ma con lo sguardo mi fece capire che non se la sentiva di parlare.

L'ultimo viaggio verso San Paolo: ero su quel volo

Pochi giorni dopo, il 3 maggio, per una fortuita coincidenza feci il viaggio da Parigi a San Paolo in compagnia della sua salma. Il comandante della compagnia aerea brasiliana di allora, la Varig, mi spiegò che per legge le bare dovevano viaggiare nella stiva. Ma lui no, mi disse il comandante. Lui no. E sono stato con lui per ore e ore. Gli parlavo con il pensiero e ho immaginato mi rispondesse. Avevamo la stessa età, tra noi all’anagrafe c’erano appena tre giorni.
 

E già, Ayrton. 
Io sono ancora qua.
Sei tu a mancarci, ancora e sempre.
Obrigado, fratello
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