The Punch: il dramma di Rudy Tomjanovich e Kermit Washington, fratelli per sangue

“I think that the world is going to be a better place because Kermit walked through it” – Stu Inman, gm Blazers È che aveva la fissa dei tabelloni, Rudy Tomjanovich. Non faceva che preoccuparsene, e la mattina di venerdì 9 dicembre 1977 non era stata diversa da quelle dei normali giorni di gara. Durante la consueta seduta di shootaround, al Fabulous Forum di Inglewood, in California, il campo dove di lì a poche ore i Los Angeles Lakers avrebbero affrontato i suoi Houston Rockets, si era fermato a fissarli, prima uno e poi l’altro, per controllare che fossero ben saldi ai sostegni. Sicuri. “Ci pensavo sempre quando ancora il palazzetto era vuoto – dirà un quarto di secolo anni dopo l’evento che ne aveva travolto e stravolto il destino: e col suo, quelli del suo aggressore e dei loro cari, oltre che dell’intera NBA – Non so perché ma ho sempre avuto paura che un giorno o l’altro quei dannati affari si sarebbero schiantati sul parquet a partita in corso”. Era, ricordiamolo, l’epoca pre-ferro sganciabile. E anche se mancavano ancora un paio d’anni a quella tonitruante schiacciata con cui Darryl Dawkins dei Sixers, battuti 110-103 il 13 novembre 1979 dai Kings, frantumò il tabellone del Municipal Auditorium di Kansas City, nel Missouri, i timori di Rudy T erano più che fondati. E nell’ambiente pure piuttosto diffusi. La sera stessa però, quel brutto presagio si era avverato. O almeno questo è quanto l’allora ala di Houston percepì subito prima di perdere conoscenza e ritrovarsi con una vita che non era più la sua. La sua di prima, cioè. A stravolgergliela, per usare la calzante definizione di Jack McCloskey, all’epoca assistente di coach Jerry West ai Lakers e futuro giemme del back-to-back dei Bad Boys detroitiani, era stato “il pugno più devastante nella storia dell’umanità”. Il destro di inaudita potenza che Kermit Washington, l’ala dei Lakers, aveva appena sferrato a quella dei Rockets. Dritto in faccia a Rudy T. Primo minuto del terzo periodo, i Rockets si portano avanti 57-55, sbloccando il risultato di parità sul quale si era arrivati all’intervallo. Tomjanovich sembra in serata, una delle sue: 9/14 su azione e una fluidità tale da far dubitare gli astanti su come mai quel jumper, uno dei più ‘dolci’ nella lega e in genere quasi impeccabile, fosse finito fuori già cinque volte. Sul ribaltamento di fronte, Norm Nixon, point guard dei Lakers, sbaglia in sospensione e Kevin Kunnert, centrone di Houston di 2,12, arpiona il rimbalzo. A quel punto Rudy T scatta istintivamente in avanti, verso la parte destra del campo, sapendo che Kunnert avrebbe servito il proprio play John Lucas per cercare di prendere d’infilata la difesa gialloviola. Tomjanovich guarda Lucas per capire se questi gli passerà subito il pallone, poi sente un fischio provenire da dietro e si ferma. Voltatosi, si accorge che a metà campo Kunnert viene colpito da dietro da Kareem Abdul-Jabbar, poi scorge di sfuggita, senza capire bene di chi si tratti, un altro Laker che, spalle rivolte verso lo stesso Rudy, stava per tirare un cazzotto a Kunnert. Quando il colpo va a segno Kevin si piega su un ginocchio e Tomjanovich, visto il compagno in difficoltà se non altro per l’inferiorità numerica, si precipita a tutta velocità in direzione di quella che, al momento, sembra solo una delle mille scaramucce che scoppiano sotto le plance. “Tutto ciò che sapevo”, dirà in seguito Tomjanovich, “era che uno dei miei si trovava nei guai. Così mi sono precipitato, ma non saprei dire cosa avrei fatto una volta giunto là”. Probabilmente, conoscendo lui e i suoi atteggiamenti tenuti sin lì in sette stagioni da pro’, sarebbe intervenuto per interromperla, quella scaramuccia. A maggior ragione se si pensa che Tomjanovich vi si era sì lanciato a tutta velocità, ma a braccia tenute basse e quindi, presumibilmente, con la mera intenzione di bloccare il non meglio identificato avversario che aveva appena colpito Kunnert. E magari di portarselo via per evitare altri danni, come Abdul-Jabbar pareva stesse facendo col proprio compagno Kunnert. Quest’ultimo reo – agli invasati occhi di Washington – di avergli fatto assaggiare con maligna premeditazione la spigolosità di entrambi i gomiti. Lo stesso Jabbar, appena 52 giorni prima, sconfitto 117-112 dai suoi ex Bucks il 18 ottobre 1977 alla Mecca di Milwaukee, era stato protagonista di un episodio simile. Ma dall’altra parte della gomitata: con una nonchalance degna di miglior causa, il cattivissimo-lui Kent Benson, terribile rookie all’esordio in NBA nella opening night della stagione, gliene aveva rifilata una di inaudita violenza alla bocca dello stomaco dopo appena 2’09” nei pro’. Karim, allontanatosi di spalle un attimo per riaversi, si era poi voltato e riavvicinato per vendicarsi con un ancor più terrificante destro alla mascella. Roba da “circoletto rosso” di Rino Tommasi per qualità, tempismo ed efficacia del colpo. Altro che jab di disturbo, fu un cross risolutore. Alla Marvin ‘Marvelous’ Hagler, per intenderci. Sembrava una scaramuccia da niente, invece Jabbar si ruppe la mano destra e sbollì la rabbia guardandosi in albergo il suo personalissimo derby: gara-6 delle World Series di baseball fra i Los Angeles Dodgers e i New York Yankees. Quella reazione inconsulta gli costerà 5000 dollari di multa e lo farà star fuori per 20 partite. Benson, mascella e occhio destri delle dimensioni di un cocomero, aveva avuto bisogno del trainer per uscire dal parquet e avrebbe poi saltato la sconfitta dell’indomani a Denver. Trick and Treat Del resto, non era forse così che la maggior parte degli scontri, specie in area, cominciavano e finivano? Un gomito alzato, una manata galeotta, una parolina di troppo, qualche colpo proibito, magari un testa a testa, uno spintone da macho frustrato o una rapida scazzottata, poi di solito – con arbitri svegli – a prevalere erano gli spiriti meno bollenti. Tomjanovich era sempre stato fra questi, e la sua carriera era lì a testimoniarlo. Il suo amico e compagno di stanza oltre che di squadra Calvin Murphy, 1,74 per 73 kg di adrenalina pura, invece no: tutt’altro. Anche lui sta correndo indietro verso la rissa e Tomjanovich, che lo conosce bene, sa bene che, se ad arrivare per primo sarà Murphy, non sarà certo per fare da paciere. Rudy quindi a sua volta si precipita per raggiungere il centro del campo ed è in quel preciso istante che gli crolla addosso un ‘tabellone’. Kermit Washington. “Tricky, cos’è successo?”. Riverso nel suo stesso sangue, Tomjanovich non capiva perché piegato su di sé avesse Dick ‘Trick’ Vandervoort, il magico trainer dei Rockets, che gli premeva sul volto un asciugamano per stagnarne il sangue che gli zampillava a fiotti dal naso. Un po’ frastornato, a Rudy T non era ben chiaro cosa – anziché chi – lo avesse colpito, magari era stato uno di quei tabelloni che tanto lo preoccupavano prima delle partite, “quando l’arena era ancora vuota”. “Resta giù, Rudy” gli ripete Vandervoort. Ancora stordito, Tomjanovich riesce però a tirarsi un po’ su. E la prima persona che scorge, seppur non proprio nitidamente, è Walter Matthau, il celebre attore seduto in parterre, prima di ripetete la domanda rimasta inevasa: “Cos’è successo, Trick? M’è caduto addosso il tabellone?”. “È stato Kermit a colpirti” gli risponde Vandervoort. Kermit era appunto Washington, ala forte di 2,02 e 110 kg di muscoli, messi su in anni di sedute in sala-pesi. Dieci in più degli effettivi cento a cui era sceso in seguito alle altrettanto interminabili ore di riabilitazione trascorse in off-season dopo l’intervento chirurgico al ginocchio subìto la stagione precedente. Washington, fra i lunghi più grandi e grossi nella lega, era anche uno dei più ‘aggressivi’ ma corretti . E comunque solo in campo. Fuori, la classica pasta di ragazzo, cui il destino mai aveva smazzato una mano vincente. “Kermit è semplicemente l’opposto di quel che sembra. È quasi timido, lontano dal basket”. – Bill Sharman, suo gm ai Lakers Sentendo il rumore dei passi, e scorgendo con la coda dell’occhio il colore della maglia di chi si stava avvicinando in gran furia, e dunque senza sapere di chi si trattasse né quali intenzioni avesse, Kermit aveva reagito d’istinto: si era girato di scatto e aveva lasciato partire, distendendo tutto il braccio, un pugno di potenza inaudita. Il rumore sordo dell’impatto fu tremendo almeno quanto l’assordante silenzio che ne seguì. “Come se qualcuno avesse picchiato con una mazza da baseball contro un muro di cemento” . O il suono di “un melone lasciato cadere sul pavimento” . “Nessuno aveva mai sentito un suono simile per un pugno – rammenta Thomas Bonk, all’epoca inviato dello Houston Post – si sentì fino su in tribuna stampa. Impressionante”. Rara se non unica voce fuori del coro, quella di Tom Nissalke, coach dei Rockets: “Un pugno che era tutta scena”. Nel crollare subito a terra, Tomjanovich aveva battuto violentemente la testa. “L’ultima cosa che ricordo è che mi trovavo steso sul parquet” racconterà dopo aver ripreso ripresa conoscenza “E con un continuo ronzio nelle orecchie. Ricordo di aver pensato che mi fosse davvero caduto addosso il tabellone”. In tutta probabilità, gli avrebbe fatto meno male, e molti meno danni: Rudy si ritrovò con naso e bocca orribilmente deturpati, la mascella destra fratturata, un trauma cranico , la mandibola superiore disallineata e una fuoriuscita di liquido spinale. “Pensavo fosse morto. Fu spaventoso”, dirà Don Chaney, in squadra con Washington ai Lakers e di lì a poco ai Celtics. Tomjanovich era in pericolo di vita, nessuno però ancora se ne stava rendendo conto. Per fortuna il pronto intervento e il mestiere di Vandervoort, unito al sesto senso del medico sociale dei Rockets, evitarono il peggio. Ma lo scandalo e il conseguente polverone che ne seguì furono enormi. Per indagare sul ‘caso’ fu scomodata persino l’icona dei reporter di guerra, Walter Cronkite. Conduttore del tg della CBS dal 1962 al 1981, era ritenuto “l’uomo più creduto d’America” e la sua caratteristica formula di commiato , seguita dalla data, con cui chiudeva il notiziario, – una sentenza. Inappellabile o quasi. “And that’s the way it is” – Walter Cronkite Quanto al boccone sociopolitico e mediatico, era troppo ghiotto per non far scoppiare – e cavalcare – le inevitabili polemiche a sfondo razziale: se fosse stato un bianco a colpire un nero anziché il viceversa, la notizia che copertura e risonanza avrebbe avuto? Che l’enforcer sia con noi Ai tempi, fine anni Settanta, la NBA era una lontana parente di ciò che è oggi, in tutti i sensi. I soldi erano sì tanti , ma non tantissimi. La tv via-cavo era agli albori e anche se fosse stata all’avanguardia, era il basket professionistico – in campo e fuori – a non godere di sufficiente appeal per conquistarla. Non solo per delle cattive frequentazioni, con relative abitudini, di tanti giocatori, specie a certe feste. Ma anche perché in campo le risse si sprecavano : nella stagione 1976-77 saranno poi 41 quelle che avevano portato a un’espulsione. Si era infatti ormai come istituzionalizzata la figura dell’enforcer, e cioè di un intimidatore – meglio se robusto e cattivo – la cui funzione primaria era quella di svolgere il lavoro sporco fatto di contatti, blocchi, palle recuperate. E, soprattutto, di fare da gorilla in particolare alle superstar, e più in generale ai compagni più vulnerabili o comunque più tartassati dagli avversari. Nei Lakers il compito di Washington era quello di proteggere Abdul-Jabbar, che soffriva a tal punto certe ‘cure’ ad personam che quando poi Kareem reagiva, a pagarne le conseguenze erano lui stesso e la sua squadra. Come nell’affaire-Benson, che i Lakers scontarono con una partenza a handicap: 9-14. E ben gliene colse che l’allora commissioner Larry O’Brien non volle infierire aggiungendo al danno la beffa della squalifica: le 21 partite out per l’infortunio avrebbero assolto loro allo scopo. Molto peggio andò invece a Kermit, lui pure un prototipo della power forward dell’epoca quanto a durezza e volontà, ma con poco talento offensivo. Quel pugno lo trasformò nel “nemico pubblico numero uno”, come egli stesso si definì negli anni successivi. La lega gli comminò una multa di 10 mila dollari e 60 giorni di squalifica con sospensione dello stipendio. Fatti due conti, uno spaghetti-western senza lieto fine: per un pugno da 60 mila dollari. Una doppia botta che gli troncò di colpo la sua miglior stagione: 10 punti e 9 rimbalzi di media da role player di lusso. Los Angeles, che con la NBA ha il dente avvelenato perché ancora una volta non aveva punito a sufficienza i ‘provocatori’ , già il 29 dicembre lo sbologna con Don Chaney ai Celtics per Charley Scott e “future considerations” . E da questi, a fine stagione e dopo 26 presenze , per un anno ai San Diego Clippers e un paio ai Blazers prima di un precoce ritiro dopo 20 partite della campagna 1981-82. Nel 1983, dopo gli infortuni dell’anno precedente, tentò di rientrare con Portland. Con una generosa proposta, che stupì anche il management dei Blazers, Kermit chiese ai proprietari di devolvere in forma anonima il suo ingaggio ad alcuni tifosi locali indigenti. Purtroppo per lui e per loro, un ginocchio e la schiena malandati ne impedirono il rientro. Ma il suo programma assistenziale proseguì, e coinvolse anche giocatori e dirigenti. “Il mondo è un posto migliore perché Kermit Washington ci ha messo piede”, disse il compianto Stu Inman, giemme dei Blazers. Eppure, per il resto della carriera, anche da allenatore, Washington lo vivrà da paria della lega. Nessuno voleva più avere a che fare con “l’uomo che con un pugno aveva quasi ammazzato Rudy Tomjanovich”. “Fu terribile e logorante” ricorda Kermit, che ha sempre sostenuto di aver agito d’istinto, senza capacitarsi del perché mai “quell’ombra si fosse messa a correre verso di me. Mi sentivo come se stessi per scendere dall’auto e qualcuno mi stesse aggredendo per portarmela via. Non riuscivo più a dormire”. Figuriamoci il povero Rudy T, al quale, nella stanza d’ospedale dove era stato ricoverato d’urgenza ed era rimasto due settimane, avevano coperto con degli asciugamani lo specchio così da impedirgli di vedere in che stato Kermit gli avesse ridotto la faccia. Poi ricostruita con cinque interventi chirurgici. Tomjanovich fece causa ai Lakers per mancato controllo sulla condotta di Washington. E i Rockets ai Lakers per la perdita del loro capitano, che dovette saltare 53 partite. Quando la causa arrivò al dibattimento, nell’estate del 1979, la giuria della Corte federale di Houston risarcì Tomjanovich di 3,3 milioni di dollari, più di quanto richiesto dai legali del giocatore. I Lakers ricorsero in appello e alla fine transarono con Rudy T per una somma rimasta riservata e patteggiarono nella vertenza intentata dai Rockets. Tomjanovich tornò in campo dieci mesi dopo e giocò bene, riportando Houston ai playoff. E si ritirerà nel 1981, una stagione prima di Kermit, con una media in carriera di 17,4 punti, 8,1 rimbalzi e due assist a partita. La prima volta che si erano riaffrontati, fu nel 136-125 dei Rockets sui Clippers l’11 novembre 1978 al Summit di Houston. Per un intero quarto si marcarono a vicenda senza scambiarsi una parola. Due anni dopo il fattaccio, ebbero una discussione prima di una gara, poi più nulla. Rudy T ha sempre detto di non rivivere mentalmente l’incidente, e di non aver mai avuto dei flashback, perché il pugno non l’aveva visto partire. Paradossalmente, più difficile per Washington, scrollarsi da dentro quel suo “autentico, sfortunatissimo errore”. Kermit ricevette insulti via-posta da tutto il Paese, comprese minacce di morte e telefonate minatorie. Tutto questo, malgrado avesse fatto diversi tentativi per riconciliarsi con Tomjanovich. Chiamate mai ricambiate. Dal ghetto al gotha Kermit – una laurea in psicologia alla American University – soffriva già di una psicosi che aveva radici lontane. E risalenti all’infanzia vissuta nel ghetto della capitale, dove era nato il 17 settembre 1951 e di cui porta il nome. “La prima cosa che impari là – spiegherà – è che se sei nei guai, devi metterti spalle al muro per proteggerti, poi cominci a menare le mani e solo dopo, casomai, ti metti a chiedere spiegazioni». Purtroppo per lui , di muri in un campo da basket non ce ne sono, e anche fuori non è che abbondino. Sul parquet l’unica arma che hai è l’istinto, ma se ad affinarla è stata un’infanzia poverissima, per di più vissuta in un contesto socio-familiare difficile, quell’istinto di conservazione anziché guidarti e proteggerti può portarti all’autodistruzione. Con mamma Barbara spesso ospedalizzata per una sindrome maniaco-depressiva e altri disturbi mentali, Kermit e il fratellino Chris, cui era legatissimo, erano cresciuti nella casa della severissima nonna materna. E non ricorda, del sé bambino, di essere mai stato abbracciato. Quando papà Alexander aveva sposato in seconde nozze un’altra Barbara, che dei figli del marito non voleva saperne, i Washington si erano trasferiti al 237 di Farragut Street N.W., un quartiere dominato dalle gang. Le più pericolose erano a Riggs Park e a Decatur Street. Da quelle parti, specie se sei nero e povero , “è già tanto se arrivi a ventun anni” perché, dettaglia Kermit, “finisci ucciso nelle lotte fra bande, dalla droga o dalla polizia. Io sono stato fortunato”. Da ragazzo Kermit era stato aggredito da alcuni delinquentelli del quartiere. In una rissa di strada, in due lo avevano tenuto fermo mentre un terzo lo gliele suonava. E una volta, a Buffalo, uno dei Braves lo aveva colpito da dietro durante una mischia selvaggia. Consequenziale, e umanissima ancorché non giustificabile la sua spropositata reazione avuta dopo lo scambio di convenevoli aperto da Kunnert: per Kermit subire per la terza volta un’aggressione simile sarebbe stato troppo. Il vento del perdono Nel 2002, tre lustri dopo il breve precedente di Sacramento del 1987, e a un quarto di secolo da The Punch, come ormai è passato alla storia quel terribile episodio, i corpi di Washington e Tomjanovich sono tornati a contatto: ma solo per stringersi la mano. L’allora coach di Houston, con cui ha vinto il titolo in back-to-back nel 1994-1995 era a Oakland, in California, per visionare il cinesone Yao Ming e provinare il 25enne Sonny Watson, scoperto l’anno prima dal Kermit consulente tecnico in Cina. Evaporata una più che comprensibile titubanza iniziale, l’atmosfera si era poi sciolta un po’, e Washington aveva buttato lì per scherzo che Larry Smith, ai tempi assistente di Rudy T ai Rockets, ancora lo guardava in cagnesco. “Quando nella vita ti capita una cosa del genere”, dirà Tomjanovich ai giornalisti convenuti per l’occasione, “è ovvio che ti restino delle cicatrici, fisiche e psicologiche. Le prime dopo un po’ non fanno più male. Ci pensano la natura e le medicine a farle rimarginare. Le seconde, invece, te le porti dentro per sempre”. Classe 1948 e ritiratosi nel 2005 dopo una stagione ai Lakers, Rudy è guarito tre volte: dai postumi dell’‘incidente’ con Washington; dai problemi di alcolismo che, nonostante i precedenti del padre, è difficile ritenere estranei a quel 9 dicembre; e da un tumore alla vescica. Tomjanovich, facendo un grande lavoro su di sé, Kermit è riuscito a perdonarlo. Coinvolto in una oscura vicenda di presunta sottrazione di fondi in uno dei suoi progetti benefici, il Project Contact Africa , dopo il fallimento nel 2000 del ristorante aperto con Kevin Duckworth suo ex compagno ai Blazers, Washington ora dovrebbe fare altrettanto con sé stesso. Non gli servirà per dimenticare, perché The Punch tornerà sempre fuori ogni qualvolta nella lega succederà anche la pur minima scaramuccia. Ma a trovare un po’ di pace interiore forse sì. E nessuno la merita più di Rudy T e Kermit. Due vite in un pugno.

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The Punch: il dramma di Rudy Tomjanovich e Kermit Washington, fratelli per sangue

Christian Giordano