Philadelphia, inizio stagione da incubo: la crisi ha origini profonde

La sensazione, in casa Sixers, era che la sessione di mercato estiva avesse finalmente rappresentato l’ultimo passo di un percorso iniziato ormai dieci anni prima, quando l’avvento a capo della dirigenza di Sam Hinkie aveva segnato l’inizio di quello che sarebbe poi passato alla storia come “The Process”. Philadelphia, allora, decideva di rinunciare a essere competitiva nel breve termine per sfruttare al meglio le possibilità offerte dai Draft degli anni successivi e ricostruire così la squadra dalle sue fondamenta. Una scelta, quella di optare per la strategia comunemente definita come “tanking”, perdere oggi per vincere domani, già adottata da tante franchigie in passato, ma mai in modo tanto drastico e conclamato. Così, una delle piazze storiche della NBA, animata da una delle tifoserie più focose e esigenti di tutti gli Stati Uniti, si ritrovava a dover sopportare stagioni punteggiate da tante sconfitte e molti bocconi amari, spesso amarissimi da ingoiare. Un sacrificio, quello chiesto alla squadra e all’ambiente dei Sixers, che avrebbe dovuto per l’appunto venire ripagato da un futuro di successi. Un futuro che però a Philadelphia non è mai davvero arrivato e che, per quanto visto nella prima parte di questa regular season, continua ad apparire distante e inafferrabile. Embiid e il “Process” che non arriva mai a compimento Dopo i fallimenti dei tanti nomi arrivati a Philadelphia dai vari Draft, da Ben Simmons a Markelle Fultz passando per Jahlil Okafor e Elfrid Payton, l’unico vero lascito delle privazioni degli anni del “Process” è rimasto Joel Embiid. Non a caso il camerunese si è appropriato del termine trasformandolo nel suo soprannome, e proprio attorno lui Philadelphia si è stretta in questi ultimi anni per tenere viva la speranza di un ritorno ai vertici della NBA. Anche perché l’ultimo Larry O’Brien Trophy arrivato in città risale al 1983, ovvero a un’epoca lontana in cui i Sixers vincevano il titolo sulle spalle di leggende come Julius Erving e Moses Malone. Leggende di cui Embiid, MVP della stagione 2022-23, appariva e appare ancora oggi come l’erede naturale. Reduce dal trionfo olimpico con Team USA, dove è stato protagonista di prestazioni importanti nei momenti decisivi della semifinale con la Serbia e della finalissima con i padroni di casa della Francia, per Embiid la svolta della carriera, quella in grado di portarlo alla gloria vera, sembrava quindi dietro l’angolo. E invece l’avvio di stagione da incubo dei Sixers è iniziato proprio da lui, o meglio dal suo ginocchio sinistro. Un disastro nei numeri e non solo Un disastro. Difficile definire in altro modo l’avvio di regular season di Philadelphia, che al momento non ha il peggior record di tutta la NBA solo perché Washington, la cui stagione era però nata con aspettative ben diverse, è riuscita fin qui a fare peggio. Le 3 vittorie e 13 sconfitte mandate a referto, però sono lo specchio fedele di una crisi che è tutta nei numeri. I Sixers, in questa prima parte di stagione, hanno avuto il 3° peggior attacco della lega e la 18° difesa su 30, a riprova di una squadra che non ha mai davvero trovato una sua identità in nessuna delle due metà campo. Il dato più significativo di questo avvio da incubo per i ragazzi allenati da coach Nick Nurse, però, è forse un altro: 6, come i minuti totali giocati in stagione dal trio formato da Embiid con Tyrese Maxey e Paul George. Le tre stelle di Philadelphia, infatti, sono state tutte alle prese con problemi fisici che di fatto non hanno mai consentito a quella che avrebbe dovuto essere la spina dorsale della squadra di prendere forma. Embiid, dopo aver saltato tutta la fase di preparazione ad ottobre, ha esordito solamente il 12 novembre, giocando quattro partite in totale. George, invece, ha prima dovuto fermarsi nell’amichevole del 14 ottobre contro Atlanta, esordendo il 4 novembre per poi fermarsi ancora una settimana fa, in entrambi i casi per una iperestensione al ginocchio sinistro. La partita del secondo infortunio di George, persa sul campo di Memphis, era quella del rientro di Maxey, fermo per sei partite a causa di uno stiramento, in cui la convivenza tra le stelle dei Sixers è durata per l’appunto una manciata di minuti. E, per quanto le cifre parlino chiaro, non riescono nemmeno a raccontare in pieno la profondità di una crisi che va oltre i risultati sul campo. La speranza e un vero e proprio miracolo cestistico Se sul parquet Philadelphia ha avuto un avvio di stagione disastroso, non è che lontano dal campo da gioco le cose siano andate molto meglio. I Sixers, che negli anni scorsi avevano dovuto gestire casi spinosicome quelli di Ben Simmons e James Harden, separati in casa e poi spediti rispettivamente ai Nets e ai Clippers in due trade non proprio azzeccatissime da Daryl Morey, a capo del front office della franchigia dal 2020, hanno fatto parlare anche per nuove, quasi immancabili vicende controverse. Prima era arrivata l’indagine interna della NBA e riguardante la gestione poco chiara delle tempistiche di rientro dall’infortunio di Embiid, sfociata in una multa da 100.000 dollari rifilata alla franchigia. Embiid che poi è stato protagonista di un incidente con un cronista del “Philadelphia Inquirer”, terminato tra accuse e strattoni e costato alla stella dei Sixers tre giornate di squalifica comminate dalla lega. Infine, la scorsa settimana, è uscita la storia della riunione che la squadra ha tenuto dopo la sconfitta di Miami del 18 novembre e nella quale Maxey avrebbe accusato Embiid di scarsa puntualità agli allenamenti, generando poi la reazione rabbiosa del camerunese, che parlando con i giornalisti ha espresso la volontà di individuare la “talpa” nello spogliatoio dei Sixers. Al netto degli infortuni alle tre stelle della squadra, che di certo hanno influito sull’andamento in campo, le origini della crisi di Philadelphia sembrano quindi avere radici profonde. E uscire da questa crisi, ora, non sarà affatto semplice. Le ragioni del pessimo avvio di regular season non sembrano infatti solo di natura tecnica o riconducibili all’infermeria troppo affollata, perché le problematiche emerse riguardano anche i rapporti all’interno dello spogliatoio e la compatibilità caratteriale tra i protagonisti più importanti. Nurse, più che con la lavagnetta, dovrà perciò lavorare sulla testa dei suoi giocatori, a partire da quelli che avrebbero dovuto trascinare i compagni e che fin qui, Embiid in testa, hanno completamente mancato l’obiettivo. Anche perché l’unica classifica in cui i Sixers svettano è quella dell’età media, che con 28.31 è la più alta di tutta la NBA. La squadra, insomma, è costruita per vincere subito e afferrare quell’oggi più volte rimandato negli anni scorsi. Al momento, però, il sito “Basketball Reference” attribuisce ai Sixers un 4.2% di possibilità di arrivare anche solo ai playoff. Portare a termine il “Process”, in definitiva, richiederebbe un vero e proprio miracolo cestistico. E a Philadelphia, ora come ora, non resta che aggrapparsi alla speranza che la sorte, con cui la squadra e i suoi tifosi sono effettivamente a credito, possa regalare una sorpresa a oggi del tutto impronosticabile.