È davvero la fine dei Golden State Warriors per come li conosciamo?

È il 22 novembre 2024 e dopo il primo mese di regular season, a grande sorpresa, Golden State è in testa alla classifica della Western Conference. Non solo, il record raccolto dai ragazzi di coach Steve Kerr nella loro partenza lanciatissima è il terzo migliore di tutta la NBA dietro solo ai Celtics campioni in carica e agli inarrestabili Cavs della nuova gestione targata Kenny Atkinson, curiosamente assistente proprio di Kerr fino a pochi mesi prima. Attorno a uno Steph Curry che sembra viaggiare ancora sull’onda lunga della straordinaria avventura vissuta alle Olimpiadi di Parigi, il nuovo assetto della squadra, che non ha più l’altro Splash Brother Klay Thompson, volato a Dallas dopo una separazione alquanto dolorosa, ma che può contare su un roster molto più profondo rispetto alle stagioni precedenti, pare funzionare a meraviglia. Tra veterani che non sembrano avere alcuna intenzione di imboccare il viale del tramonto, giovani pronti a fare il salto di qualità e role-player dalle caratteristiche perfette per il contesto tattico, insomma, il futuro sorride a Golden State. È con questo spirito che gli Warriors partono per la trasferta di San Antonio, dove la sera successiva confermano quanto di buono, anzi di ottimo fatto vedere fin lì, almeno fino alle fasi finali del 3° quarto. Negli ultimi 14 minuti di gioco, infatti, gli ospiti subiscono un parziale devastante di 40-13 che ribalta l’inerzia della partita e, anche se uscendo dal parquet del Frost Bank Center ancora non lo possono sapere, anche quella della loro stagione. Il rapido declino di Golden State La sconfitta sul campo degli Spurs, in qualche modo, ha aperto sotto i piedi dei giocatori di Kerr una voragine che li ha inghiottiti. Se nel primo mese di regular season gli Warriors erano stati la 3° miglior squadra della NBA, da lì in poi, record alla mano, sono stati la 24° su 30. Un crollo verticale che trova riscontro nei numeri e nelle statistiche, che purtroppo per Golden State parlano chiaro. Tra i giocatori con un minutaggio medio sopra i 20 minuti, solo Curry e Green hanno un plus/minus dal valore positivo significativo, mentre per esempio Dennis Schroeder, unico innesto arrivato da un mercato fin qui caratterizzato più che altro da obiettivi falliti, ha raggranellato un assai poco confortante -7.8. Tuttavia, al di là delle prestazioni dei singoli, è proprio la squadra nel suo complesso ad aver smesso di marciare nella direzione giusta. La rimonta subita da San Antonio ha inaugurato due mesi in cui gli Warriors hanno vinto 9 partite e ne hanno perse 19, ruolino di marcia che rende il record attuale forse sufficiente per candidarsi a un posto al play-in della Western Conference. A causare il tracollo è stato soprattutto l’andamento nella metà campo avversaria, dove l’offensive rating è passato dal 115.7 di media della prima parte di stagione a 108.3 e la percentuale di true shooting, metro abbastanza affidabile della qualità dei tiri presi, è passata dal 59% al 53.9%, terzo peggior dato negli ultimi due mesi di regular season davanti solo ai Magic falcidiati dagli infortuni e a Charlotte. Eppure, l’impostazione tattica di squadra non è cambiata, perché, a riprova dell’approccio collettivo alla manovra offensiva, gli Warriors rimangono secondi per percentuale complessiva di canestri assistiti e sono terzi per triple di media prese a partita , solo che sono dodicesimi per percentuale di realizzazione dalla lunga distanza . In sostanza si può dire che Golden State sia rimasta fedele ai suoi principi di gioco, ma che questi principi di gioco abbiano smesso di produrre risultati dopo il primo mese di regular season. Ed è a quel punto che è riemerso un problema mascherato dalla partenza lanciatissima di Curry e compagni: nelle tre stagioni successive al trionfo del 2022 la squadra non ha mai saputo davvero crearsi, o se si preferisce trovare una nuova identità, così come non ha praticamente mai trovato un modo diverso di vincere le partite rispetto quello conosciuto fin lì. La fine, forse inevitabile, di un ciclo Non sono tanto il sistema di gioco di Golden State e i concetti attorno a cui gira, o dovrebbe girare, ad aver perso efficacia, perché in fondo, seppur con vari distinguo, nel resto della NBA si gioca quasi ovunque una sorta di Warriors-ball di cui l’uso massiccio del tiro da tre e cambi sistematici in difesa rappresentato i cardini, quanto la qualità media degli interpreti chiamati a praticarlo. Forse perché quel sistema ha sempre richiesto e continua a richiedere prima di tutto un QI cestistico di alto livello. E dopo aver beneficiato a lungo della sopraffina comprensione del gioco dei vari Andre Iguodala e Shaun Livingston, giusto per fare i nomi di due giocatori chiave che hanno accompagnato le stelle della squadra nei tanti momenti di gloria, ora il roster offre troppo poco in questo senso. Jonathan Kuminga, ma anche i vari Brandin Podziemski, Trayce Jackson-Davis e Moses Moody non sembrano avere le qualità necessarie per operare all’interno di quel sistema di gioco. Oppure, più probabilmente, avrebbero bisogno di un altro sistema di gioco per esprimere al meglio qualità individuali che sono indubbie. In questo snodo tra le esigenze di un sistema di gioco che tanto ha dato alla causa e quelle dei volti nuovi arrivati sulla Baia nel corso degli ultimi anni rimane incastrata quell’operazione delle due ‘timeline’ tanto sbandierata dalla proprietà in passato, che avrebbe dovuto garantire la continuità ai vertici della NBA e che fin qui, con la clamorosa eccezione del 2022, ha generato solo risultati mediocri. La situazione attuale, d’altronde, è prima di tutto frutto di decisioni che non hanno pagato alcun dividendo, come quella in retrospettiva tragica di scegliere James Wiseman al Draft del 2020 scartando, tra gli altri, futuri All-Star come LaMelo Ball, Tyrese Haliburton e Tyrese Maxey. E l’ultima versione vincente di Golden State, per l’appunto quella che batteva i Celtics alle Finals conquistando il 4° titolo in 8 stagioni, aveva in Thompson, a cui si è rinunciato per motivi sostanzialmente economici, in Kevon Looney, protagonista di un calo fisico impressionante, e nell’apporto di altri veterani come Otto Porter Jr. elementi irrinunciabili. L’assetto attuale, invece, condanna Golden State a una mediocrità che nella Western Conference di oggi basta a malapena per giocarsi un posto al play-in. E questa mediocrità potrebbe protrarsi a lungo, perché Oklahoma City, Houston e Memphis, ora come ora le corazzate dell’Ovest, hanno un’età media che rende difficile non immaginarle in vetta anche nei prossimi anni, per non parlare di squadre dai margini di crescita enormi come gli Spurs di Victor Wembanyama. Per come stanno oggi le cose, quindi, è difficile pensare a degli Warriors davvero competitivi nel breve termine, mentre è sotto gli occhi di tutti come quel ciclo iniziato nel 2014 con l’arrivo in panchina di Kerr, abilissimo nello sbloccare il potenziale di un gruppo che attendeva solo quello e protrattosi fino all’incredibile titolo vinto ormai quasi tre anni fa, sia arrivato alla fine. Forse era inevitabile o forse scelte diverse in fase di mercato e al Draft avrebbero potuto cambiare la traiettoria della squadra. Ad ogni modo, questa stagione sta confermando con una limpidezza mai vista prima che i Golden State Warriors per come li conosciamo non esistono più e che la loro nuova versione tarda ad arrivare.

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Dario Costa