Drudi: "Il casco del Sic il mio preferito. Una volta Rossi me ne chiese uno di 'legno'…"
il designerIl celebre designer romagnolo Aldo Drudi, ideatore e creatore di livree e caschi per tanti team e piloti MotoGP, si racconta a skysport.it: dalla collaborazione con la famiglia Rossi al rapporto con Kevin Schwantz e Marco Simoncelli. Tanti gli aneddoti in questa intervista realizzata da Paolo Beltramo
Negli ultimi tempi abbiamo assistito alla presentazione di tre squadre Ducati per il mondiale MotoGP 2024: il Team Gresini, quello Factory e il VR46. Moto diverse, piloti diversi, colori diversi. Una cosa però le accomuna, le unisce: quel vestito da gara che abbiamo visto sulle moto e sulle tute dei piloti e che vedremo pure sui camion, negli arredamenti dei box e delle hospitality, le ha ideate e create la stessa persona: Aldo Drudi. La più capace matita del motomondiale: quando arte, genialità, passione, eleganza, fantasia, colore, bellezza, ironia incontrano lo sport grazie alla sensibilità e alle idee di una persona. Un professionista di valore assoluto, che potrebbe stare lassù, inavvicinabile, a tirarsela con quelli che hanno fatto una frazione di quello che ha disegnato o colorato lui e che invece vive nel suo studio di Cattolica, tra le sue amicizie, le passioni che lo rigenerano e nutrono, insieme ai suoi caschi, carene, tute, sogni, ricordi. Se invece non sapete chi sia basta che facciate un piccolissimo sforzo e pensiate alla straordinaria, vivace, allegra eleganza racing di Valentino Rossi, Kevin Schwantz, Marco Simoncelli, giusto per citarne qualcuno, per farsi un'idea. Ma non è soltanto nelle corse e nell'ambito del motociclismo che Aldo è stato capace di eccellere: due Compassi d'Oro vinti e in finale per il terzo. Barche, circuiti, moto, cose ideate, inventate, innovate, rese più belle.
L'ho conosciuto in un modo curioso, divertente, a modo suo romantico. Era il 1980 e a quei tempi i giovani giornalisti avevano grandi possibilità di collaborare con quotidiani nazionali, riviste di settore e anche testate generaliste di assoluto valore. Così feci un servizio sulle moto e sui caschi e ci infilai quello che Aldo aveva disegnato in quell'inizio di carriera (sua e mia): fu pubblicato nientemeno che su "Vogue", sì il rivistone di moda e stile che allora dominava letteralmente la scena con la sua autorevolezza. A lui, però, non lo avevo detto, non avevo neanche il numero di telefono. Ma glielo fece notare qualcuno e ne comprò qualche numero coi pochi soldi che giravano. L'anno dopo, forse ad una "200 Miglia" di Imola o ad una gara di Campionato Italiano, venne da me chiedendomi se fossi io quello che aveva scritto quell'articolo su di lui e le sue prime opere. Per ricambiare poi mi disegnò un casco meraviglioso, ma soprattutto diventammo amici. D'altronde Aldo sarebbe una bella persona anche se non avesse disegnato niente. Bravo e appassionato, romagnolo vero, un affluente del fiume di genialità che rende sempre più verde la Motor Valley.
Aldo, tre presentazioni Ducati di squadre italiane e tre moto "dipinte" da te. Non credo sia un caso...
"Con Fausto Gresini eravamo amici, era uno ai quali dipingevo il casco ai tempi del Team Italia e dopo la sua scomparsa Nadia mi ha chiamato chiedendomi quale potesse essere il colore che lo ricordasse. Decidemmo di fare quel colore del cielo, dell'aria, del fresco perché proprio per mancanza di quell'aria, col Covid, ci aveva lasciato. Così abbiamo un po' azzardato con quel colore improbabile che però vedo che alla fine è stato apprezzato e allora abbiamo ribadito anche quest'anno la livrea azzurra. Con Ducati collaboro da tanti anni con tanto piacere anche perché siamo vicini, sono 100 km da loro: Claudio Domenicali e Andrea Ferarresi, capo del centro stile, mi danno la possibilità di lavorare sulle più veloci moto del mondo e abbiamo fatto l'estetica delle MotoGP. Quest'anno vedere la MotoGP, la Superbike, la Super-Sport e la nuova moto da cross unite da una linea che ha una sua identità precisa e immediatamente riconoscibile, tutte ideate graficamente dalla Drudi Performance, mi sembra una bella cosa. La moto del Team VR46 Pertamina doveva per forza avere il giallo che è il colore di Valentino, con il quale collaboro da sempre, stavolta fluo. Doveva essere combinato con il nuovo sponsor (la scritta Enduro) e la parte bianca serviva da stacco. In molti non l'hanno apprezzata o capita, io credo che quando vedremo le moto in pista sembreranno una scia luminosa. Spero che l'effetto piaccia".
Facciamo un passo indietro, come e quando hai cominciato?
"Avevo un dono, un po' come per chi suona uno strumento, che era quello di riuscire a disegnare bene. A scuola gli insegnanti mi hanno sempre incoraggiato fin dalle elementari e dalle medie. Poi la scuola d'arte di Pesaro è stata quella che mi ha indirizzato davvero al lavoro che sto facendo. È però stato tutto molto casuale. Sono nato qui, e questa è una zona dove vedevi le corse di moto a Rimini, Cesenatico, Cattolica, sulle strade della 'Mototemporada'. Mio padre e mio fratello maggiore mi portavano a vedere la gare: Agostini contro Pasolini e io ovviamente da buon romagnolo tenevo a quest'ultimo. Puoi immaginare che meraviglia fosse per un ragazzino: quel rumore fantastico di quei 4 tempi coi tromboni aperti, oppure l'odore dell'olio di ricino che si metteva nella miscela dei 2 tempi e che io sento ancora nel naso. Sono insomma cresciuto col mito di quel cavaliere moderno. A me è andata bene perché sono riuscito - sempre per caso - a combinare le due passioni. Mi ero verniciato il mio motorino, il mio casco e facevamo delle corse non autorizzate dove sorgevano le nuove urbanizzazioni. Feci per un negozio di abbigliamento sportivo un marchietto perché lui voleva imbonire i ragazzini con questo adesivo da regalare. Ne ho ancora uno in ufficio. Giancarlo Morbidelli, l'appassionatissimo costruttore di macchine per la lavorazione del legno ma anche di moto che hanno anche vinto dei mondiali, vide quel mio adesivo, mi fece cercare e mi invitò al reparto corse a Pesaro. Puoi immaginare l'emozione: mi chiese di fare una livrea per la 500 monoscocca che era pilotata da Gianni Pellettier e poi da Graziano Rossi. Qui arriva un'altra connessione mostruosa: mio fratello nel frattempo gestiva una discoteca per l'Università di Urbino dove Graziano andava a corteggiare Stefania. Successe tutto in quel locale: mio fratello era affascinato dal personaggio di Graziano, che allora sembrava il ritratto stereotipato di Gesù, magro coi capelli lunghi, la barba. La cosa bella fu che mio fratello decise di sponsorizzare Graziano: gli dava 50.000 lire a gara e chiese a me di ritagliare delle scritte nella pelle col nome dello 'Scorpio Club'. Le feci, conobbi Graziano che per me era un mito e andammo da una signora che le cucì sulla sua tuta che era completamente bianca, ricordo che correva con la Bimota. Da lì nacque un'amicizia, una condivisione di passioni, ci siamo allenati in moto per una vita con le volate sulla Panoramica dove incontravamo i nostri competitor che venivano da Pesaro. Il Grazia stava con noi della Romagna, con me e Guido Cecchini. Ci spingeva a iscriverci a qualsiasi campionato, perché secondo lui eravamo veloci, ma non c’erano i soldi a quei tempi. Questa è la storia e da lì è nato tutto: Graziano Rossi mi ha portato nel paddock e ho conosciuto Lucchinelli, Rolando poi i miei coetanei come Reggiani, Casoli, Gianola, Brigaglia, Casanova, Cadalora, ma sicuramente ne dimentico qualcuno. Poi c’è stato un salto internazionale quando, dopo Capirossi, Biaggi conobbi Kevin Schwantz".
Come hai conosciuto Kevin?
"Prima del mondiale andavamo in tanti italiani a fare una vacanza a Livigno, c'era anche il Dottor Costa, facevamo una settimana di gare con le motoslitte e gli sci. Nello stesso periodo un anno c'era Kevin in Austria. Reggiani lo chiamò, lui venne e ci conobbe. Si trovò bene e io ebbi così la grande opportunità di fare per lui, che era un pilota famosissimo, il casco che è diventato il più venduto al mondo insieme a quello di Doohan. Quello rosso, con la bandiera a scacchi e quella stella gialla dietro. Quel giallo, dopo che Kevin decise di smettere a causa di tutti gli infortuni e che a me piaceva da matti perché mi ero innamorato delle Yamaha giallo-nere di Kenny Roberts, passò da Schwantz a Valentino che stava iniziando. Tra l'altro Vale correva nelle minimoto con la tartaruga Ninja incollata su un casco Schwantz replica. Ecco come sono stato coinvolto nel mondo dei piloti. Ci sarebbe anche dell'altro, ma in sostanza è così. E c'è anche la storia del giallo che poi è diventato il colore di Valentino e delle tribune dei fan di Vale".
Facciamo un salto: sei finalista del Compasso d'Oro, dipingi i colori della Motor Valley e di Misano, disegni caschi, ma anche moto, barche, bici…
"Sì ma io sono sempre quello là, quello che colora la velocità, quello che si muove velocemente. Abbiamo fatto aerei per la sperimentale, barche disegnate letteralmente. Sono stato iscritto 3 volte al Compasso d'Oro: una volta l’ho vinto con la tuta thiese di Dainese, la seconda volta con la barca siamo andati in finale senza vincerla, ora siamo in finale con il circuito di Misano. Dico 'siamo' sia perché lavoriamo in squadra e anche perché il Compasso d'Oro è una competizione dove si gareggia in due, insieme all'azienda che produce quello che si è disegnato. Su Misano, che ha già vinto premi per la sostenibilità e con Dorna, abbiamo l'idea di farlo diventare un grande oggetto di design. Ho un sacco di idee e un po' alla volta ogni anno miglioriamo un po' l'aspetto con qualche idea spero virtuosa".
Nel mondo della moto hai anche avuto un sacco di amici...
"Sì. I migliori lavori li ho fatti tutti impostandoli dal punto di vista personale, cioè imbastendo con questi ragazzi un rapporto di amicizia. Adesso fare questa cosa è più difficile perché potrebbero essere i miei nipoti e fai fatica a ragionare con dei ragazzini di vent'anni che non ti guardano neanche in faccia. Per fortuna mi muovo in un posto, la Motor Valley, che è la culla anche per i piloti e chi arriva qui difficilmente se ne va. Abbiamo rotto qualche rapporto, per esempio con Quartararo, ma io li capisco perché vivono in un mondo diverso: per noi un'amicizia era un'amicizia, se poi ci aggiungevi le corse… Mick Doohan mi è venuto a trovare quando è stato in Italia, Kevin è sempre qui e quando è morta mia mamma era dispiaciutissimo, Valentino è un caro amico, suo fratello Luca pure, Morbidelli, Migno vengono qui a passare delle ore, il Sic veniva sempre qui. A proposito di Marco Simoncelli ti racconto una cosa che è un highlight della mia vita. Ci eravamo spostati dal secondo piano al sesto, ci eravamo ingranditi un po'. Un giorno sento suonare il campanello, non quello del portone di sotto, ma quello di ingresso: vado ad aprire e mi trovo davanti Marco con il casco jet in testa, tutti i capelli che gli uscivano, sudato, maglietta, bermuda con mezzo sedere di fuori. Gli ho chiesto cosa ci facesse da noi a quell'ora e lui mi ha risposto che doveva andare in bagno e poteva scegliere se andare dalla nonna o venire da me. Gli sembrava brutto andare dalla nonna soltanto per quello visto che era un po' che non ci passava. Così aveva deciso di venire da me: fatto e andato via salutando. Poi al pomeriggio è tornato facendo il suo solito casino disseminando le sue cose in giro: le chiavi, il casco. Si sedeva di fianco a noi che lavoravamo e criticava: 'Non così è brutto, fa ca**re…'".
Con la famiglia Rossi è stato un rapporto speciale...
"Valentino è praticamente cresciuto da me. Veniva con Graziano e quando ci mettevamo a parlare, lui andava di sopra dove avevo una collezione di modellini di auto e ci giocava. Forse me ne ha anche fregato qualcuno. Però nel 1996, quando fece la sua prima gara in Giappone a Suzuka, ricordo che mi portò un modellino di una Nissan che allora era la mia macchina. È un regalino che ho ancora oggi davanti a me sulla mia scrivania. Per me lui non è Valentino Rossi 9 volte campione del mondo, per me è Vale e basta. Uno che ritengo essere una delle persone più intelligenti che abbia mai visto, con un approccio alla popolarità e alla vita che è anche il risultato di un'infanzia difficile. Cosa diversa era per il Sic, che aveva avuto una storia completamente diversa. Ognuno di loro ha una maturazione che ha a che fare con quello che hanno vissuto, da dove arrivano, dalla famiglia. C'è quello più pescecane perché ha avuto una vita dura, quello che è più morbido perché un abbraccio comunque a casa alla sera gliel'hanno sempre dato. È bello che quando vengono qui interagisci alla pari, sono loro che ascoltano me. Però io e i ragazzi del mio ufficio abbiamo un rispetto infinito per questa gente. Se viene qui il ragazzino che fa per la prima volta il campionato italiano, accompagnato dalla mamma, gli facciamo il lavoro con impegno e originalità come per i campioni. Perché il casco è il viso del pilota per il tempo della gara. Una volta si riconoscevano i piloti dal casco, spesso senza neanche sapere che faccia avesse. Dovevi leggere Moto-Sprint per avere la fortuna di vedere una foto senza casco. C'era un finlandese con un casco arancione che veniva a provare a Misano la sua Suzuki 500, mi ricordo che impennava e noi lo riconoscevamo arrampicati sul muro per non pagare, ma non ho mai saputo come fosse dietro la visiera".
Una volta il casco era davvero il modo più facile e diffuco per riconoscere un pilota. Basti pensare a Senna, Piquet, Patrese, Hill… oppure Hailwood, Agostini, Read, Nieto, Ferrari, Roberts, Sheene. Ora invece il "marchio" è diventato il numero, tranne pochissime eccezioni per il campione del mondo della MotoGP come Bagnaia. Come la vedi questa cosa da ideatore di caschi?
"Ci sono due momenti critici nella storia dei disegni dei caschi. Uno è anche colpa mia perché sono arrivato dopo un'epoca dove secondo me c'erano i caschi più belli del mondo come quello di Read che io amo particolarmente, o di Sheene. Io ci ho messo un po' di complessità in più, dietro di me sono arrivati altri ragazzi che hanno preso la strada dei caschi incasinatissimi, ma commercialmente apprezzati. Esempio quello di Biaggi: dapprima semplice coi due leoni e alla fine complicato. Poi però questa moda è finita e mi prendo un po' di merito, siamo tornati a caschi più semplici come quello di Simoncelli: in sostanza due righe rosse sul bianco. Uno dei lavori più belli che abbia mai fatto. Ho fatto fatica a farglielo cambiare perché quando è venuto da me ne aveva uno bello incasinato, poi però si è innamorato di quello che ha usato fino alla fine. Valentino ha iniziato con caschi lavorati, ma poco alla volta maturando è stata un'escalation a semplificare, a parte i messaggi che ogni tanto voleva mandare. Infatti siamo arrivati ad un casco blu con un sole e una luna gialli, molto stilizzati. Il secondo momento di crisi è stato l'avvento dei grandi sponsor che hanno occupato la maggior parte della superficie. A noi resta, forse, il 30% dello spazio graficabile, ma devi girare intorno a questi sponsor e andare d'accordo con i colori. Questa cosa fino a qualche anno fa non accadeva nonostante i grandi tabaccai. Infatti mi diverto molto meno a lavorare coi piloti e ne faccio anche molti meno. Mi limito a quelli che hanno proprio piacere a venire qui, che sono quelli coi quali ho un rapporto. Così mi concentro di più a disegnare i caschi di produzione. Ho un rapporto lungo da anni con Arai Giappone e collaboro molto con loro. Ho avuto l'onore di conoscere il signor Arai così come Lino Dainese, uomini che hanno dato il nome alle proprie aziende, non dei fondi d'investimento. Io ho avuto la fortuna di lavorare con questa gente qui, Morbidelli, Amisano… Lino Dainese lo dovrò ringraziare per tutta la vita. Gente che mi ha letteralmente preso sotto la loro ala in un momento in cui io ero un vulcano, disegnavo un sacco di cose, rappresentavo la novità in un mondo che era un po' statico. Ci ho buttato un sacco di colori".
Raccontami un aneddoto
"Disegnai per Dainese la prima hospitality, un camion gigantesco dove si riparavano le tute dei piloti caduti. Schwantz era appena arrivato in Dainese coinvolto da me. Ricordo che una volta a Jerez, mentre andavamo alla pista la domenica mattina in motorino, dietro di me c'era Lino. Moltissimi spettatori motociclisti avevano giubbotti Dainese, lui scendeva dalla moto e li abbracciava, gli dava delle pacche sulle spalle gridando 'Dainese, bravi!'. La sua genialità mi ha fatto capire che oltre al design e ai colori era importantissima la sicurezza. Insieme abbiamo fatto la tuta che ha vinto il Compasso d'Oro, abbiamo sviluppato il paraschiena, i guanti che sono ancora i migliori con quei paranocche in carbonio e lui aveva inventato le ginocchiere staccabili appiccicate con il velcro, mentre prima si usava lo scotch con plastica o metallo. In quegli anni io ho scoperto posizioni nuove per mettere i marchi sulle tute. Per esempio il marchio sul ginocchio l'ho inventato io guardando le foto. Mi caricava sulla canna della sua bicicletta, allora ero un ragazzetto, e mi portava a fare il giro dell'azienda e mi diceva le idee che aveva per la testa. Un vulcano".
Beh anche tu però continui a eruttare idee direi
"Stai bono, sì direi che mi vengono ancora delle idee che alla gente piacciono. Colorare tutto il circuito di Misano è stata una bella sfida. E ancora non è finita, pensa che ora vorrei piantare dei fiori non negli spazi di fuga, ma in quelli limitrofi, per vedere il circuito tutto piantumato e colorato. Dobbiamo soltanto risolvere un problema: i fiori attirano le api che non vanno proprio d'accordo con le moto. Ma ci sono specie che non le attirano e magari ce la facciamo!".
Qual è, o quali sono i caschi che ami di più tra i tuoi?
"Quello di Marco Simoncelli era così semplice da essere meraviglioso, però credo che il suo ricordo struggente me lo faccia mettere il pole. Alcuni dei caschi di Vale sono stati bellissimi, poi quello di Schwantz con quel flash giallo dietro. Credo che molto spesso i giudizi siano dovuti anche al tipo di rapporto, al momento. Sai, quando lo vengono a prendere c’è tutto un rituale: andiamo a mangiare, quando lo vedono se gli si illuminano gli occhi vuol dire che ci hai preso, che quando lo indosseranno farà il suo dovere di rappresentarli mentre corrono. Anche lì c'è una storia antica che racconta come gli uomini quando erano di fronte al pericolo cantavano, ballavano e si coloravano. Le divise o le pitture sul corpo erano fatte per impressionare e spaventare l'avversario, c'è una lunga storia sull'uso dei colori tra i cacciatori o gli eserciti. Io ho avuto l'onore di vivere il momento della vestizione di Valentino prima della gara in Malesia quando vinse il mondiale. Sembrava un rituale magico: si è lavato tutto dalla testa ai piedi, si è vestito con una perizia… Io non amo la corrida, ma si parla della vestizione del torero, di quando gli indiani immergevano le mani nei colori. Un rituale coi suoi tempi e i suoi gesti, precisi".
Il casco più difficile?
"Presi un cicchetto proprio da Valentino. Erano gli anni della 500, ma lui era ancora molto giovane e io mi rapportavo a lui ancora come fosse un ragazzino. Era quarto nel mondiale e mi chiese un casco di 'legno', come la medaglia di legno. Io gli dissi che un casco di legno sarebbe stato marrone, ma lui insistette lasciandomi via libera. Io allora lo feci un po' stile cartoon, al posto del marrone misi l'arancio per dargli un po' forza. Così andai a casa della Stefania con la bozza che era il casco quasi finito perché mancavano pochi giorni alla gara del Mugello. Vale lo vide e mi disse che non gli piaceva e che non lo avrebbe messo. Me lo disse così e allora ho capito due cose: uno che, come si dice da noi, 'aveva smazzato', cioè era diventato un uomo, e due che bisogna rispettare i piloti perché il casco non è del disegnatore, ma del pilota e che quindi bisogna ascoltare di più senza la supponenza di imporsi. È successo quella volta, ma ancora oggi lavoriamo insieme con entusiasmo, ancora con quella 'carogna' lì addosso. In generale coi ragazzini di adesso non c'è confronto. Qualcuno è ancora bello tosto, interessato, curioso. Ma la maggior parte no".
Potremmo andare avanti ancora molto, ma la finiamo qui. Ciao Aldo, buon disegno…