Diana Taurasi si ritira, il suo nome è leggenda

In un quarto di secolo vissuto nel basket al massimo livello su entrambe le sponde dell’Atlantico, Diana Taurasi non ha mai fatto nulla per attirarsi le simpatie di media, allenatori, colleghe, colleghi e tifoserie che non fossero quelle delle squadre in cui ha militato. Anzi, nel corso della vasta esperienza maturata tra college, WNBA ed Europa sono state decisamente più frequenti le occasioni in cui ha litigato, provocato, preso in giro e, non di rado, insultato chi si frapponeva tra lei e l’unica cosa che, da quando era poco più che una ragazzina alla Don Antonio Lugo High School di Chino, California, è rimasta al centro delle sue ossessioni: la vittoria. È stata lei stessa, d’altronde, a definirsi a più riprese “una str**za gentile”, senza sentire il bisogno di giustificarsi per questo o di aggiungere altre spiegazioni. Tutto quello che Taurasi aveva da dire e da dimostrare, l’ha sempre detto e dimostrato sul campo da basket, uno sport a cui ha dedicato tutta sé stessa con una intensità e una costanza che trovano pochi paragoni nello sport contemporaneo. Proprio quel basket a cui, pochi giorni fa, Diana ha deciso di dire addio. Un addio arrivato tramite un'intervista concessa alla rivista ‘Time’, nella quale Taurasi si è detta convinta che fosse arrivato il momento di fermare quella palla che le rimbalzava tra le mani e il parquet fin da bambina. “Fisicamente e mentalmente mi sento piena e felice” ha dichiarato Taurasi a ‘Time’, scrivendo la parola fine a un’avventura lunga e piena di momenti e traguardi straordinari. Venticinque anni durante i quali lei ha scritto la storia del basket e in cui il basket, soprattutto quello femminile, ha compiuto un balzo incredibile. Reggendosi in buona parte sulle spalle larghissime di Diana. NOI ABBIAMO DIANA, GLI ALTRI NO Figlia di madre argentina e di padre originario dell’Irpinia ma emigrato in Sud America, ci sono due caratteristiche che contraddistinguono Taurasi fin dagli esordi sui parquet: la sconfinata fiducia nei propri mezzi e la pressoché totale assenza di qualsiasi tipo di timore reverenziale. Si tratta di una combinazione micidiale, che colpisce subito Geno Auriemma, altro emigrato irpino e capo allenatore a UConn. Quando Taurasi arriva a vestire la maglia delle Huskies nell’estate del 2000, Auriemma è già uno dei coach più affermati del basket universitario americano, ma Diana non si dimostra più di tanto impressionata e instaura con lui un dialogo quantomeno alla pari. In teoria, le regole del college basketball non ammetterebbero questo tipo di rapporto, ma Auriemma capisce al volo che il talento e la personalità di Taurasi hanno bisogno di potersi esprimere a briglie sciolte. Non a caso arrivano tre titoli NCAA in quattro anni, un dominio le cui ragioni sarà il coach stesso a riassumere così: “Noi abbiamo Diana, gli altri no”. Una frase, quella di Auriemma, che potrebbe valere tranquillamente anche per il resto della carriera di Taurasi, in cui la bacheca, oltre che di una serie di premi individuali, si riempirà ulteriormente con tre titoli WNBA, sei Euroleghe, sette campionati russi e diversi altri trofei. Una carriera da professionista lunga oltre vent’anni durante la quale Taurasi ha accompagnato il basket femminile nel suo percorso di crescita, arrivato ora forse nella sua fase decisiva. Quando veniva chiamata dalle Phoenix Mercury, la sua unica squadra in WNBA, con la primissima scelta al Draft del 2004, Taurasi si vedeva proporre un contratto annuale poco sotto i 41.000 dollari lordi. Stipendio che negli anni sarebbe cresciuto, ma che non le avrebbe mai consentito di rinunciare a offerte ben più ricche in arrivo da Russia e Turchia, dove Diana ha trascorso di fatto quasi tutte le offseason tra una stagione e l’altra. Ora che la WNBA ha firmato un accordo da circa 2 miliardi di dollari per cedere i propri diritti televisivi, è probabile che quello stipendio diventi il minimo percepito dalle giocatrici professioniste della lega, non certo dalle superstar. Perché Taurasi questo è stata, una superstar, e i numeri della sua carriera sono lì a confermarlo. TAURASI: “THE GIRL IN THE LOGO” E L’AMORE PER DIEGO Un po’ come avviene in NBA, dove nessuno l’ha mai confermato ma la sagoma del logo della lega ricalca quella del leggendario Jerry West, Taurasi è senza grandi dubbi il modello su cui è stato creato il logo della WNBA. Anche nel suo caso non ci sono conferme ufficiali, ma non ci vuole molto a riconoscerne le fattezze, a partire dallo chignon ormai divenuto un suo marchio di fabbrica. Un riconoscimento, quello del logo, che seppur implicito trova d’altronde riscontro anche nei record segnati da Taurasi in WNBA, dove tra le altre cose è stata la prima e fin qui unica giocatrice a superare quota 10.000 punti . E tra i primati detenuti da Taurasi in WNBA ce n’è anche un altro che riporta alla spigolosità caratteriale di cui sopra: con 122 falli tecnici accumulati in carriera, Diana supera tutte le colleghe di ieri e di oggi. Rimangono d’altronde leggendarie le sue battaglie soprattutto con Becky Hammon e con Sue Bird, peraltro sua miglior amica fuori dal campo. Quel consenso da parte del pubblico che la WNBA ha raccolto ultimamente, in particolare negli ultimi anni grazie a stelle come Sabrina Ionescu e Caitlin Clark, insomma, Taurasi non l’ha mai cercato. A lei è sempre e solo interessato giocare a basket e, soprattutto, vincere. Cosa che ha fatto con una certa continuità anche con la nazionale. Già, perché alla sua bacheca personale andrebbero aggiunti pure i sei ori olimpici vinti rappresentando gli Stati Uniti in altrettante edizioni dei giochi, senza mai perdere nemmeno una volta in 42 partite totali, record assoluto nel basket a cinque cerchi. E alle Olimpiadi sono anche legati due episodi che la definiscono per ciò che è stata e per come si percepiva. Taurasi non ha mai chiesto di farsi un selfie a colleghe e colleghi, nemmeno a quel Kobe Bryant che le aveva riservato l’onore di chiamarla ‘White Mamba’, facendo una sola eccezione. Alle Olimpiadi di Pechino nel 2008, Diana faceva di tutto per poter abbracciare e quindi farsi scattare una foto ricordo con il vero idolo della sua infanzia, venerato come un’autentica divinità in casa Taurasi: Diego Maradona. DIANA IN PUREZZA Come d’abitudine, nel momento in cui Taurasi ha annunciato il suo ritiro, sono stati innumerevoli i tributi da parte di colleghe e colleghi, a iniziare dal quasi coetaneo LeBron James, e soprattutto gli aneddoti comparsi un po’ ovunque. E tra questi ce n’è uno che forse rende l’idea della personalità di Taurasi più di mille spiegazioni teoriche. È l’estate del 2016 e le squadre femminile e maschile americane di basket che partecipano alle Olimpiadi di Rio alloggiano entrambe in una nave da crociera per tutelare la privacy e la sicurezza delle tante stelle in maglia Team USA. Una sera, giocatrici e giocatori si ritrovano per un momento di relax dopo cena e, stando a quanto raccontato da diversi testimoni oculari, inizia la più classica delle sfide a chi ha vinto di più, a metà tra la presa in giro reciproca e la provocazione che è quasi inevitabile tra persone che fanno dello spirito competitivo la loro autentica raison d’être. Sulla nave, a rappresentare la squadra guidata da Mike Krzyzewski che vincerà l’oro guidata da un gigantesco Kevin Durant, c’è anche Draymond Green, noto per l’esuberanza verbale e per la comprovata incapacità di astenersi dal commentare alcunché. Green, che più che una superstar come quasi tutti i presenti è considerato un ‘gregario di lusso’, ad un certo punto si infervora in modo particolare nel sostenere non si sa bene quale sua conquista personale, quando Taurasi lo interrompe e gli chiede: “Hey, Draymond: cosa si prova a essere l’unica persona in questa stanza che non è mai stata oggetto di raddoppio in marcatura?”.

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