A proposito del 'Mago'

Ho conosciuto Andrea Bargnani durante il nostro periodo insieme a Treviso. Siamo stati compagni di squadra, ma soprattutto compagni di stanza, per due anni, dal 2004 al 2006. Prima che lui venisse chiamato dalle sirene della NBA. A inizio carriera era un ragazzo molto riservato, non taciturno ma tranquillo. Ancora più di oggi. In realtà, come oggi, era un ragazzo ironico, molto sarcastico e sempre pronto allo scherzo, nonostante fosse totalmente dedito al gioco della pallacanestro. Quella facciata di diffidenza è, appunto, una facciata. Andrea va conosciuto. Perché nonostante sia un uomo molto sicuro di sé ha imparato fin da giovane a costruirsi una corazza: la sua storia personale, dentro e fuori dal parquet, prima e dopo la NBA, ha fatto sì che si costruisse un 'filtro' verso l’esterno. Bisogna guadagnarsi la sua amicizia. Dovendo parlare del campo, per caratteristiche, oggi sarebbe stato un giocatore simile a Karl-Anthony Towns . Un lungo capace di mettere la palla a terra con un tiro di alto livello. Il raggio d’azione è praticamente identico, diversa è invece la velocità di piedi: Andrea era più rapido nei movimenti. La sua carriera purtroppo è stata spezzata a metà, nel senso quasi letterale del termine. Non si può parlare di Bargnani senza pensare ai suoi infortuni, che ne hanno bloccato lo sviluppo nel momento in cui stava per diventare una star in NBA. Ci siamo sentiti spesso in quel periodo, la sua frustrazione era evidente, faceva dentro-fuori dall’infermeria di continuo. Come ha ammesso anche lui, la sua crisi è stata sia fisica che mentale. Andrea ha vissuto un prima e un dopo, nel corpo come nell’entusiasmo. Mentre era negli Stati Uniti mi aggiornava sul suo 'viaggio'. Ricordo ancora benissimo il momento del suo draft. Sono stati quattro giorni di full immersion. Lui era eccitatissimo ma allo stesso tempo molto agitato, soprattutto la sera prima. “Ho la saliva a zero…”, mi disse poco prima che il commissioner David Stern iniziasse le chiamate. Sono stati minuti di tensione. Poi è esploso in un mix di gioia e orgoglio. E noi con lui. Toronto è stata la sua città del cuore. Maurizio Gherardini, che al tempo era passato proprio da Treviso a essere il general manager dei Raptors, è stato l’uomo chiave per il suo arrivo in Canada, un passaggio fondamentale della sua carriera: Andrea mi raccontava di come Toronto fosse una città viva, ordinata, con una ricca comunità italiana. Nonostante il suo focus fosse sempre la pallacanestro, con Toronto è scattato l’amore. Della sua carriera gli è rimasto il rimpianto per la Nazionale. La sensazione, sua ma anche di tutti gli addetti ai lavori, è che quella generazione fosse la migliore mai vista in Italia per talento, stazza e atletismo. Lo stesso Andrea ne è sempre stato consapevole: avremmo potuto fare di più. Ma la storia è andata in modo diverso. Il rammarico più grande è che sono stati insieme, al completo, solo per un anno e mezzo. In così poco tempo, tra una gestione tecnica e l’altra, non hanno mai avuto la possibilità di costruire un progetto duraturo e vincente. Oggi Andrea Bargnani si è un po’ allontanato dal mondo del basket. La passione c’è ancora, ma non dall’interno. Ogni tanto va ancora a vedere l’Olimpia Milano e la Virtus Bologna in Eurolega, mentre la NBA la tiene 'sotto controllo' dagli highlights delle partite. Ha amato e ama quel mondo, ma oggi ha altri interessi. Come ha detto nella nostra chiacchierata, è un ragazzo che ama fare bene le cose in cui si cimenta: oggi il suo lavoro non è il basket, che rimane una 'vecchia fiamma'. Però, conoscendolo, non escludo che un giorno possa rientrarci, se qualcuno dovesse proporgli un progetto interessante a livello dirigenziale. Quando l’ho conosciuto era solo un diciottenne. Sono passati più di vent’anni anni. Io ne ho dieci in più di lui, non pochi. Una generazione in pratica. A maggior ragione nello sport. Però abbiamo legato fin da subito, a livello emotivo. La chiave è stata l’ironia, ci siamo trovati lì. Abbiamo condiviso tantissimo nelle due stagioni a Treviso, sia in campo sia nei momenti di stacco. Passava tantissimo tempo con me e mia moglie a casa nostra. Poi è arrivata la NBA, l’aspirazione massima per ogni cestista. Siamo stati, e siamo ancora oggi, prima di tutto amici. Aver fatto parte del percorso che lo ha portato in America è stato un privilegio.

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