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NBA, 31 anni&1 intervista: auguri Marco Belinelli

NBA

Stefano Salerno

Per il suo 31° compleanno, abbiamo contattato Marco Belinelli, alle prese con una difficile rincorsa ai playoff con i suoi Hornets. Abbiamo parlato di Michael Jordan, ovviamente, ma anche di cibo, infortuni e della sua più grande passione: la pallacanestro

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Dieci anni di NBA, sette squadre diverse, più di 600 partite giocate. Marco Belinelli è un esempio vincente per il nostro basket, un giocatore che a 31 anni non smette mai di ripetere la frase “per chi ama questo sport come lo amo io”. Adesso l'obiettivo, nonostante la condanna aritmetica sembri sempre più vicina, sono i playoff. Un traguardo che sembrava facilmente alla portata dopo due mesi di regular season, sfuggito per strada nel corso della stagione a causa di un'interminabile serie di sconfitte che hanno fatto scivolare gli Hornets all'undicesimo posto a Est.

Partiamo da una curiosità: come festeggia il compleanno un giocatore NBA? Porta la torta in spogliatoio? Spegne le candeline sull’aereo?

“Quest'anno giochiamo prima contro Cleveland venerdì sera [la gara andata in scena stanotte, ndr] e poi ancora domenica all’una [in casa contro Phoenix, ndr], quindi tempo per festeggiare o stare fuori fino a tardi non ce n’è. Domenica mattina la sveglia sarà al massimo alle 8, se non prima, per cui resta un giorno normalissimo. Faccio 31 anni.. come li festeggerò? Qui a Charlotte c'è mio fratello e sono arrivati alcuni miei amici, quindi andrò a cena con loro, ma niente di esuberante. Davvero un giorno come un altro, anche perché il mondo NBA non ti permette di fare chissà cosa. Riceverò sicuramente parecchie chiamate, passerò la giornata al telefono, in FaceTime con la mia famiglia e la mia ragazza, ma niente di particolare”.

A proposito di tuo fratello: lo abbiamo visto postare una foto di un branzino, cucinato appositamente per te. Me esiste ancora il giocatore NBA che mangia di tutto a tutte le ore?

“Direi di no, abbiamo un’alimentazione da seguire e siamo controllati: ogni settimana vengono fatte le verifiche del peso e anche la misurazione della massa grassa, quindi si cerca di stare molto attenti sul cibo. Posso dire che in passato mi è capitato spesso di vedere compagni di squadra che mangiavano cibi fritti o hamburger prima della partita. Adesso invece — complici anche queste nuove idee di un’alimentazione giusta — si vedono molto meno scene del genere. In palestra ma anche prima e soprattutto dopo la partita abbiamo uno chef che ci prepara da mangiare, solitamente un buffet con carne, pollo, verdure, riso, frutta... Siamo seguiti davvero bene sotto questo aspetto, poi certo, sabato che è il mio compleanno, non mi lascerò sfuggire l'occasione per un cupcake o una torta…”.

Una volta c’era più libertà e oggi più controllo?

“Sì, sicuramente. Non voglio usare la parola sbagliata, ma diciamo che è diventata anche una questione un po' di moda. Negli ultimi 5-6 anni l'argomento alimentazione è molto sentito, a livello generale, non solo in ambito sportivo: si cerca sempre più di seguire una dieta corretta. Durante i miei primi anni di NBA non c'era tutta questa attenzione, così come non c’erano neppure tutti questi chef in tv: oggi il cibo è un argomento molto popolare in generale, non solo nella lega”.

Veniamo a Charlotte: l’approdo agli Hornets per te è stata la possibilità per rilanciare la tua carriera.

“Assolutamente sì, nel senso che quello a Sacramento è stato un anno pesante sotto tanti punti di vista mentre oggi sono contentissimo di questa squadra. Stiamo lottando ancora per provare a qualificarci per i playoff, dopo un periodo molto difficile a cavallo tra gennaio e febbraio durante il quale abbiamo perso troppe partite. Ora però mi sembra giusto crederci fino alla fine, perché no? Non abbiamo nulla da perdere, siamo una buona squadra, giovane, con voglia di vincere. Dobbiamo ancora giocare parecchie partite toste, però mi sembra giusto cercare di provarci e lottare per agguantare la postseason, perché non farcela per molti aspetti sarebbe una delusione”.

La tua gara recente contro gli Orlando Magic [20 punti, 16 nel solo secondo quarto, ndr] è una prova che tu non hai mollato.

“Contro i Magic sono andate bene le cose, ma noi cerchiamo sempre di dare tutto quello che abbiamo e di entrare in campo aggressivi, provando a essere importanti per la squadra, facendo la cosa giusta. Aspetti fondamentali soprattutto nella nostra situazione, perché in questa decina di partite che ci mancano non abbiamo più tante possibilità di sbagliare. Dobbiamo scendere in campo prima di tutto con la mentalità giusta, pensando solo a vincere più gare possibile. Soltanto alla fine tireremo le somme per vedere se siamo meritatamente da playoff oppure no”.

Il periodo peggiore dell’anno è coinciso anche col tuo rientro dall'infortunio alla caviglia. Quanto fastidio lascia un infortunio del genere?

“A causa di quel problema alla caviglia io ho perso una decina di giorni e saltato cinque o sei gare. Se ami questo sport come lo amo io, quando sei fuori la tua voglia di giocare aumenta ogni giorno ed è per questo che sono tornato in campo appena possibile, cercando di riprendere subito quel ritmo partita perso dopo una decina di giorni fermo. Un problema alla caviglia, infatti, non ti consente di correre o di fare esercizi di cardio per mantenere il livello di condizione adatto. In quel periodo poi a pesare ci sono stati anche altri infortuni importanti, su tutti quello di Cody Zeller. Lui per noi è un giocatore fondamentale, la cui assenza si è sentita davvero tanto. Allo stesso tempo gli infortuni fanno parte del gioco e della carriera di qualsiasi sportivo, per cui alla fine provi lo stesso a dare il massimo, a prescindere da ogni tipo di problema”.

A Charlotte hai trovato la realtà che ti aspettavi?

“Sì, sono contento del ruolo che mi è stato affidato. Sono il sesto/settimo uomo in rotazione e cerco di essere un giocatore importante nei minuti che ho a disposizione. Vero è che non siamo la squadra dell'anno scorso, quando dalla panchina uscivano Al Jefferson, Jeremy Lin e Courtney Lee. I cambi in estate sono stati tanti — proprio quelli mi hanno portato qua — ma lo ripeto ancora una volta. io qui mi trovo bene. L'unica cosa a cui penso è tornare ai playoff, il mio unico obiettivo da quando sono arrivato a Charlotte: fino alla fine ci proverò e ci proveremo”.

Dalla tua stagione emerge un dato particolare: in casa tiri da tre con il 29% scarso, in trasferta con oltre il 43%: come te lo spieghi?

“Difficile avere delle risposte precise, anche perché in campo non stai troppo a pensare alle percentuali o a questo tipo di dati, ma cerchi soltanto di essere aggressivo. Credo dipenda molto dalla qualità delle conclusioni che prendo, se sono ad esempio in uscita dai blocchi o piedi per terra. Sicuramente ho avuto un grande inizio di stagione nel tiro dall'arco, poi sono un po' calato, forse anche per via dell’infortunio, del periodo no della squadra e di tutto il resto. Quello degli Hornets però resta un sistema di gioco in cui mi trovo bene: qui ho un ruolo molto ampio: gioco spesso il pick&roll, creo qualcosa per i compagni in uscita dai blocchi o per il mio palleggio-arresto-e-tiro. Mi piace, perché non penso di essere semplicemente un tiratore ma un giocatore completo — anche se ancora con tante cose da imparare”. 

Sempre meno “role player”, quindi…

“Forse in altre circostanze e in altri contesti lo sono stato, magari a San Antonio e a Chicago — però in realtà neanche lì più di tanto. Succedeva semplicemente che l'allenatore mi chiedesse di fare determinate cose, mentre qui sono più libero di fare tutto ciò che posso per rendere difficile la vita alle difese avversarie”.

Lo conferma anche il tuo Net Rating [+5.2 in casa, -5.4 in trasferta, ndr]: quando giochi a Charlotte tiri peggio ma in realtà giochi meglio. Le prestazioni di Marco Belinelli quindi non dipendono più soltanto dal tiro da tre punti?

“È proprio quello su cui ho cercato di lavorare in questi dieci anni — e poi farlo capire a tutti. Io non mi sono mai considerato un role player, un giocatore che fa bene solo un singolo aspetto del gico. Ho cercato sempre di ampliare il mio bagaglio tecnico, di essere sempre più completo e in questa squadra sento di avere proprio questa opportunità. Abbiamo un allenatore bravo e un’ottima organizzazione”.

E anche un presidente importante, uno su cui nessuno ti hai mai fatto domande da ottobre a oggi...

“[Ride] È normale che mi si chieda di Michael Jordan: per me è ovviamente un piacere e un onore far parte della sua squadra…”.

L'idea è: tu segni 20 punti — 16 in meno di cinque minuti — e quando finisce la partita, entri in spogliatoio e ti ritrovi un sms di complimenti dal numero di MJ…

“No, quello non succede, però Michael si fa vedere spesso in spogliatoio. Alla sua squadra e ai suoi giocatori tiene molto, dà sempre tanti consigli; già soltanto la possibilità di poter parlare e confrontarsi con lui è un'occasione notevole”. 

Solo rispetto o anche un po’ di timore?

“Sono sincero, è stato difficile solo il primo giorno. Appena arrivato, ti ritrovi a parlare con Michael Jordan: è inevitabile che rimani un po' a bocca aperta. Poi ovviamente lo vedi più spesso, lo incroci in spogliatoio, si ferma a fare due chiacchiere, ti saluta, ti batte il cinque, ti dà una pacca sulle spalle. Con questo non dico che ci fai l'abitudine, però: per me resta qualcosa di pazzesco anche soltanto poterlo raccontare”.

Dieci anni di NBA, quasi 650 partite, un anello, la vittoria nella gara del tiro da tre punti. Cos'è che non ti rende ancora sazio?

“La fortuna di amare questo sport e di avere una passione enorme per la pallacanestro. Ma anche la voglia di continuare a mettermi in gioco, di voler combattere e vincere ogni volta che scendo in campo, di voler arrivare ai playoff e crescere come giocatore. Finché c’è questa voglia non vedo nessuna ragione per fermarmi. Certo, serve anche star bene fisicamente. Come dico sempre quando parlo con mia mamma al telefono: ‘L'importante è la salute’ [ride]”.

Voglia anche di Europei e di nazionale?

“Ovviamente sì”.