Derrick Rose: "Il campione della gente", come Ali

Un viaggio che inizia da Chicago e che ritorna a Chicago, per chiudersi. Come è giusto che sia. In mezzo ci sono state altre tappe – New York, Cleveland, Minnesota, Detroit, Memphis, alcune anche belle, altre da dimenticare – ma non poteva non andare in scena nella sua città, davanti al suo pubblico, alla sua gente, l’atto in qualche modo conclusivo della carriera di Derrick Rose. Perché Derrick Rose è Chicago. Forse addirittura più di Michael Jordan, per certi versi. Come il 23, dal prossimo anno anche Rose avrà la sua maglia ritirata sul soffitto dello United Center, ultimo omaggio di una franchigia che nel weekend ha celebrato – e coccolato – uno dei suoi campioni più rappresentativi. Per la sua storia più ancora che per i suoi successi. Perché Rose è un figlio delle strade di Englewood prima di essere la prima scelta assoluta del Draft NBA . Perché è il talento che alla Simeon Academy raccoglie l’eredità di Benji Wilson prima di essere il rookie dell’anno NBA nel 2009. Perché è stato un ragazzo - e oggi un uomo - che non ha mai nascosto le sue fragilità, prima di diventare il più giovane MVP nella storia della NBA, nel 2011, a soli 22 anni. Sua nonna lo ha soprannominato “Pooh” - e ancora oggi lui ammette: “Non credo che nessuno sapesse veramente il mio nome finché non sono andato al liceo” – e proprio Pooh lo chiama Joakim Noah, il suo compagno preferito ai Bulls per tanti anni , quando inizia il discorso che è stato chiamato a fare per celebrare la carriera e la vita di Derrick Rose. I corsivi - da qui in avanti - sono tutti suoi. "NON È SOLTANTO UNA STORIA DI SUCCESSO. È UNA STORIA DI SPERANZA. È LA STORIA DI CHI CE L'HA FATTA SUPERANDO MILLE DIFFICOLTÀ" Sembrano frasi di circostanza. Per una volta non lo sono. Proprio la storia di Benji Wilson – di cui Rose al liceo ha ereditato la maglia n°25 – lo insegna. Englewood, il South Side, resta uno dei quartieri più poveri e violenti di una delle metropoli più dure d’America – il tasso del crimine è di 9.5 per 100.000 persone, il doppio che nel resto della città. A Wilson fu fatale una pallottola sparata da un altro ragazzo come lui, Billy Moore, fuori da scuola, per futili motivi. Ed è come se quella pallottola fosse lì a inseguire anche Derrick Rose per tutta la sua vita, fortunatamente senza mai raggiungerlo. C’era Noah quando a fine stagione 2010-11 Rose viene incoronato MVP – Most Valuable Player – della NBA, con i Bulls titolari del miglior record di lega, 62 vittorie e 20 sconfitte, e la testa di serie n°1 ai playoff. Rose che viaggia a 25 punti e quasi 8 assist di media, e dietro di lui Carlos Boozer, Luol Deng e poi proprio Noah, a formare una squadra – e un gruppo – unitissimo. Dentro e fuori dal campo. "ESSERE L’MVP PORTA CON SÉ TANTE RESPONSABILITÀ. IL MODO IN CUI TI SEI SEMPRE COMPORTATO NEL GESTIRE QUESTE RESPONSABILITÀ È CIÒ CHE MI HA SEMPRE ISPIRATO DI PIÙ" Per questo Noah sottolinea l’esempio – e l’ispirazione - dell’uomo Rose, prima ancora del giocatore. Il giocatore è quello che firma ricchi contratti ; l’uomo è quello che non si separa mai da mamma Brenda e dal fratello Reggie, che lo seguono come un’ombra . Il legame familiare è solo specchio di un legame più ampio, ma non per questo meno viscerale, con le sue strade, il suo quartiere, la sua città. Michael Jordan per questa gente è stato dio, la statua fuori dallo United Center è lì a ricordarlo. Ma veniva dal North Carolina . Ancora adesso invece, quando i Bulls entrano in campo - annunciati ieri come oggi sulle note di "Sirius" degli Alan Parsons Project – lo speaker mette un’enfasi tutta particolare nel presentare Ayo Dosunmu, perché il ragazzo è “frooooom Chicago”. Figurarsi cosa accadeva con Rose. "NON SEI SOLTANTO L'MVP, POOH: SEI IL CAMPIONE DI QUESTA GENTE" Kobe Bryant ha finito per impersonificare Los Angeles; ma era di Philadelphia . Reggie Miller è stato la faccia della pallcanestro in Indiana; ma è difficile trovare qualcuno più losangelino di lui. Dirk Nowitzki è stato più Dallas di Pamela e JR; ma veniva da Wurzburg, addirittura in Germania. Tim Duncan era il simbolo di San Antonio; ma era nato in mezzo all’oceano, nelle Isole Vergini. Derrick Rose invece era ed è al 100% di Chicago. Ed è per questo che Noah sceglie con chirurgica precisone le parole che da sempre sono servite a raccontare un altro campione speciale, una leggenda unica, probabilmente inimitabile. Muhammad Ali è e resterà per sempre “the people’s champion”, il campione della gente. Per quello che ha fatto dentro e fuori dal ring. Ma Noah evoca il mito non a caso, perché sa bene cosa significhi Derrick Rose per la gente di Chicago. “LA SPERANZA È UN’EMOZIONE DAVVERO POTENTE E TU L’HAI DATA A TUTTA QUESTA GENTE, OGNI SINGOLO GIORNO. L’HAI DATA AI TUOI COMPAGNI DI SQUADRA, PERCHÉ SAPEVAMO DI AVERE IN CAMPO AL NOSTRO FIANCO IL MIGLIORE. L’HAI DATA A QUESTI TIFOSI, CHE SAPEVANO DI AMMIRARE IL GIOCATORE PIÙ SPETTACOLARE DI TUTTI. L’HAI DATA ALLA TUA CITTÀ, CHE È COSÌ ORGOGLIOSA DI TE” Così orgogliosa da proclamare – su carta intestata firmata dal sindaco, Brandon Johnson – il 4 gennaio 2025 il “Derrick Rose Day”. Non una data a caso. 4.1.25. Quattro, come il numero di maglia indossato nella sua seconda incarnazione newyorchese, con coach Thibodeau in panchina. Uno, come quello di un’intera carriera, ai Bulls ma anche ai Cavs. E venticinque, il numero che aveva Benji Wilson al liceo . “VEDERTI CONCLUDERE QUESTO VIAGGIO IN PACE CON TE STESSO È LA COSA DI CUI SONO PIÙ ORGOGLIOSO” E così come a volte gli scritti minori di un autore non sono meno importanti per coglierne appieno il pensiero, forse proprio le tappe “dimenticate” della carriera di Rose – lontano da Chicago – sono quelle a cui bisogna guardare per capire le ultime parole pronunciate da Noah nel rendere omaggio al suo compagno. “In pace con te stesso”, dice. Perché c’è stato un momento – a Cleveland, era l’inverno del 2017 – che “pace” e “Derrick Rose” non sembravano parole che potessero coesistere. Lontano da Chicago, lontano dai campi , lontano da casa, Rose si perde. Si allontana dalla squadra, fa perdere le tracce di sé mentre lui perde – forse – quel “love of the game” che a Chicago, dai tempi di Jordan, ha un significato speciale. Si dice contempli il ritiro. Qualcuno, allarmato, pensa addirittura contempli altro, un altro quasi indicibile. Quella “responsabilità” che evoca Noah porta con sé una dose, massiccia, di pressione – e Rose sembra finirci schiacciato sotto. Per poi riemergere, quasi a sorpresa forse, quando in tanti lo consideravano già un “ex”. Nel Minnesota, tra tutti i posti possibili. Forse sono gli inverni gelidi e i venti che soffiano un alito ghiacciato sui laghi, come su quello della sua Chicago; forse, più prosaicamente, è Tom Thibodeau, allenatore e uomo vero, lo stesso che lo ha lanciato a Chicago e poi lo ha voluto ancora con sé a New York. C’è lui in panchina ai Timberwolves quando – è la notte di Halloween del 2018 – Derrick Rose scaccia via definitivamente spettri E fantasmi che lo inseguono e torna a essere Derrick Rose: 50 punti, contro gli Utah Jazz e lacrime difficili da dimenticare, di chi sa di essere stato vicino al baratro ma sa anche di averlo lasciato alle spalle. Ora, solo ora, Derrick Rose può tornare a casa. Figlior prodigo. Parabola bella, ma non sempre a lieto fine. Torna nelle sue strade ; torna nella sua scuola ; torna dalla sua squadra, che lo accoglie a braccia aperte, con i compagni di una volta a ricordargli il passato e una dirigenza che guarda al futuro. Alla prossima stagione, quando i Chicago Bulls ritireranno la maglia n°1 di Derrick Rose, che nessuno nella storia della franchigia potrà mai più indossare. “ED È PER QUESTO CHE ALZERANNO LA TUA MAGLIA SUL SOFFITTO DI QUESTA ARENA, FRATELLO” La storia di Derrick Rose finisce qui. O forse no.

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Mauro Bevacqua