Gli ultimi due ko interni contro Pelicans e Lakers – arrivati sprecando vantaggi di 15 o più punti – mettono in evidenza il momento di difficoltà della squadra di coach Popovich. Che scivola pesantemente in classifica e tra infortuni e un calendario complicato ha davanti un finale di stagione davvero duro
Che i San Antonio Spurs perdessero quattro partite casalinghe in fila non accadeva dal 2002. Che delle ultime dieci disputate, otto fossero dei ko è un’altra rarità che ha dell’incredibile all’ombra dell’Alamo. Così come un rodeo trip perdente, evenienza occorsa invece quest’anno (2-4 il bilancio delle sei trasferte tra il 7 e il 25 febbraio, mai peggio di 4-5 invece il record nelle altre quindici occasioni precedenti). Le ultime due partite poi, contro Pelicans e Lakers, la truppa di Gregg Popovich le ha regalate dopo averle entrambe dominate per 46 dei 48 minuti, ma finendo beffata nei 120 secondi finali dopo essere stata sopra di almeno 15 punti nel secondo tempo sia contro New Orleans che contro Los Angeles (negli ultimi dieci anni, un vantaggio del genere aveva portato a un record di 211-0, contro lo 0-2 degli ultimi giorni). Sarebbe facile concludere l’analisi introducendo nella discussione la parola spesso usata – e abusata – in questi casi: è crisi a San Antonio? “Dicono che quando inizia a piovere, poi spesso grandina – le parole di Pau Gasol dopo l’ultimo ko casalingo contro i Lakers – e ora sta grandinando, e pure tanto”. Le scuse in casa Spurs non mancano ma coach Popovich non è tipo da appellarsi a facili giustificazioni: certo, l’affaire Kawhi Leonard, in campo solo 9 partite tutto l’anno, e i dubbi sul suo futuro prossimo (torna o no?); un totale di 148 partite saltate da parte dei suoi giocatori per via di infortuni vari (gli Spurs sono 2-4 nelle sei senza LaMarcus Aldridge in campo, ad esempio) che hanno costretto Popovich a mettere in campo alla palla a due 21 quintetti diversi; l’età di alcuni giocatori; un calendario non certo facile (e che non è destinato a migliorare da qui a fine campionato). Ma gli Spurs sono gli Spurs perché negli ultimi venti anni hanno abituato tutti a vincere sempre e comunque, in qualsiasi condizione, una costanza di rendimento che li ha resi la franchigia di maggior successo nell’intero universo dello sport professionistico americano che nessuno è abituato a veder perdere.
Difesa e calendario preoccupano
Dall’inizio di febbraio, invece, a San Antonio sono arrivate con una regolarità mai vista nel recente passato sconfitte su sconfitte, e una prima spiegazione vede il crollo di quello che da sempre è il fondamento della pallacanestro dei nero-argento: la propria solidità difensiva. Secondi dietro soltanto ai Boston Celtics per efficienza difensiva fino a fine gennaio (101.1 punti subiti per 100 possessi), nelle ultime dieci gare il dato è precipitato a 109.1 (8 punti in più concessi agli avversari ogni 100 possessi), facendo degli Spurs la 17^ difesa NBA. Un dato che ovviamente si riflette nel net rating della squadra, che da positivo (+3.7, sesto in tutta la lega) si è trasformato in negativo (-0.4 da febbraio a oggi). Un calo che è coinciso con un pericoloso scivolone nei ranghi di una Western Conference mai come quest’anno competitiva ed equilibrata: ancora terzi a Ovest (dietro a Houston e Golden State) a fine gennaio, oggi gli Spurs sono sesti con gli Oklahoma City incollati alla loro calcagna e i Denver Nuggets, oggi ottavi, a un solo game behind di distanza (1 vittoria in meno, una sconfitta in più). Quei Denver Nuggets che hanno sconfitto San Antonio due volte nel giro di dieci giorni – all’ultima partita prima della pausa per l’All-Star Weekend e alla prima dopo il rientro – in un calendario che da qui a fine stagione (tolta la prossima gara casalinga contro i Grizzlies) vede gli uomini di Gregg Popovich chiamati a scendere in campo altre 15 volte contro squadre dal record vincente e solo 3 contro avversarie dal bilancio perdente (Magic, Lakers, Kings).
Motivi di speranza (e l'opinione di Obama...)
In mezzo a dati sicuramente allarmanti, a San Antonio rimane comunque più di un motivo per continuare a sperare che anche la stagione 2017-18 – come le precedenti venti – finisca con un record superiore al 60% (attualmente il bilancio vittorie-sconfitte è appena sopra il 57%) o con almeno 50 vittorie all’attivo (nel calcolo non rientra ovviamente l’annata 1998-99 dimezzata dal lockout), impresa che significherebbe vincere 14 delle rimanenti 19 gare stagionali. Uno di questi motivi è la solidità di un sistema che ha dato prova nell’ultimo ventennio di un valore assoluto che non può scomparire da un giorno all’altro. Anche il record casalingo degli Spurs (22-8, tra i migliori di tutta la lega) è incoraggiante, contando che dei 19 prossimi impegni 11 saranno all’AT&T Center. Per ultimo, anche se conta davvero molto meno, a risollevare il morale dei tifosi nero-argenti sono arrivate anche le recenti parole di un tifoso NBA d’eccezione, il 44° presidente USA: richiestogli con quale squadra firmerebbe si ritrovasse nella condizione di essere un free agent NBA nell’estate 2018, Barack Obama ha detto che “si concentrerebbe su quelle organizzazioni che magari possono anche non vincere ogni anno ma che restano sempre concentrate sul concetto di squadra e che trattano ogni componente della propria organizzazione con il massimo rispetto. San Antonio è un grande esempio. Il modo in cui sono stati costruiti in questi anni denota grande intelligenza e una cultura vincente che funziona in maniera perfetta”. Almeno fino all’inizio di febbraio, ma in Texas sperano che come l’ex presidente la pensi anche qualche superstar NBA tra i free agent estivi.