Il suo reclutamento in quest'ultima free agency conferma una cosa ormai assodata: Kawhi Leonard è il giocatore più "unico" di tutta la lega, per il modo in cui gestisce la sua carriera, la sua immagine e il suo brand. Esattamente in modo opposto a come fanno tutti gli altri. Controcorrente, sempre
C’è la NBA del terzo millennio, e poi c’è Kawhi Leonard. Che ne è al tempo stesso la sua massima espressione (in campo) e la sua ostinata negazione (fuori). L’ennesima prova, ce ne fosse bisogno, è arrivata durante questa free agency. Tutti firmano nelle prime 12/18 ore; Leonard sparisce dal radar. Tutti corrono con affanno al mercato con i risparmi di un’intera stagione per non perdere il miglior affare; lui resta fermo, immobile – e così facendo blocca i piani di almeno tre franchigie, i suoi Raptors, i Lakers e i Clippers. Una alla fine festeggerà, ma le altre due si ritroveranno in gravi difficoltà, le alternative (di livello) prosciugate dalle spese spesso folli delle altre 27 franchigie. Ne vale la pena. Per Kawhi Leonard ne vale la pena, l’idea delle tre franchigie che lo corteggiano in ogni modo possibile. Che è, allo stesso tempo, nessun modo. Perché Leonard non ha intenzione di farsi corteggiare. Ci hanno provato con i soliti billboard in giro per la città: nessun effetto. Figurarsi creare scene stile “I Soprano” come avevano fatto i Knicks per LeBron James, o t-shirt con la scritta “This is your life”, cortesia dei Clippers per convincere Blake Griffin. A Toronto, dove hanno imparato a conoscerlo l’ultimo anno, hanno capito una cosa, forse riassumibile nell’eterna massima less is more: niente fuochi d’artificio, ma un anello da consegnare durante la prossima opening night e poche parole, scelte con cura da Masai Ujiri: “We are who we are”, siamo quelli che siamo. Il resto non conta, perché comunque Kawhi Leonard sceglierà di fare a modo suo, come al solito, come sempre ha fatto finora. È stato il tratto distintivo di tutta la sua carriera, difficile che il suo modo di agire cambi ora, anzi. Ha sempre fatto di testa sua, ha (spesso) fatto quello che sembrava folle o impossibile fare.
Una vita (e una carriera) controcorrente
LeBron James ha più di 50 milioni di follower su Instagram; Kawhi Leonard neppure un suo account. Sulla stessa piattaforma Kevin Durant annuncia di svelare la sua prossima destinazione – saranno i Nets, ma alla fine lo anticipa il solito Wojnarowski, stavolta su Twitter; un social dove Leonard l’account (ovviamente certificato) ce l’ha, ma conta un totale di 4 tweet, l’ultimo datato 7 luglio 2015. Il resto delle superstar NBA fanno carte false per firmare con i brand più prestigiosi e cool; Leonard – dopo essere stato sotto contratto con Brand Jordan – decide di uscire dall’accordo e sceglie New Balance, di cui diventa in pratica l’unico testimonial, il primo di un certo peso dai tempi di James Worthy, l’ala dei Lakers dello Showtime anni ’80. Tutto il mondo si trova d'accordo nell'individuare nei San Antonio Spurs della coppia RC Buford-Gregg Popovich la franchigia modello da lodare e, se possibile, imitare; lui, dopo averla trascinata all'ennesimo trionfo, ne smaschera le imperfezioni e ne distrugge il mito, chiedendo ad alta voce la propria cessione e forzando il suo addio. Ancora: la NBA – e il suo pubblico di tutto il mondo – celebra realizzatori e schiacciatori; Leonard si presenta principalmente come un difensore (il migliore della lega nel 2015 e nel 2016) e solo dopo si trasforma in un incredibile attaccante. Sempre la NBA non sembra trovare risposta a due delle squadre più forti mai assemblate, i Miami Heat dei “Big Three” James-Wade-Bosh e i Golden State Warriors di Curry-Thompson-Durant (e Green); Kawhi Leonard – la prima volta con gli Spurs, la seconda con i Raptors – ferma le loro dinastie in essere, negando il threepeat tanto ai primi (2014) che ai secondi (2019). Le altre superstar fanno la fila per finire davanti alla telecamera, magari nel nuovo Space Jam; lui le rifugge. Gli altri si aprono davanti ai microfoni, confessando sogni (di successi&titoli) e timori (infelicità&depressione); lui si chiude sempre più.
Una sola regola: meglio il silenzio
L’ultima dimostrazione è sotto gli occhi di tutti in queste ore: gli occhi di tutti sono puntati sull’asse Toronto (Raptors)-Los Angeles (Lakers o Clippers), tutti aspettano di sapere qualcosa dal giocatore e dal suo camp (essenzialmente una persona, lo zio, Dennis Robertson). Si aspetta un indizio, anche piccolo, lo si cerca altrove – a Las Vegas – perché da Toronto e da L.A. non filtra nulla. Le quote per i Lakers campioni NBA nel 2020 scendono nelle ultime ore (pagavano 175, ora pagano 140): buon segno? Scendono anche quelle dei Raptors (da 1.400 a 1.000): in Canada possono sperare? Salgono invece quelle dei Clippers (da 800 a 1.000): allarme? C’è chi dice – Jordan Schultz, di ESPN – che il giocatore abbia già completato i meeting con tutte e tre le squadre, che la decisione sia ormai vicina, ma Marc Stein, voce autorevole del New York Times, avverte: “Il front office sia dei Lakers che dei Clippers sta cercando di far trapelare il meno possibile per evitare di indispettire il giocatore e i suoi rappresentanti. Che hanno insistito sul silenzio più totale”. E nel ciclo di notizie 24 ore su 24, quando il rumore di fondo sembra non scemare mai, Kawhi Leonard va controcorrente. Per l’ennesima volta.