65 anni fa la Superga (sfiorata) dei Lakers

Là dove c’era un campo di grano, oggi c’è un altro campo. Di basket. Colorato di gialloviola, gli stessi colori dei Lakers. E non è un caso. Siamo a Carroll, “middle of nowhere” americano, nell’Iowa, paesino che oggi conta diecimila persone, sicuramente di meno 65 anni fa. Perché dobbiamo tornare al 18 gennaio 1960 – 65 anni fa, oggi – per raccontare una storia un po’ dimenticata, e che forse in pochi addirittura conoscono. Una storia che riguarda i Lakers, perché i colori gialloviola di quel playground un caso non lo sono, lo abbiamo detto. “Laker Court” c’è scritto sulla targa posta lì di fianco, all’inaugurazione del campo, nel 2010. Ricorda quello che loro chiamano “The Miracle Cornfield Landing of 1960”. In pratica: il miracoloso atterraggio nel campo di grano del 1960. E cosa è atterrato, in emergenza, su quel campo di grano dell’Iowa 65 anni fa? Un DC-3 partito poco dopo le 20.30 del giorno precedente da St. Louis, Missouri, con a bordo 23 persone tra cui tutta la squadra dei Lakers, che allora si chiamavano ancora Minneapolis Lakers . Avevano giocato – e perso, 135-119 – a St. Louis, contro gli Hawks, nonostante i 43 punti con 20 rimbalzi di Elgin Baylor. Dall’arena all’aeroporto, dove l’aereo della squadra, acquistato solo l’anno prima dal proprietario Bob Short, avrebbe dovuto riportarli a Minneapolis. Il tempo, però, è inclemente, e i due piloti – Vern Ullman, un passato in marina, veterano sia della seconda guerra mondiale che della guerra di Corea, e Harold Gifford, co-pilota – aspettano più di tre ore prima di dare il semaforo verde per la partenza. Appena decollati, a bordo i Lakers tirano fuori il classico mazzo di carte e iniziano a giocare, ma dopo pochissimo – ricorda Elgin Baylor – “si spensero di colpo le luci. Abbiamo pensato a uno scherzo, all’inizio”. Invece no, non era uno scherzo, ma un problema elettrico. Tutta la strumentazione di bordo saltata. Buio anche il pannello di controllo. L’unica cosa che funziona sono i due generatori. Poi neppure più quelli e i due piloti possono affidarsi soltanto a un compasso magnetico, strumento utile sì per orientarsi, ma più nel XVI secolo che nella seconda metà del Novecento. Senza più indicazioni utili sulla tratta, il DC-3 dei Lakers inizia un’odissea spaventosa, peggiorata dal fatto che nel frattempo si è scatenata una bufera di neve e di maltempo. Ullman e Gifford non vedono praticamente nulla, puntano a naso su Minneapolis – teorica destinazione finale – ma dopo cinque ore di volo sono ancora in aria, senza sapere esattamente dove. E, notizia ancora peggiore, il carburante inizia a scarseggiare. “A un certo punto – racconta sempre Elgin Baylor - sentiamo il pilota dire: ‘Sentite, vedo un campo di grano qui sotto: ora provo ad atterrare. Tenetevi pronti’”. Solo che anche atterrare, senza strumentazione di bordo funzionante, non è cosa facilissima. Il vetro della cabina di comando è ghiacciato, i due piloti – il particolare è quasi comico, se non rischiasse d’essere tragico – sono costretti a mettere la testa fuori dal finestrino per provare a vedere qualcosa. Come, “la testa fuori dal finestrino”? Di un aereo? Ebbene sì, il DC-3 non è un velivolo pressurizzato, e Ullman e Gifford le provano tutte per evitare lo schianto. Entrambi sono cresciuti in una fattoria, sanno che i campi di grano sono superfici lisce: niente buche, niente rocce. La fortuna aiuta: l’autunno, in Iowa, era stato particolarmente umido e per questo motivo il grano non era ancora stato raccolto, garantendo una sorta di cuscinetto più morbido per l’atterraggio. È l’una e mezza passata di notte, la luna è piena, la sua luce un po’ aiuta. Il DC-3 tenta l’atterraggio di fortuna, alternative non ce ne sono. La vita di dieci giocatori dei Lakers – tra cui quella di Elgin Baylor, allora 26enne , del loro allenatore Jim Pollard, di quattro bambini , dei tre membri dell’equipaggio e di altre cinque persone dipende da quella manovra. E qui, ancora una volta, la dea bendata viene in soccorso: nella fase finale dell’atterraggio la ruota del carrello posteriore incoccia contro il filo spinato della recinzione del campo di grano, facilitando la decelerazione dell’aereo. Che – miracolosamente – è a terra. “Avrei potuto stare in piedi sul corridoio con un bicchiere d’acqua in mano senza versarne a terra neppure una goccia”, dirà poi Pollard, che aveva esordito sulla panchina dei Lakers solo due settimane prima. Uno alla volta, i giocatori escono sani e salvi dal DC-3 nel mezzo del campo di grano, e cominciano a giocare a palle di neve, quasi increduli. Gli abitanti di Carroll, avvertiti dagli agenti della polizia locali, sono accorsi in massa con le proprie auto ai bordi del campo, i fari accesi, per provare a segnalare una improvvisata pista di atterraggio e per poter facilitare l’evacuazione di tutti i passeggeri nel cuore della notte. Il primo a presentarsi ai giocatori è – macabra coincidenza - il becchino del paese: “Ci spiace, ma non abbiamo lavoro per te”, la laconica frase di introduzione di Baylor. Torna però utile anche lui, che come altri suoi concittadini offre a tutti i giocatori un passaggio in auto in paese. A salire con lui, l’ultimo del gruppo, è coach Pollard: solo a bordo si rende conto di essere su un carro funebre. I Lakers vengono scortati verso un residence per anziani che li può accogliere per la notte, e da lì ognuno cerca di mettersi in contatto telefonicamente con i propri cari, per avvertire del pericolo scampato. Uno dei giocatori, Larry Foust, era conosciuto per non disdegnare qualche bicchierino dopo le partite e per non raccontare sempre tutta la verità sulla vita da atleta in trasferta alla moglie a casa, Joanie. “Abbiamo dovuto atterrare in emergenza in un campo di grano dell’Iowa”, racconta al telefono. “Non lo trovo divertente: richiamami quando non sei sbronzo”, la replica dall’altra parte della cornetta. Foust, per una volta, non era sbronzo, ma l'avventura dei gialloviola era - e resta - così incredibile da non sembrare vera. Lui, Elgin Baylor, coach Jim Pollard e tutti gli altri sono passati alla storia come i "sopravvissuti" a una tragedia che fortunatamente non c'è stata. Se solo potessimo dire lo stesso per Kobe...

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Mauro Bevacqua