La nba nel mezzo del cammino, il bilancio al giro di boa di metà stagione

La materia di cui sono fatte le analisi di metà stagione è a volte sfuggente e spesso volatile. Noi non sappiamo che cosa accadrà domani – e quindi non possiamo sapere che cosa accadrà a partire dalla metà del mese di aprile, quando cominceranno i playoff. Non sappiamo se le certezze di oggi si trasformeranno nei dubbi di domani – e viceversa. Sappiamo, questo sì, che basta un infortunio – anche lieve, anche apparentemente impercettibile - per cambiare ogni cosa. L’effetto farfalla, studiato e descritto da Edward Norton Lorenz, è sempre lì, dietro l’angolo. Si può però osservare la realtà, si può scattare una fotografia, si possono archiviare i dati. E certe cose potrebbero anche durare nel tempo e diventare meno effimere – soprattutto dalla metà di aprile in poi. Non c’è nulla di effimero, per esempio, nella pallacanestro di Shai Gilgeous-Alexander. “È il mio MVP – dice Tommaso Marino – è il leader della squadra migliore della Western Conference e in più difende”. Di spazio per le alternative non ce n’è molto. Si tratta, in pratica, di un plebiscito. Mauro Bevacqua è della sua stessa opinione; Matteo Soragna affronta l’argomento in modo diverso – anche se poi sempre dalle sue parti si finisce per atterrare. “In attacco – dice – Jokic è il giocatore più forte dell’universo, è avanti di un secondo e mezzo e due passaggi rispetto a tutti gli altri, ma globalmente scelgo SGA”. È vero, Oklahoma City nella metà campo offensiva può contare sul talento - sempre sotto controllo - di Gilgeous-Alexander, ma le partite i Thunder cominciano a vincerle strangolandoti in quella difensiva, possesso dopo possesso. Un punto in comune con la squadra-sorpresa dell’anno: gli Houston Rockets. “Non pensavo – prosegue Matteo – che potessero fare ciò che sono riusciti a fare fino a questo momento. In difesa ci mettono tanta, tanta voglia e sono costanti. Sinceramente, non me lo aspettavo. In questo contesto il lavoro di Ime Udoka emerge con grande chiarezza. In attacco sono…grezzi, ma possono migliorare”. “C’è tanto atletismo – aggiunge Bevacqua – e in più c’è quella certa durezza che mettono in mostra sia dal punto di vista fisico sia da quello mentale”. E volendone fare una questione di bellezza? Concetto quanto mai sfuggente – soprattutto perché di una bellezza priva di risultati sono quasi tutti pronti a fare a meno. “I Cavs sono efficaci e belli – commenta Matteo – sono quasi europei nel loro modo di unire esecuzione e condivisione. Una buona parte di tutto questo è dovuta alla maturazione di Donovan Mitchell”, la stella dei Cavs, che “non è Curry o Edwards – come sottolinea Tommaso Marino – perché è un gradino al di sotto di questi due. Proprio quel processo di maturazione lo ha portato a capire di dover dare più spazio a Mobley o Garland”. In tre mesi di regular season troviamo non solo le cose belle, ma anche quelle meno belle. Ci sono le sorprese, le conferme e – come è giusto che sia – le delusioni. Philadelphia e Phoenix fanno parte a pieno titolo di queste ultime, perché, dice Tommaso “Facendo all-in non si vince e non si va da nessuna parte, con l’esclusione dei Toronto Raptors di Kawhi Leonard nel 2019. I Suns – sottolinea –andranno alla deriva. Totalmente. E mi fa male pensare al fatto che Bradley Beal guadagni 50 milioni di dollari a stagione”. Piccola nota a margine – forse non così piccola e non così marginale, ma lo sapremo con certezza solo tra qualche mese. Nella notte italiana tra il 16 e il 17 di gennaio il Paycom Center di Oklahoma City per Cleveland si è trasformato in un patibolo, perché quella tra Thunder e Cavs non è stata una partita di pallacanestro. Cestisticamente, è stata un’esecuzione. Il dominio dei Thunder è stato totale. L’unico aggettivo accostabile a Cavs è annichiliti. Siamo solo a metà del guado, ma è qualcosa: OKC è la squadra più forte e Shai Gilgeous-Alexander è l’MVP. Della prima metà della stagione. Quella che conta, lo sappiamo, è la seconda – playoff compresi.

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