Auguri LeBron James, 40 anni da faccia della NBA

Solamente pochi giorni fa la NBA ha comunicato la top-10 dei giocatori con più visualizzazioni nel corso di questa stagione. In testa con vantaggio sensibile nei confronti del secondo c’è ancora una volta LeBron James con 623 milioni di visualizzazioni, quasi 100 in più rispetto a una macchina da highlights come Ja Morant. Non dovrebbe fare notizia, ma pensandoci un po’ non ha davvero senso: James è alla ventiduesima stagione nella lega, ha passato più minuti in campo di qualsiasi altro giocatore nella storia, ed è nato e cresciuto nell’era in cui tutte le sue partite sono state viste, analizzate e vivisezionate da ogni angolo di osservazione possibile e immaginabile. E non solamente dal suo debutto in NBA datato 29 ottobre 2003 ma ancora prima, da quando le sue partite al liceo venivano trasmesse in diretta nazionale su ESPN e perfino qui in Italia, con telecronaca di Paola Ellisse e Federico Buffa. È il giocatore che abbiamo seguito come un’ombra e di cui abbiamo visto ogni singola giocata, discusso di ogni decisione, celebrato ogni vittoria e criticato ogni sconfitta. Arrivati a questo punto, ormai, dovrebbe averci anche un po’ stufato. E allora perché non possiamo farne a meno, anche adesso che è molto più vicino alla conclusione della sua carriera che al suo inizio? La mia risposta sta in due parole che James porta sulla schiena da più di vent’anni: “Chosen One”. Sono state la sua fortuna, perché lo hanno fatto subito percepire come qualcosa di speciale al grande pubblico, e la sua rovina, perché lo hanno sottoposto a una serie di attenzioni insostenibili. Se accetti di tatuarti quel soprannome a poco più di 17 anni — era il titolo di una celeberrima copertina di Sports Illustrated del 18 febbraio 2002, quando non aveva neanche finito il terzo dei suoi quattro anni di liceo — vuol dire che hai qualcosa di speciale dentro. E non perché lo dicono gli altri, ma perché tu hai accettato il tuo destino e lo hai abbracciato, invece di combatterlo o rifiutarlo come forse tanti altri avrebbero fatto al suo posto. È questa consapevolezza di sé stesso, specialmente a un’età così giovane, che ogni volta mi sorprende. Fin da quando era giovanissimo gli è stata messa addosso una pressione assurda, fissando l’asticella allo stesso livello dei più grandi di sempre e qualsiasi cosa in meno sarebbe stata considerata un fallimento. Nella presentazione della sua prima gara liceale in tv nazionale sono stati usati con grande disinvoltura i nomi di Wilt, Oscar, Kareem, Magic, Larry, Michael, Shaq e Kobe, gente di cui non serviva usare il cognome per capire chi fossero e cosa avessero fatto in carriera. Fior fior di talenti hanno completamente deragliato per molto meno, con la testa prima ancora che con il basket. James invece non solamente è riuscito a rispettare quelle aspettative, ma le ha di gran lunga superate, andando ben oltre a ciò che si poteva pensare - e parliamo di uno il cui debutto in NBA era stato definito, già a quel tempo, "il più atteso nella storia del basket, e probabilmente di tutti gli sport". Per la NBA è stato il più grande affare immaginabile, trovando un personaggio del genere proprio quanto Michael Jordan aveva annunciato il suo ultimo e definitivo addio al basket. Fin dal primo momenti in cui è entrato nella lega, James ha accettato il ruolo di “face of the league”, di faccia della NBA, un titolo che di fatto mantiene ancora oggi, considerando gli indici di popolarità che lo vedono sempre al top. E non è banale che sia così. Forse non ci si rende conto di quanto siano lunghi 22 anni: quanti altri prodotti di intrattenimento al mondo sono riusciti a rimanere attuali e ad attraversare le generazioni in maniera così trasversale? E James, a differenza degli show televisivi, delle produzioni cinematografiche o delle saghe dei videogiochi, non ha di certo alle spalle uno script messo giù a tavolino, per quanto lo staff che lo segue in ogni aspetto della sua carriera sia certamente smisurato. Ma non tutti i grandi giocatori sono disposti ad accettare un carico di aspettative del genere, e ce ne stiamo accorgendo ora che i Grandi di questa generazione si stanno avvicinando alla fine dei loro giorni in campo. Vivere la vita di LeBron James, o di Steph Curry, o di Kevin Durant, non è mica semplice. Quando ascendi al rango di 'leggenda' mentre sei ancora in campo, ogni singola mossa diventa un pezzo del gigantesco Jenga che è la carriera dei giocatori di questo calibro, e basta una decisione sbagliata per far crollare tutto quanto. James ha commesso il più grande passo falso della sua vita con 'The Decision', lo show di un’ora con cui nell’estate del 2010 ha annunciato l’addio ai Cleveland Cavaliers per andare ai Miami Heat e unirsi a Dwyane Wade e Chris Bosh, suoi compagni di Draft e di nazionale. Un autogol mediatico che lo ha accompagnato per anni, fino a quando non è riuscito a ricostruire pezzo per pezzo il suo impero: prima con le grandi prestazioni in campo, poi con le vittorie dei titoli, infine con il ritorno a Cleveland da figliol prodigo trascinandola alla vittoria. Vincere anche con la maglia dei Lakers, diventando il primo di sempre a farcela da MVP con tre franchigie diverse, è stata la ciliegina di una storia irripetibile. Perché neanche il migliore degli sceneggiatori avrebbe potuto immaginarsi un arco narrativo così lungo e così pieno di eventi, giravolte, momenti memorabili e scivoloni. L’immancabile paragone con Michael Jordan nasce anche per questo: non solamente per quanto sono stati grandi in campo e famosi fuori, ma anche per quanto sono state narrativamente entusiasmanti le loro carriere, i loro inciampi, i loro successi e soprattutto il loro carisma. Che si vincesse o si perdesse, tutto si riduceva alle loro figure: in una lega che come nessun altra porta avanti l’idea che sia l’individuo a fare le fortune della propria squadra e non necessariamente il contrario, James così come Jordan è sempre stato il motivo per cui le sue franchigie hanno vinto o hanno perso. Ma ci vogliono delle spalle enormi per vivere una carriera di questo tipo, per essere sempre al centro della scena nel bene e nel male, per vedere ogni propria singola parola o azione diventare l’argomento del giorno in televisione e sui social, per essere soprannominato 'Il Re' di una lega in cui il regicidio è insito nel DNA stesso dei giocatori che la popolano. James ha preso il bersaglio che aveva sulla schiena sin da quando è entrato in NBA e se lo è posizionato sul petto come per dire a tutti: venite a prendermi, vi aspetto, posso affrontare ciascuno di voi. Perché come diceva Omar in The Wire: “You come at the king, you best not miss”, se miri al re, è meglio che non sbagli. In tanti lo hanno affrontato, alcuni lo hanno anche battuto, ma arrivati al traguardo dei 40 anni possiamo dirlo senza timore di smentita: questa è ancora la lega di LeBron James, e lo sarà fino a quando non deciderà lui di abdicare al trono.

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Dario Vismara