Jorge Martin adesso va trattato da figlio e non da pilota

Jorge Martin è tutto rotto, come se la vita gli chiedesse restituzione e sacrifici in cambio del titolo vinto lo scorso anno. Undici fratture costali e uno pneumotorace da trattare con drenaggio dall’incidente nella gara del Qatar, si sommano ora con spietato realismo alla frattura complessa del radio, dello scafoide e del calcagno di un mese e mezzo fa, che a loro volta si aggiungevano alla frattura del quinto metacarpo della mano destra e fratture del terzo, del quarto e del quinto metatarso del piede sinistro di due mesi e mezzo fa. Capito? Chiaro? In pratica, lasciata da campione del mondo la Ducati per l’Aprilia, tre volte è passato per la sala operatoria, per la terza volta sta passando attraverso il dolore e la tortura del recupero. E il processo è ancora in corso, anzi, è nel pieno del disagio. Qualunque essere umano normale al suo posto sarebbe ancora fermo alle prese con la convalescenza del primo infortunio cercando di ricostruire completamente ossa e motivazione. Noi invece siamo stati qui in tanti a chiederci quando rientrerà, in quale gara, come se ci fosse un automatismo, solo meccanico, che lega la lesione alla guarigione senza nessun’altra implicazione. Dando per scontato che intenda rientrare il prima possibile. E’ caduto? E’ cosciente? Si è fatto male? Sono solo ossa? Bene, rientrerà. E quando rientrerà? Diciamo così a noi stessi, dal divano di casa. Dai su, è vero, facciamo così. Lo facciamo sempre, com tutti i piloti. In questo caso ci manca il campione del mondo, ci mancano gli esiti sportivi completi del binomio Martin-Aprilia. Siamo perversamente allenati anche noi all’idea di quel processo che basa tutto sulla passione e sulla medicina del trauma motociclistico che accorcia i protocolli, da non farci domande su quello che Martin possa avere dentro di sé, adesso, alla terza micidiale botta e anche prima. E invece, al di là di una forza di volontà prodigiosa già dimostrata e di un fisico tostissimo nel recupero già messo alla prova anche in passato, stavolta faremmo bene a pensare a lui come se fosse nostro figlio. Un figlio che è stato appena dimesso dall'ospedale in Qatar, un figlio che corre in moto, a cui la moto per tre volte ha deciso di dire di no. Ha bisogno di carezze; ha bisogno di carezze adesso, ha bisogno di essere lasciato libero di gestire la delusione e l’eventuale smania, di seguire i tempi più ragionevoli del mondo in cui la voglia di tornare va ricostruita di pari passo con le ossa. Oppure è più lenta, o magari invece è più veloce. O magari non c’è e non ci sarà nessuna voglia. La Aprilia ha fatto e sta facendo esattamente questo: gli sta vicino senza stabilire priorità né sportive né di business. Il peso del loro investimento era già passato in secondo piano quando avevano aiutato Jorge a capire che un rientro affrettato ad Austin sarebbe stato imprudente per tutti. L’uomo ha bisogno di passi indietro in quello che gli altri si aspettano da lui e in quello che lui si aspetta da sé stesso. Un nuovo approccio alla MotoGP può contenere cicatrici, insicurezze e umanissima paura. Tutto sommato è andato davvero vicino a quella che poteva essere una tragedia fatta e finita. Una motata nella parte alta della schiena che spezza male la cassa toracica in prossimità della colonna fa della differenza tra il guarire, il restare paralizzato o anche il morire una questione di centimetri. Jorge certamente lo sa e anche per questo va aiutato, non necessariamente a rientrare quanto prima, ma a stare bene; prima da essere umano normale e poi da pilota. Come la sua famiglia e come l’Aprilia dobbiamo farlo tutti. Mentre Martin dall’ospedale produce immagini del proprio corpo trapassato da cannule e tubicini o magari mentre gioca a backgammon con Maria , oppure mentre compie i primi passi in un corridoio di ospedale ancora troppo lungo per un ferito serio come lui, da questa parte del mondo si pongono domande. E’ stato fatto rientrare troppo presto? Avrebbe avuto senso concedergli il permesso di sostenere un giorno di test come da richiesta di Aprilia nell’interesse di tutti e poi negata in assenza di maggioranza assoluta? Non sono necessariamente quelli i temi adesso. Se avesse fatto una giornata di test avrebbe accorciato i tempi di conoscenza della nuova moto, ma difficilmente avrebbe rinunciato a correre; a quel punto il destino e la dinamica dell’incidente in cui si è fatto male forse non sarebbero stati tanto diversi. Chissà. Rimane che quella richiesta era del tutto sensata, a maggior ragione ora che Jorge si è fatto male, Quanto ai tempi del suo rientro, erano già stati dilatati rispetto ai desideri del pilota e un’equipe medica, che sta lì proprio per quello, si era era già assunta la responsabilità di dirgli che poteva rientrare. E’ su quella che ci dobbiamo basare, perché quella è l’ultima parola. Lo è sempre stata, anche quando il guru della medicina da corsa era il dottor Costa, che era fenomenale nella capacità di ricostruire gli stimoli dell’anima, aveva una conoscenza enciclopedica dei traumi e della loro soluzione e sommando tra loro le due cose rimetteva i piloti in sella in tempi record. Ma non agiva mai a cuor leggero. Nel dopo-Costa la medicina da corsa è diventata decisamente più prudenziale, perché potenza dei motori, velocità e sollecitazioni fisiche sono aumentate esponenzialmente. La macchia di aver assecondato un Marquez scalpitante, ma ancora troppo malconcio per rientrare con l’omero fracassato, aveva rimodellato ulteriormente i criteri dalla parte del sicuro. Il pilota magari vuole rientrare, ma se la medicina dice no è no. Non possiamo rinnegare l’amore e l’ammirazione che avevamo per il modo di fare di Costa e per quel modo di essere guerrieri dei suoi piloti; quella è stata un’era motociclistica indimenticabile, piena di fascino e significato. Ma nemmeno possiamo rinnegare il cambio di rotta a tutela dei piloti che ne è seguito. Non è insomma il momento delle recriminazioni. Martin al momento della caduta era stanco o poco lucido? E’ possibile. Ma lo sarebbe stato anche se avesse avuto mal di testa o una gastroenterite la notte precedente. Correva nelle retrovie senza chiedere l’impossibile a sé stesso, come è accaduto altre mille volte ad altri mille piloti. Per allenarsi alla MotoGP c’è solo la possibilità di fare chilometri con la MotoGP. Del resto se l’incolpevole Digiannantonio non gli fosse stato in scia e non lo avesse urtato, saremmo qui a parlare di una scivolata come altre. Possiamo discutere sul fatto che il cordolo “Misano” sia un dissuasore troppo accentuato in altezza per chi va fuori, ma non sarà mai dissuasivo quanto l’erba a fine cordolo ormai in via di estinzione. Rimaniamo dell’idea che sarebbe ancora l’unica maniera per indurre i piloti ad affrontare le curve più piano senza la consapevolezza di disporre di una via di fuga in asfalto nel caso in cui qualcosa andasse storto. Il problema che la MotoGP e la Formula 1 condividono le piste del mondo ed è stata individuata nell’asfalto la via di mezzo che garantisca entrambi gli sport. Tornando a Martin, il recupero sarà lungo. Si tratterà di consolidare un’altra volta delle fratture ossee e di rieducare l’azione respiratoria. Si tratterà di concedere del tempo al corpo prima di poter tornare in palestra, prima di tornare a ridere e a tossire senza temere la pugnalata dolorosa. Ma soprattutto potrebbe trattarsi di dover fare i conti con la propria anima. Che un infortunio è un accidente sfigato, il secondo è una riflessione, ma il terzo potrebbe pure generare un dubbio esistenziale. Martin farà i propri conti quando tornerà a vivere una vita normale. Si metterà in ascolto dei propri desideri e dei propri impulsi, che facilmente lo porteranno a tornare a correre che è la cosa che ama di più; ma non è adesso il momento di darlo per scontato. Ora è il momento di trattarlo da figlio. E’ la cosa più bella e più giusta che lo sport, che gli deve tantissimo, possa fare per lui.

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Jorge Martin adesso va trattato da figlio e non da pilota

Guido Meda