Hubie et orbi: a 91 anni l’ultima parola on-air del guru Brown

La sua risata non ci seppellirà. L’ha già fatto per sei decenni da evangelista del basket, a tutti i livelli: high school, college e professionisti. Due anni e un titolo nella ABA ; 53 in NBA, fra i 13 in panchina e i 35 da analyst su network nazionali – e un record di 18 Finals live – fra USA Network, TNT, CBS e, dal 2004, per oltre 600 partite su ESPN e ABC. La sua ultima, il 9 febbraio 2025, a 91 anni e 137 giorni: Milwaukee-Philadelphia 135-127. Non proprio l’epitome della difesa che tanto gli è cara. Ma là dove per lui, nei pro’, tutto era cominciato: nel 1972, da assistente allenatore ai Bucks neocampioni NBA con Abdul-Jabbar e 'Big O' Robertson. Per dirla con Richard Deitsch di The Athletic, "Quest’uomo ha allenato Kareem e Oscar, allenato contro Kobe e LeBron e commentato le partite di Walton e Wembanyama. La sua carriera ha spaziato da A.I. alla A.I. , la sua voce è stata una colonna sonora costante della NBA per più generazioni". Non vi basta? Allora contestualizziamo meglio. Hubert Jude Brown – classe 1933 di solidissimo ferro pennsylvaniano , ma forgiato sin dai tre anni in New Jersey – ne aveva sei quando James Naismith, che questo giochino l’ha ideato, passò ad altra vita; e due mesi dopo, overseas, scoppiò la Seconda guerra mondiale. E otto quando, all’alba di domenica 7 dicembre 1941, a Pearl Harbor, il conflitto bussò pure a casa USA. Tempi duri, ancor di più da unico figlio di Charlie, "Un uomo esigente" che lavorava nei cantieri navali. Un incipit familiare-esistenziale simile a quello di coach Pat Riley, ma senza i medesimi eccessi motivazionali autobiografici da The Winner Within, tipo immergersi in spogliatoio con la testa nel secchio d’acqua gelata. Ma quanto a durezza, con se stesso e con gli altri, siamo lì. Ai tempi della ABA, vinta con i Kentucky Colonels nel 1975 al suo debutto da head coach, Hubie ha allenato contro una squadra in cui giocava il nonno di Marvin Bagley III, l’ala centro che questo 6 febbraio i Wizards hanno ceduto ai Grizzlies insieme a Johnny Davis e future scelte al draft in uno scambio a tre club che ha coinvolto pure Marcus Smart . Al microfono il top lo ha forse raggiunto commentando – in partita singola – il Double-Nickel di Michael Jordan il 28 marzo 1995 al Madison Square Garden contro i Knicks, alla quinta gara dopo il rientro dai 18 mesi sabbatici nelle minors di baseball, e l’ultima gara di Kobe Bryant. E come intera serie, le Finals 2005, vinte a gara-7 dagli Spurs sui Pistons versione Bad Boys II del suo quasi omonimo Larry Brown. Quelli del basket giocato "In the Right Way", dell’etica lavorativa del "Goin’ to work" quotidiano. Due volte nominato per gli Sports Emmy , nel 2000 ha ricevuto il Curt Gowdy Award per il suo eccezionale contributo al gioco a cui ha dedicato la vita. La stessa motivazione che gli è valsa l’introduzione in ben tre Hall of Fame: quella del basket di Springfield , Massachusetts, quella del College e da commentatore quella della National Sports Media Association . "Make sure you do all of the little things your competitors fail to do". – Hubie Brown A lezione da un marziano E dire che nel destino di Hubie pareva esserci solo l’insegnamento, forse la sua più autentica e profonda vocazione: sì alla lavagna, ma quella tecnica. E soprattutto sul campo. Nei clinic, e più ancora ai camp, il suo vero terreno d’elezione. In particolare, il celeberrimo Five-Star di Howard Garfinkel e Will Klein, nel quale sin dalla prima sessione hanno sdottorato lui e Chuck Daly, quello del back-to-back ai Pistons dei Bad Boys e delle Jordan Rules; e dove Bob Knight ha inventato le teaching stations. Tra gli iscritti di discreto successo ad aver vestito – in oltre 40 anni – l’iconica T-shirt bianco-arancio, prima a Poconos e poi al Robert Morris College: Michael Jordan, Patrick Ewing, Dominique Wilkins, Isiah Thomas, Chris Mullin, LeBron James, Chris Paul, Kevin Durant, Stephen Curry, Carmelo Anthony, Kemba Walker, Tobias Harris, Kyrie Irving, Karl-Anthony Towns e via stelleggiando. Anche l’Italia è stata evangelizzata dal verbo browniano. Commentando su Sky la partita dell’ultima telecronaca di Hubie, Flavio Tranquillo e Davide Pessina hanno parlato, incantati, del suo storico camp al PalaFiera di Forlì "Con Doug Moe, Richie Adubato, Bill Walton, Detlef Schrempf e un promettente 'traduttore' di nome Maurizio Gherardini". Ma dieci anni prima, a un altro suo camp nostrano, era rimasto folgorato un ventenne aspirante allenatore catanese dal radioso futuro. "Ricordo che nel 1979, durante gli Europei di Torino, andai a seguire un clinic di Hubie Brown – ha raccontato Ettore Messina ad Andrea Barocci del Corriere dello Sport il 14 gennaio 2012 – Per due ore parlò di terminologia, e la profondità di quello che stava dicendo mi sembrò roba da marziani". Più sulla Terra, ma sulla stessa falsariga il pensiero di Burke Magnus, content president di ESPN, quando lo scorso novembre a 'SI Media with Jimmy Traina', il podcast di Sports Illustrated, ha annunciato che l’emittente avrebbe concesso al coach un’ultima telecronaca come tributo a una carriera leggendaria: "Non credo esista un altro essere umano che sia rimasto così a lungo nel basket pro’ – ha detto Magnus – Hubie avrà la sua “partita d’addio”. Se lo merita. Abbiamo un’enorme stima di lui. Penso sia assolutamente notevole il livello con cui ancora, a più di 90 anni, commenta le partite... Onoreremo Hubie durante la regular season, e lo saluteremo con stile". Quantomai azzeccato, e per certi versi scontato, che ad affiancarlo per il play-by-play sia poi stata la sua storica prima voce Mike Breen, emozionato quanto e forse vieppiù di Brown, che via via nelle sue peregrinazioni professionali ha lavorato in postazione di commento anche con Mark Jones e Dave Pasch di ESPN e per dieci anni da Mike Tirico, dal 1991 al 2016 a ESPN/ABC e poi alla NBC. Non per niente tutti intervenuti in video durante la sua ultima telecronaca, e non succede spesso che una prima voce – per quanto grandi siano l’ex e l’omaggiato – intervenga alla concorrenza: ma per Hubie questo e altro. Con tanto di reciproci complimenti e ringraziamenti via-social. "È una cosa straordinaria, e non è un’iperbole – ha detto Breen – probabilmente ha insegnato basket a più persone di chiunque altro sia mai vissuto". E quanto a iperboli, quelle non sono mai mancate nel lungo viaggio di Hubie. Una volta, su un airball di Dwight Howard, gli uscì un fulminante " almost missed the arena". Un Hubie-classic. "To me it’s always been about teaching, I really hope that through the coaching and the clinics and television I would enhance your knowledge of basketball". – Hubie Brown Niagara Connection Ne è passato di basket da quando, nel 1967-68, Brown ottenne il suo primo impiego al college, un anno al William & Mary come assistente in due corsi facoltativi di basket, dopo i nove trascorsi fra i banchi dei licei del New Jersey , e prima dei quattro nello staff alla Duke, uno sotto Vic Bubas poi tre con Bucky Waters. Al liceo al mattino insegnava in due corsi: business law e consumer economics; il pomeriggio si triplicava in head coach di basket, assistente e capo nel baseball e assistente nel football. Gli sport praticati da atleta, e il basket pure da pro’ – 18.3 punti di media e tanta difesa – ai Rochester Colonels 1958-59 subito falliti come la Eastern Professional Basketball League, l’antesignana della CBA, poi scomparsa pure quella. Congedato dall’Esercito, Hubie aveva ripreso gli studi per laurearsi in Scienze dell’istruzione. La sua fortuna. Perché sarà grazie alla 'Niagara Connection', e ai legami risalenti ai tempi del college che era iniziata la sua avventura in panchina. E che da una piccola scuola cattolica di 120 ragazzini della St. Mary’s Academy di Little Falls, lo avrebbe portato, in cinquant’anni, alla Hall of Fame. Monsignor William Noonan, il parroco di St. Mary, aveva studiato a The Seminary della 'Our Lady of Angels', una costola della Niagara University. Un suo compagno di classe, e buon amico, era il tesoriere dell’ateneo e questo rendeva facile per padre Noonan, appassionato di pallacanestro, indirizzare i diplomati della St. Mary’s Academy verso Niagara. Anche il viceparroco, padre Joe Halloran, aveva studiato a Niagara e, a volte, aveva giocato contro la varsity in cui militava Brown. E fu così che, il 30 agosto 1955, Hubie fu annunciato come nuovo coach di basket e baseball della St. Mary’s. Playmaker di appena 1.80, Brown aveva chiuso l’anno da senior a 8,3 punti e 3,1 rimbalzi di media e le sue Purple Eagles la stagione a 20-6. Quattro vittorie in meno di quelle che l’anno prima valsero loro il 16° posto nel ranking AP. Più importante ancora era però che Hubie avesse affrontato future superstar NFL come Jim Brown di Syracuse, e giocato insieme con prossime stelle NBA quali Larry Costello e Ed Fleming . Al resto avrebbe pensato la sua incrollabile fede. Anche da allenatore affermato, Hubie avrebbe mantenuto un suo rituale simil-trapattoniano: prima delle partite si accovacciava e tirava fuori non una boccetta di acqua santa ma un pacchettino contenente un ritratto di Gesù e due medagliette cattoliche regalategli dal ferventissimo padre. Inginocchiandosi, Hubie baciava le iconcine sacre e se le rinfilava in tasca. Poi, al tip-off, era pronto ad andare in battaglia. "When I came here to the Milwaukee Bucks and Larry Costello, I received a master’s degree and a doctorate’s degree in basketball in two years". – Hubie Brown, 9 febbraio 2025, a inizio telecronaca di Bucks-Sixers Ma che bel Costello Da giocatore, Lawrence 'Larry' Ronald Costello, newyorkese di Minoa, classe 1931, è passato alla storia NBA come l’ultimo tiratore a due mani dal basso verso l’alto. Vi sovviene un certo Rick Barry? Sì, ma il diversamente simpatico 'Miami Greyhound' da sotto tirava i liberi, mica su azione come invece il nostro: una guardietta di 1.84 per 85 kg uscita da quel piccolo college cattolico con 15,2 punti a partita in tre stagioni da titolare. Brown alle Purple Eagles, oltre a Costello e Fleming, è in squadra con Frank Layden, suo compagno di stanza e futuro Coach of the Year NBA nell’84 agli Utah Jazz. Quanto a pane cestistico e fondamentali alla torta di mele, quindi, in quello spogliatoio – per i tre pupilli di 'Gentleman Coach' John J. 'Taps' Gallagher c’era di che saziarsi. Non per niente la squadra del 1953-54 è ritenuta la migliore nella storia dell’ateneo: in quintetto, con Costello, partono Charlie Hoxie, poi stella degli Harlem Globetrotters, Baltico 'Bo' Erias, Ed Fleming e Jim McConnell. Tutti poi scelti al draft NBA, sulla scia della cavalcata-record d’istituto che li portò alla Final Four e al terzo posto al NIT , ai tempi più prestigioso del Torneo NCAA. Costello approda agli Philadelphia Warriors come terza pick al secondo giro nel 1954, la 12ª assoluta, ma fino al termine della stagione 1955-56 è militare. Brown, che da giocatore non aveva la classe degli altri, sarà quello che farà più strada. Ma tolto il biennio in ABA ai Kentucky Colonels, non avrà mai una vera squadra da titolo. "The NBA was scripted. It was a symphony. The ABA was jazz" – Hubie Brown Il regime dei Colonels In Loose Balls, testo sacro di quella pazza lega vergato nel 1990 da Terry Pluto, Hubie di quello squadrone ricorda: "Quando giro il Paese a tenere seminari per allenatori e la gente mi chiede quale sia la migliore squadra che io abbia allenato, rispondo: “Di gran lunga i Kentucky Colonels del 1975”. Allora metà del pubblico mi guarda come se stessi parlando di roba venuta dallo spazio. Avevamo una front line con Dan Issel, Artis Gilmore e Wil Jones. Issel e Gilmore hanno poi avuto carriere eccezionali anche nella NBA. Ragazzi che giocavano sempre. Nel backcourt avevamo Louie Dampier e Teddy 'Hound Dog' McClain. La gente mi chiede: “Chi?” E io gli dico che Louie Dampier è stato il miglior giocatore 'da clutch' che io abbia mai visto. Era fenomenale quando si trattava di prendersi – e segnare – il tiro decisivo. Negli ultimi due anni della ABA, pensate agli altri lunghi che c’erano: Julius Erving, George McGinnis, David Thompson, Bobby Jones, George Gervin, Larry Kenon, Caldwell Jones, Maurice Lucas, Marvin Barnes, Danny Roundfield, Billy Knight, Moses Malone. Sto parlando di grandi talenti, migliori di quelli della NBA. La ABA ha dato una chance anche a Doug Moe, Connie Hawkins e Roger Brown, che dalla NBA erano stati radiati e che poi hanno avuto comunque una straordinaria carriera. Eravamo più avanti rispetto alla NBA, e in tanti aspetti. Avevamo il tiro da tre. La NBA diceva che era solo un espediente; ora è una delle caratteristiche più entusiasmanti nel basket pro’. Usavamo pressing e trap defense, cose mai viste prima nella NBA. Avevamo gli All-Star Weekend, la gare delle schiacciate e persino i migliori arbitri, perché dalla NBA avevamo preso John Vanak, Jack Madden, Norm Drucker e Ed Rush. Sul finire della ABA l’arbitraggio era come i suoi giocatori: c’era un’incredibile quantità di talento, semplicemente sbalorditivo. E nessuno lo sapeva. Gli arbitri erano un segreto persino più grande di quello sui giocatori. Tutto quello che facevamo nella ABA lo fanno ora nella NBA, a parte il nostro pallone biancorossoblù". Al primo anno da head coach, Brown – con cinque acquisti: Ted McClain, Gene Littles, Bird Averitt, Wil Jones e Marv Roberts – vince subito il campionato. "Quando ho ottenuto il posto, sapevo che la pressione era enorme per vincere tutto. La città, la dirigenza e i giocatori erano abituati a vincere e si aspettavano di vincere. Quello che dovevamo fare era trovare la giusta alchimia, quella scintilla che porta una buona squadra da regular season a superare le situazioni più difficili nei playoff. La prima cosa che feci fu assumere come mio assistente Stan Albeck. Non avevo mai parlato con lui prima che mi telefonasse per chiedermelo. Era stato vice a Denver e di Wilt Chamberlain a San Diego. Ci incontrammo in un hotel vicino all’aeroporto O’Hare di Chicago, ci sedemmo in piscina e parlammo per ore. Avevo in mente altri candidati, ma dopo averlo ascoltato sapevo che avevo bisogno di qualcuno che conoscesse la ABA. Stan era un ottimo scout e credeva nel mio sistema, pieno di schemi e di statistiche. Era tranquillo, mentre io ero intenso. Eravamo una buona combinazione". "Hubie è un uomo molto intenso la cui felicità ruota tutta intorno alla vittoria. Per lui è tutto. La NBA è una guerra e non si può vincere in guanti bianchi". – Tom McMillen, ala/centro Atlanta Hawks 1977-83 Quei Colonels, con 101.6 punti concessi a partita, avevano la miglior difesa della lega. Chiusero a 58-26 e vinsero 22 delle ultime 25 gare. Nei playoff batterono – tutte per 4-1 – Memphis, St. Louis e Indiana. E in casa, postseason compresa, finirono a 49-3. E che sarebbe stata una cavalcata trionfale si intuì già il 13 novembre quando batterono in rimonta New York dopo essere stati sotto di sette punti a 30 secondi dalla fine. Là, scattò un click. "Per me, una statistica fondamentale è il differenziale-punti. Se segni una media di 100 punti e ne concedi 100, vincerai la metà delle tue partite. Se il differenziale di punti è di tre – ne segni 103 e ne subisci 100 – avrai ottime possibilità di vincere 50 gare. Vuoi vincerne 55? Allora segna 105 punti e subiscine 100. Una squadra con un differenziale-punti pari a cinque vincerà almeno 50 partite. Puoi scolpirlo su pietra. A fine stagione, il nostro differenziale di punti era di sette: 109 a 102. È un dato astronomico. Roba da campioni. E nelle ultime 25 partite, di cui 22 vinte, abbiamo subìto in media 108 punti e ne abbiamo concessi 92, il che è fuori scala. Ma non parlai di differenziale-punti al training camp dei Colonels. I ragazzi avevano già abbastanza di cui preoccuparsi con la difesa che gli chiedevamo. Stavo anche cercando di sviluppare due quintetti completi per poter ruotare dieci uomini. Mi piaceva che il primo giocasse 32 minuti a partita, e il secondo ne giocava 16. Ho fatto un’eccezione con Artis Gilmore, che ne giocava 39. Artis ci serviva in campo. La chiave per allenare nel professionismo è rendere felici dieci giocatori anziché otto. Perché un giocatore sia felice, ha bisogno di minuti. Gran parte delle squadre utilizzava solo otto giocatori a partita, ma la chiave è vincere con dieci. Se si gioca in dieci, si può la difesa-press, che nasconde i punti deboli di un giocatore. Se si marca a uomo, l’avversario può scegliere un giocatore da puntare. In una difesa-press, in cui tutti si muovono e ti raddoppiano, è più difficile trovare il giocatore 'debole'. Quindi dissi ai ragazzi che avremmo impiegato dieci di loro, il che significava che in dieci avrebbero contribuito a vincere il campionato". Il volo spezzato dei Falchi Nel 1975-76, gli Hawks avevano toccato il fondo: 29-53, il 35,4% di vittorie, la loro peggior annata da quando la franchigia era ancora a Milwaukee. Bisognava ricostruire, e chi meglio di coach Brown – rimasto a piedi dopo il fallimento dei Colonels e della ABA – e una batteria di giovani da plasmare? Atlanta cedette allora Lou Hudson, veterano di 11 stagioni ma con la schiena così malandata da fargli saltare gran parte dell’annata 1976-77. E a gennaio fu acquisita dal magnate dei media Ted Turner, già proprietario in città dei Braves di baseball, e da noi meglio noto come marito di Jane Fonda nonché fondatore dell’impero televisivo TNT. Postilla non da poco nella successiva carriera via-cavo di Hubie . La politica dei giovani – e un roster tutto sotto i 28 anni – ripaga già dal secondo anno. La squadra torna al 50% di vittorie e in quintetto schiera Charlie Criss e Armand Hill guardie, John Drew e John Brown ali e al centro Steve Hawes, con il 2,14 'Tree' Rollins come backup. Brown vince così nel 1978 il primo dei suoi due premi di Coach of the Year, ma Atlanta esce subito contro gli Washington Bullets, poi campioni battendo i Seattle SuperSonics, che si prenderanno la rivincita nelle Finals successive. Ed è in quella stagione che gli Hawks – terzi a 46-36 nella Central Division – più migliorano. Rollins, da titolare, rifila un totale di 254 stoppate. Eddie Johnson, rookie uscito da Auburn, da guardia di appena 1.87 aggiunge 16 punti a partita. L’esperienza la porta Dan Roundfield, free agent da Indiana. In postseason Atlanta spazza via i Rockets, prima di arrendersi in sette gare ai rivalissimi Bullets in semifinale a Est. L’anno dopo, con identici roster e coach, a 50-32 arriva il titolo della Central. Il trio Drew-Roundfield-Johnson referta di media 54,5 punti a partita, e figura in toto all’All-Star Game. Le stoppate di Rollins calano a 244, ma 'l’Albero' è pure il capofila di lega nelle uscite per falli, mentre il quintetto-base la guida per falli personali . Statistiche che la dicono lunga sull’enfasi di coach Brown per la dura difesa. E che spiegano bene le sue parole nel ricevere in dono dagli arbitri il pallone di Bucks-Sixers, la sua ultima telecronaca: "Ero in testa al campionato per numero di falli tecnici ogni anno, e voi davvero mi fate un regalo?". Hubie in purezza. Non sorprendono invece il rispetto, persino la ossequiosa riverenza, che traspaiono in quel "Sir" dai giocatori nel salutarlo prima della palla a due. E tantomeno la standing ovation che il Fiserv Forum gli riserva al primo timeout, sul 12-12 a -7’26” dalla fine del primo quarto, con pure la torta portatagli da Bango, la mascotte dei Bucks. E tantomeno la programmazione 'dedicata' che ne accompagna la telecronaca. Un matinée dei Sixers nel giorno mediaticamente cannibalizzato dal Super Bowl LIX, poi vinto in prime time a New Orleans dai Philadelphia Eagles 40-22 sui Kansas City Chiefs a caccia del Threepeat: solo Hubie poteva riuscirci. "I used to lead the league in technicals every year, and you’re actually giving me a present?" – Hubie Brown Tornando a quei playoff, solita solfa: 4-1 dai Sixers di Maurice Cheeks, Darryl Dawkins e il 'Doc' Erving, la sua eterna nemesi. La cavalcata in regular season sembrava la rampa di lancio, invece per quegli Hawks sarà il canto del cigno. Nell’81 il 31-51 costerà il posto a Brown, cui nel finale di stagione subentrerà ad interim il suo storico vice, Mike Fratello, che chiuderà a 3-0 prima di ridiventare assistente ma di Kevin Loughery. Fratello poi tornerà vice di Brown ai Knicks nell’82-83 e poi proprio ad Atlanta, stavolta da capoallenatore, per sette stagioni. New York, New York Il 1981 fu l’ultimo grande anno di Red Holzman ai Knicks, l’allenatore dei due titoli in tre Finals dal 1970 al 1973. I suoi Knicks chiusero a 50-32 la regular season ma poi uscirono al primo turno contro i Bulls. In estate Ray Williams saltò da free agent l’Hudson River per sbarcare ai Nets, e nel 1982 New York precipitò all’ultimo posto a 33-49. Il tempo del passing style offense di Holzman era finito, e con esso il suo secondo mandato newyorkese. In tutta probabilità, il buon Red era rimasto al timone un anno di troppo. Chiamato a succedergli per 225.000 dollari annui, ai tempi bella somma, Brown introdusse un attacco 'lento', costruito attorno al brooklyniano Bernard King, straordinaria macchina da punti arrivata da Golden State in cambio di Michael Ray Richardson. Sì, il meravigliosamente problematico 'Sugar' che dopo essersi divorato la Grande Mela con Campy Russell e lo stesso Williams avrebbe poi stregato la Bologna bianconera, Livorno e Forlì. Purtroppo per Brown, anche King covava simili demoni. Ma una volta 'ripulito', ci si misero le ginocchia e nel 1983 il gran Bernard, a 21,9 punti di media, ci fu solo in 68 partite. Quando c’era, però, con le guardie Rory Sparrow e Paul Westphal a servire in post basso lui o Bill Cartwright, e 'Truck' Robinson a tirar già rimbalzi, al Garden si suonava tutt’altra musica. Superata una partenza così così, Brown trovò la quadra, i Knicks ne vinsero 27 su 38 e chiusero a 44-38. Nei playoff, 3-0 ai Nets nel derby e poi cappotto cucito su misura dai Sixers del 'solito' incubo Erving e futuri campioni contro i Lakers. De nuevo tu: quello della “No Dunks for Doc Rule” ai tempi dei Colonels nella ABA. Il 1984 fu l’anno della grande illusione. Darrell Walker, nominato nell’All-Rookie Team, aggiunse difesa e l’attacco 'metodico' di Brown portò King al quinto posto fra i marcatori , oltre al platonico Sporting News Player of the Year votato dai giocatori. In postseason, un Bernard in grazia divina quarantellò e oltre in quattro partite sui malcapitati Pistons. Ma poi, in semifinale a Est, la spuntarono in sette i Celtics di Larry Bird poi campioni loro pure sui Lakers di Magic Johnson. L’età del simil-oro di Brown ai Knicks finì lì. Gli infortuni gli dimezzarono le 47 vittorie del 1984 alle 24 del 1985. King, per i cronici guai alle ginocchia, saltò 27 gare, 'Medical Bill' Cartwright e Marvin 'The Eraser' Webster l’intera stagione. Bernard farà in tempo a stabilire un record di franchigia mettendone 60 a Natale ai Nets. Trent Tucker, col suo 40,3% da tre, provava a solleticare il finissimo palato del Garden, che però nel finale di stagione cominciava a tifare contro i suoi stessi Knicks: il tanking era ancora una cosa che si fa ma non si dice. E il bigliettone dell’incombente lottery al draft era un certo Patrick Ewing. Il giemme Dave DeBusschere, ala cruciale nei due titoli da giocatore, pesca con la numero uno assoluta il giamaicano uscito da quella fucina di centroni chiamata Georgetown. E si autorizzano sogni di gloria, ma non andrà proprio così. Le ginocchia limitano Pat a 32 apparizioni, Cartwright si vede per due, King mai. In molti, sbagliando, pensano che la carriera di Bernard sia compromessa. Di sicuro lo è, di fatto, il futuro di Brown a New York. Ewing alla fine sarà Rookie of the Year, e i Knicks dell’86 la miglior squadra difensiva: un ossimoro chiudendo a 23-59 . Il destino di Hubie era segnato. E tempo 16 gare della campagna 1986-87, con la squadra ultima a 4-12 nonostante il rientro di King , il 1° dicembre Brown viene rimpiazzato col suo vice, Bob Hill, poi meteora virtussina da 18-12 nel 1988-89. Hill porterà altre 20 vittorie, troppo poche per la conferma sua e di DeBusschere, sostituito con Scotty Sterling che prima di lasciare la scrivania ad Al Bianchi firmerà nientemeno che coach Rick Pitino, un altro dei super ex assistenti di Brown. La storia dirà poi che non era Hubie il problema. Pitino e Bianchi, come David 'Sonny' Werblin e Willis Reed prima di loro, non legheranno mai. E su quella panca, per quanto prestigiosa, Pitino durerà due anni prima di tornare all’amato college basketball, salvo poi ricascarci ai Celtics e infine tornare là dove più appartiene. Overcoaching, questo conosciuto A quel periodo in tanti fanno risalire l’inizio dell’èra dell’overcoaching. Dopo il gran lavoro svolto nei playoff 1981 da Bill Fitch campione con Boston e da Cotton Fitzsimmons finalista a Ovest coi Kings sconfitti dai Rockets, era esplosa la mania dei coach invasati che scribacchiavano schemi alla lavagnetta in favor di telecamera, passavano nottatacce ai video, assumevano pletore di assistenti e, scrive Bill Simmons in The Book of Basketball, "pontificavano di basket come degli Henry David Thoreau". Quello del trascendentalismo di Walden ovvero Vita nei boschi, se non fosse chiaro il riferimento al precursore dell’ambientalismo e della nonviolenza pluri-citato nel film L’attimo fuggente. Quell’epoca, aggiunge Simmons, "Culminò con Brown ingaggiato dai Knicks e ha aperto la via ai 50 milioni di dollari per Pitino a Boston e gli almeno 375 assistenti assunti da Avery Johnson ai Mavericks nella stagione 2007-08". Correttamente, però, l’autore ricorda come quella stessa new wave di rampanti allenatori rese le difese così sofisticate da indurre la lega a introdurre, proprio dal 1981 e col dichiarato intento di aprire l’area , la regola della illegal defense. Quanto al Pitino newyorkese, vista la gioventù del roster – Ewing, una matricola brooklyniana come Mark Jackson in regia, Gerald Wilkins e Kenny Walker – sapeva che velocità, entusiasmo e fondo gli avrebbero portato più vittorie. E così soppiantò il gioco lento, e l’attacco a difesa schierata, di Brown con un running game e la difesa press a tutto campo, più consoni a quel roster. Ma come non lo era Hubie, non era Pitino il problema. Lo erano – e lo sono – i Knicks. "Hubie Brown has turned this team around". – Lorenzen Wright, centro Memphis Grizzlies 2001-06 Hubieball, il primo GritNGrind di Memphis La Gen Z non può ricordarsene, ma c’è stato un tempo, a Memphis, in cui i Grizzlies, prima del GritNGrind, erano quelli dell’HubieBall. Nel 2003-04 li portò lui a 50-32 e alla storica prima volta della franchigia ai playoff. Impresa – perché tale fu – premiata con il Coach of the Year Award, il secondo della sua carriera, a 71 anni e a 26 dal primo. Due record quasi impossibili anche solo da avvicinare. Di allenare – e di alzare seggioline alla Mondonico contro gli arbitri – Brown aveva già smesso da sedici anni quando, nel novembre 2002, il presidente dei Grizzlies, Jerry West, lo convinse a tornare in panchina. Fiutato l’andazzo 'Mr. Logo', uno che di strisce-record se ne intendeva , aveva esonerato coach Sidney Lowe per lo 0-8 di partenza-horror e al capezzale del malato tutt’altro che immaginario aveva chiamato il vecchio guru per sfruttarne lo scibile cestistico . Sarà stata l’età, ma ai Grizzlies del giovane Pau Gasol si è visto un Brown più disponibile e rilassato, persino con i tifosi. Durante il training camp alla Pyramid, gran parte di un allenamento aperto al pubblico il coach lo passò rivolto verso la folla, spiegandole le esercitazioni che la squadra stava eseguendo. Comprese quelle che riproducevano l’attacco in transizione, in cui i giocatori dovevano correre in determinati punti per avviare le diverse azioni. A detta degli astanti, fu come assistere a una lezione universitaria di basket. Tenuta da un sommo evangelista del gioco. L’idillio però durò poco, e all’inizio della nuova stagione, sul 5-7, fu sostituito ad interim con Lionel Hollins e poi con Mike Fratello , già suo storico vice e non per niente detto 'il piccolo Hubie'. Ormai prossimo ai 72 anni – cedendo al canto della sirena ESPN – mai avrebbe pensato che sarebbe tornato al microfono, figuriamoci di restarci per altri venti. Gli ultimi due però troppo duri anche per lui. Il fato prima gli ha portato via la più piccola delle tre figlie, Julie, a 57 anni. Poi, il 7 giugno 2024, dopo 63 anni di matrimonio e da cinque affetta da demenza senile, la moglie Claire, di 87. "Diceva sempre la stessa cosa quando passavamo da un’high school all’altra, da un college all’altro e poi nei pro’: “Proviamo”. Non ha mai detto di no", il suo struggente ricordo della propria compagna di vita. E infine, il 3 novembre, per complicanze post-infarto a 54 anni, il figlio Brendan. Dopo sei stagioni per i Grizzlies, prima da scout poi da assistente nello staff del padre, Brendan era stato per due anni regional advance scout dei Knicks e dal 2008 era entrato come analyst nel gruppo MSG Radio Network on ESPN. Subentrato a tempo pieno dal 2012 al leggendario John Andraiese, in dieci anni aveva fatto coppia al microfono con Spero Dedes, Mike Crispino e infine Ed Cohen. Nel gennaio 2023 il recesso consensuale del contratto per una oscura storia di molestie. A basketball brainiac: o con lui o contro Siccome su Insider non si stampano santini, e il primo a rifuggirli sarebbe proprio Hubie, va detto che il basketball brainiac – The Professor of Basketball o The Einstein of Hoops – non è mai stato un tipino facile. Soprattutto da allenatore, e con i suoi ex o futuri colleghi dei media. Quanto a X e O, forse il migliore. Un genio, nell’analisi e come didattico . Purché la si pensasse come lui. Tra i suiveur, in particolare, gli schieramenti erano netti, e il territorio ben marcato: o con o contro di me. Esemplare, ai tempi di Atlanta, il modo in cui i due principali quotidiani cittadini trattavano la squadra. Darrell Simmons, del Journal, era, secondo il coach, "Bravo a scrivere, un ottimo giornalista, un uomo che capisce di basket". George Cunningham, del Constitution, era invece "Un uomo davvero malato che vuole distruggere il basket professionistico ad Atlanta. È la minaccia più pericolosa per la nostra squadra". Steve Oney, in un articolo del 9 dicembre 1979 uscito sull’Atlanta Journal & Constitution Magazine, scrive: "A settembre, durante un meeting fra finanziatori della società all’hotel Hilton di Atlanta, Brown si è lanciato in una lunga diatriba contro Cunningham, accusando il giornalista di “cercare di rovinarci”. I pezzi di Cunningham sugli Hawks evidenziano spesso le giocate di John Drew e Terry Furlow, i marcatori della squadra più esplosivi e i due giocatori che Brown cavalca di più durante gli allenamenti. Simmons di solito scrive di "sforzo profuso di squadra". Cunningham non cita quasi mai Brown, mentre Simmons lo fa ampiamente. Cunningham controbatte così ai rilievi di Brown: "Hubie è un grande allenatore, ma è un tale orribile egocentrico che non sopporta alcuna critica né che qualcun altro si faccia pubblicità. Il motivo per cui mi detesta è che in città sono io l’unica voce mediatica che lo critica. Gli altri potrebbero pure essere a libro paga degli Hawks: seguono la linea del partito". Ma l’impulso di Brown a dominare, specie nei rapporti con i media, si esercitava di più dal vivo. Le sue conferenze stampa erano simili ad apparizioni papali. Dopo una partita, entrava in sala stampa tenendo in mano una birra, mentre guardava in silenzio la moltitudine di cronisti che attendevano sue notizie o commenti sulla squadra. Dopo averli fissati per un po’, emetteva un perfetto resoconto della gara, corredato di statistiche spesso ai più criptiche. E concluso un discorso che poteva durare anche dieci minuti, stampato come da un computer grazie a una prodigiosa memoria fotografica capace di immagazzinare ogni dettaglio, ecco implacabile il monito: "Ora non voglio domande stupide". E se qualche inviato, sprezzante del pericolo, ci provava comunque veniva rimbalzato con un definitivo "Se aveste mai visto una partita di basket pro’, non fareste queste domande". Quanto al lato umano, diciamo che il Brown maturo è molto migliorato rispetto al giovane favoloso sé allenatore. "Hubie Brown è un governatore in esilio, come un George Allen nel football", spiega su Sports Illustrated del 24 maggio 1982 Bob Ryan, veterano beatwriter dei Celtics per il Boston Globe. "Solo che Allen i giocatori coccola, Hubie li prende a calci in c... È l’ultimo degli hamiltoniani. Al contrario dei jeffersoniani, dà per scontato che tu sia un cane finché non gli dimostri il contrario". Oro vs lavoro: mai così attuale il conflitto tra plutocrazia e democrazia, di qua e di là dell'Atlantico. Tom McMillen, borsa di studio Rhodes a Maryland e visto alla Virtus Bologna 1974-75 prima di buttarsi in politica dopo dieci anni di NBA, agli Hawks era il centro di riserva. E del suo coach diceva: "Hubie è un uomo molto intenso la cui felicità ruota tutta intorno alla vittoria. Per lui è tutto. Ha capito che l’NBA è una guerra, e non la si può vincere in guanti bianchi. Per trionfare deve essere autocratico. Nella lega ci sono tanti giocatori così egocentrici che mai e poi mai potrebbero giocare per lui. Ci si scontrerebbero. Ma io lo rispetto molto per ciò che ha fatto. Il suo sistema, per quanto rigido, è giusto e funziona. Per come l’ha impostato, tutti noi veniamo premiati per il nostro impegno. Gioca con dieci di noi ogni quarto e tutti abbiamo i nostri buoni tiri. La cosa difficile è che perdere è un tale dramma per Hubie che fa di tutto per rendere infelici anche noi. Non vuole che ci abituiamo a perdere. Non lo biasimo, ma a volte è dura". "One of the most common problems in our society is unsuccessful people with great potential" – Hubie Brown Il segreto del suo successo Prepararsi. Sembra banale, ma il segreto – anche del meritato rispetto – è tutto lì. E poi, doti innate – il colpo d’occhio, il QI cestistico, la visione di gioco – e qualità invece apprese e affinate nel saper leggere una partita come un Capello dei parquet, e raccontarla con neologismi e perifrasi da Brera dei canestri; o la capacità di azzeccare il 99% delle volte la valutazione corretta, e prima ancora d’aver visto il replay . Quel che più è sempre piaciuto, delle sue telecronache, al di là della competenza, è il suo non cadere nel passatismo, nel vizio comune a tanti ex che "ai nostri tempi si faceva così". Hubie era uno dei rari commentatori anziani che non parlava di come le cose erano una volta, né si lamentava di come sono oggi. Si godeva il basket com’è ora. E ne parlava come se la nostra fosse anche la sua èra. Perché lo è stata. Fino al 9 febbraio. In più, commentava ragionando da allenatore, senza risultare noioso: "Now if you’re Phil Jackson...", oppure "If you’re the Chicago Bulls you want...". Lui, in panchina, avrebbe fatto così o cosà. E ti diceva pure il perché. Da coach dei Knicks magari faceva impazzire i tifosi schierando tutta insieme la second unit. Ma poi ti scioglievi quando ti spiegava che ogni grande tiratore sa far canestro da cinque posizioni su sette, e tutti gli altri solo da tre su sette. In tv non ti diceva l’ovvio: cioè quello che anche gli spettatori vedono. Non cercava di fare battute né di intrattenere il pubblico. Parlava di basket. Elogiava le buone giocate e non stroncava i giocatori. Li criticava, e spiegava come potessero o dovessero migliorare. Raccontava cosa non aveva funzionato e come correggerla. Un capitolo a parte merita invece tutta una serie di termini ed espressioni gergali da lui coniati: low hole per post basso, rub off per blocco, “rotazione difensiva” per movimento verso la palla in aiuto in difesa. E lo stesso dicasi per i concetti. Un esempio d’antan rende l’idea. Parlando del "leveling off" di Maurice Cheeks, play di Philadelphia, su Tiny Archibald di Boston che "broke the circle", in una gara-2 di playoff fra Sixers e Celtics, non solo il colto ma anche l’inclita coglievano la vivida descrizione di uno che rientra in difesa in tempo per fermare un contropiede. A volte "va troppo sul tecnico", ammetteva Al Albert, suo partner abituale a USA network. "Ma sul canale via-cavo si ha un pubblico sportivo esperto, ed è fantastico. A Hubie piace sottolineare come le telecronache del football siano tutte così tecniche e come la gente ami ascoltare quanto quel gioco sia scientifico. Perché l’analisi del basket non può essere fatta allo stesso modo?". Non è un caso, infatti, che il primo lavoro da color analyst Brown lo abbia svolto nel football, ai tempi di Atlanta, come radiocronista dei Falcons per il Mutual Broadcasting System. Ed è là che ha imparato la difficile arte della sintesi. "Hai dai cinque agli otto secondi per cogliere un’azione, essere logico e lasciare un concetto – spiegava – Inoltre, volevano pure che ci mettessi un po’ di senso dell’umorismo". Per anni, la mattina dopo ogni trasmissione, Hubie telefonava a un vecchio amico di Charleston, nel South Carolina, tale Fred Daniels di professione amministratore universitario, per un riscontro di come gli era sembrata la telecronaca. Il primo lavoro in tv invece glielo propose Eddie Doucette, che faceva il play-by-play per i Milwaukee Bucks. "La mia prima esperienza in televisione. mi chiamò per dirmi: “Ti andrebbe di fare la prima partita con Al Albert?”. “Non ho esperienza”, risposi. E lui mi offrì il posto. È così che ho iniziato". Sfoggiando un’improbabile perm, come di moda ai tempi. Jack Sikma e Mike Fratello, fra gli altri sommi epigoni. "Guardate quella foto. Non avrei mai pensato di avere dei capelli così. Al terzo anno di liceo li portavo a spazzola. Li ho lasciati crescere per la tv". Già ci manchi, Coach. Perché, direbbe Stewart Scott, "Hubie è fresco come l’altro lato del cuscino".

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Hubie et orbi: a 91 anni l’ultima parola on-air del guru Brown

Christian Giordano