Camera con vista sul titolo NBA

Qual è la prima cosa a cui si pensa quando bisogna partire per le vacanze o per un viaggio, quando si prenota un albergo o un B&B, quando si affitta una casa o un appartamento? La cosa importante è che ci sia una…bella vista. Una camera con vista – per dirla con E. M. Forster - e poi James Ivory. Sul mare, sulle montagne, sul centro della città. Una vista. Nella NBA 'vista' ha un altro significato. Si parla di Championship Window, di finestra temporale, l’intervallo di tempo da sfruttare per puntare al titolo, quello in cui una squadra cercherà di diventare campione NBA. È una camera con vista, sì, ma all’orizzonte deve esserci il Larry O’Brien Trophy. Quali squadre oggi possono godere di questa vista? Come si crea una 'finestra'? Con l’intuito, la fortuna? È una questione di opportunità, di capacità imprenditoriali? Qual è l’ingrediente indispensabile per poterla spalancare? Un gruppo solido di giocatori? Una superstar? Un grande allenatore? Una dirigenza forte? E qual è l’elemento che rischia di chiuderla irrimediabilmente? Spurs di ieri, Spurs di oggi: da Tim Duncan a Victor Wembanyama Quella più ampia nella storia della NBA appartiene ai San Antonio Spurs allenati da coach Popovich: quelli di Tim Duncan, Manu Ginobili e Tony Parker. Ora a San Antonio c’è Victor Wembanyama, che ha e avrà bisogno di una squadra competitiva, certo, ma in ogni caso il futuro degli Spurs a meno di cataclismi sarà un futuro di vertice. Tutti i general manager della lega vorrebbero infatti poter cominciare il processo di costruzione di una squadra da un giocatore generazionale come Wembanyama, ma a San Antonio non mancano nemmeno le scelte al draft: da qui al 2031 ne avranno una decina solo al primo giro, con la possibilità di spostare gli equlibri. La difficoltà attuale, aspettando che 'Wemby' continui con il suo sviluppo cestistico, sarà solo capire quali saranno i due o tre giocatori del roster attuale che faranno compagnia al francese anche in futuro. Il futuro è OK Se San Antonio è la squadra di domani, Oklahoma City è sicuramente una squadra che già oggi è in grado di puntare al titolo. Il roster è profondo e competitivo, e nonostante l'età media bassissima sembrano destinati a essere la prima forza a Ovets. Anche ai Thunder, come per gli Spurs, non manca il capitale di scelte: da qui al 2030, tra primo e secondo giro, ne hanno qualcosa come 30. Il generale manager Sam Presti ha tra le mani un capitale di enorme valore, potendosi permettere di convertire tutte queste scelte in giocatori fatti e finiti per sistemare il roster. Come se non bastasse, in questo momento molti giocatori importanti hanno ancora il rookie contract e questo significa possedere un vantaggio evidente dal punto di vista economico sulla concorrenza ancora per qualche anno. Parlando di Holmgren, portarlo a Oklahoma City al posto di Wembanyama è stata forse una benedizione per i Thunder: l'ex Gonzaga ha potuto inserirsi con calma nei meccanismi di squadra, smaltendo l'infortunio che lo ha costretto a saltare per intero la sua prima stagione senza pressioni. OKC, salvo clamorosi ribaltoni, ha tutto ciò che serve per vincere tre titoli nei prossimi cinque anni. La fine delle dinastie Nella costruzione di una squadra contano i numeri e contano, naturalmente, la capacità del cestista stesso di inserirsi o meno in un gruppo: impossibile trascurare la componente umana ed emotiva. E poi ci sono i soldi, l’aspetto economico e finanziario, il parametro imprescindibile che condiziona la creazione di una squadra. La storia recente della NBA ci fornisce un esempio eclatante: per una questione economica nel 2012 proprio OKC decise di rinunciare a James Harden. Forse quella squadra – c’erano anche Durant, Westbrook e Ibaka, è bene ricordarlo – un paio di titoli li avrebbe vinti. Anzi, il 'Barba' ne è talmente sicuro che di quel "forse" non vuole proprio sentire parlare, come ha raccontato di recente in un podcast. All’epoca il suo rinnovo contrattuale non andò a buon fine per una cifra quantificabile in quattro milioni di dollari. Dodici anni fa i Thunder decisero di non spenderli, rinunciando a una potenziale dinastia. Oggi sarebbe praticamente impossibile riuscire ad assemblare una squadra come quella o come la Golden State di Curry, Thompson, Green e Durant. Anche volendone spendere molti di più. Perché l’equilibrio competitivo rappresenta da sempre uno degli obiettivi della NBA, fa sì che aumentino introiti e interesse del pubblico. Lo stesso sistema del draft è basato su questo. In più, il sistema dei due apron è stato introdotto proprio per evitare la formazione dei superteam: un sistema di salari così rigido concede meno possibilità a una sola squadra di dominare per lungo tempo, dando di contro maggiori possibilità a un numero di squadre più ampio di essere competitive. La realtà è che non ci sono margini di manovra, perché oltre alla questione dei contratti ormai ci sono mille limitazioni per cercare di evitare che una squadra possa dominare nel modo in cui sono riusciti a farlo i quattro fenomeni di Golden State. In quel caso poi, tutti i pezzi del puzzle andarono al proprio posto contemporaneamente: i giocatori giusti scelti al draft, le intuizioni tecniche vincenti, la possibilità di mettere insieme tante superstar anche dal punto di vista contrattuale. Molto difficile che uno scenario di questo tipo possa ripresentarsi alla luce delle nuove regole. Ma tutto questo è giusto? La risposta non sempre è sì. Perché la storia delle dinastie è appassionante: sono i Bulls di Michael Jordan, i Celtics di Larry Bird o gli Spurs di Tim Duncan che hanno fatto appassionare generazioni diverse di fan. Viste le condizioni, però, vincere anche una sola volta è già una gran cosa. Lakers, Nuggets e Bucks sono riusciti a farlo in anni recenti. Oggi queste tre squadre forse da quella finestra stanno guardando il tramonto, non più il titolo, che hanno vinto solo pochi anni fa. Un discorso valido anche per Sixers, Suns e Clippers, progetti nati con grandi ambizioni ma le cui chance si stanno assottigliando sempre di più. La pazienza è la virtù dei forti Insomma, bisogna fare le cose con attenzione e oculatezza, tenendo a bada i sogni. Con un occhio al portafogli. Ci vuole pazienza, perché le decisioni che si prendono oggi influiranno sicuramente su ciò che accadrà domani. Un esempio? Brooklyn e Boston. Nel 2013 i Celtics cedettero ai Nets la 'bandiera' Paul Pierce e Kevin Garnett, due dei tre protagonisti del titolo del 2008 . In cambio ricevettero – tra le altre cose - due scelte, da utilizzare per i draft del 2016 e del 2017. Morale? Brooklyn non andò da nessuna parte, fallendo nel suo progetto di grandezza, e Boston avrebbe poi scelto Jaylen Brown prima e Jayson Tatum poi. Dal 2017 a oggi sono arrivate sei finali di Conference e due Finali NBA, una persa nel 2022, l’altra vinta pochi mesi fa. Sì, a volte ci vuole pazienza.