Le mille luci (e le ombre) di Kevin Durant

Tutto ha inizio al Draft 2007. La prima chiamata assoluta è una cosa a due, tra Greg Oden e Kevin Durant . Quando il commissioner NBA David Stern si presenta sul palco, l’attesa è palpabile. “With the first pick in the 2007 NBA Draft, the Portland Trail Blazers select… Greg Oden”. La prima volta – non sarà l’ultima – in cui a Durant viene appiccicata l’etichetta di numero due. Succederà ancora – numero due ai Golden State Warriors, dietro a Steph Curry; numero due nella lega, dietro a LeBron James – e sembra essere una maledizione tale da perseguitare il talento oggi ai Suns. OTTO STAGIONI IN OKLAHOMA: DURANT È UNA SUPERSTAR Che fin dal via della sua carriera, nella stagione da rookie – quella che Oden passa ai box, già fermato dai problemi alle ginocchia, poi cronici nel corso della sua tormentata carriera – dimostra un talento unico. Indossa, per un solo anno, la maglia dei Seattle Supersonics e vince il premio di matricola dell’anno, viaggiando oltre i 20 a sera. Poi inizia la sua avventura ai Thunder: “Il miglior Durant della sua carriera - sostiene Alessandro Mamoli – che infatti arriva vicinissimo a vincere: non lo fa solo perché in quella NBA c’erano Kobe Bryant, gli Spurs, i Mavs di Nowitzki e poi arrivano i Golden State Warriors”. Quattro titoli di capocannoniere NBA in cinque anni, coronati dal titolo di MVP 2014 sembrano andare in questa direzione, anche se dei suoi otto anni in maglia Thunder tanti si ricordano solo l’addio, quello al termine dei playoff 2016, quando OKC è sopra 3-1 in finale di conference contro gli Warriors e poi perde . Dopo quell’eliminazione, dopo l’ennesima delusione, Durant sceglie di lasciare Oklahoma City e, da free agent, firma con… i Golden State Warriors. IL "NON" TRADIMENTO E I DUE ANELLI NBA Quello che succede dopo dà forse l'impronta decisiva alla carriera di Kevin Durant, nel bene e nel male. Prima quest'ultimo aspetto: "Assurdo parlare di tradimento: è una legittima scelta professionale”, l’opinione di Tommaso Marino. Ma una scelta che i tifosi di OKC non gli perdoneranno mai ed è “il momento – dice Mamoli – in cui Kevin Durant da bravo ragazzo – ricordate le lacrime davanti alla mamma quando ritira il premio di MVP? – diventa il villain, il cattivo”. Lo si accusa di sfruttare le opportunità ma di non crearle, e unirsi ai migliori viene considerata da tanti una debolezza, “un comportamento non da maschio alfa – dice Davide Pessina – perché c’è questa retorica che il vero leader debba voler tutti per sé i riflettori più accecanti, e non condividerli”. Resta il fatto che Durant nell’estate del 2016 firma per Golden State e quel che ne nasce sono: due titoli NBA consecutivi e due titoli di MVP delle Finals per il n°35, che tanto nelle finali del 2017 che in quelle del 2018 mette la sua firma sui due canestri più decisivi e iconici di entrambe le serie, sempre in gara-3. “Quei due dagger – dice Mauro Bevacqua – sono forse il momento in cui Kevin Durant può finalmente sentirsi il giocatore di pallacanestro numero uno al mondo, anche meglio di LeBron James” . “Ovvio però che vince Golden State su Cleveland, e quei Warriors sono più forti di quei Cavs”, precisa Mamoli. Con la sconfitta in finale contro Toronto nel 2019 si rompe però qualcosa, e invece di continuare la sua avventura sulla Baia – e far parte di una dinastia storica – Durant sceglie di crearsi il suo percorso, scegliendo Brooklyn, insieme a Kyrie Irving, “forse proprio per dimostrare a tutti di essere capace di vincere anche lontano da Curry e compagni”, sostengono Pessina e Mamoli. BROOKLYN: "BIG 3", BIG "IF" Nella lingua inglese i "big if" raccontano i rimpianti: cosa sarebbe successo "se"... E chiedersi cosa sarebbe successo se il terzetto Durant-Irving-Harden nelle due stagioni trascorse assieme avesse giocato più di 16 partite - e nel totale si contano sia la regular season che i playoff - è ovviamente legittimo. Così come legittimo chiedersi cosa sarebbe successo se la punta del piede proprio di Durant fosse stata tre centimetri più indietro in gara-7 delle semifinali a Est del 2021 contro i Milwaukee Bucks . Se il suo canestro allo scadere dei regolamentari fosse stato da tre punti, avrebbe mandato in finale a Est i Nets; invece il piede era sulla linea, i punti furono due, Nets e Bucks giocarono un supplementare e a vincerlo fu Milwauekee. Sicuramente tanta sfortuna, quindi, in quell’esperimento con i “Big Three” dei Nets, ma qualcosa – secondo Marino – però mancava: “Rispetto ai Golden State Warriors, per esempio, mancava un Klay Thompson, uno che gioca con 4 palleggi a partita, e poi un po’ di disponibilità a togliersi qualcosa dal punto di vista personale per il bene della squadra”. COSA NON STA FUNZIONANDO AI SUNS Quest’ultimo aspetto sembra tornare anche nell’ultima avventura di Kevin Durant, quella attuale, in maglia Phoenix Suns. Un’altra versione di “Big Three” – stavolta al fianco di Durant ci sono Bradley Beal e Devin Booker – “ma l’impressione è che i tre si sommino – dice Pessina – ma non si moltiplichino. Ognuno fa il suo: ora tocca a me, poi tocca a te, poi tocca all’altro. Ma non riescono, giocando assieme, a moltiplicare il loro valore”. E poi ai Suns – con un paio di episodi proprio nelle ultime settimane – è tornato a emergere qualche screzio attorno a Kevin Durant: con il suo allenatore Mike Budenholzer, prima nella sfida contro i Clippers, poi anche contro i Lakers. “Sono episodi che possono succedere, non vanno ingigantiti, tanto meno esagerati. Però nel suo caso non è la prima volta, e allora forse un po’ di malumore lo mettono in evidenza”, osserva Pessina. Quando si tratta di giocare poi – e fare canestro – Kevin Durant è sempre Kevin Durant: dai 20 ai 30 punti ogni volta che scende in campo, giorno dopo giorno da quel 31 ottobre 2007: più di 30.400 punti , l’ottavo totale più alto di sempre nella storia NBA. Forse bastano i nomi di chi lo precede, per dare un’idea della grandezza di Kevin Durant: sono quelli di LeBron James, Kareem Abdul-Jabbar, Karl Malone, Kobe Bryant, Michael Jordan, Dirk Nowitzki e Wilt Chamberlain. IL MIGLIORE DI SEMPRE CON TEAM USA Quei nomi certificano il club ristrettissimo all'interno del quale può trovare posto un giocatore come Kevin Durant, che la sua pallacanestro l'ha esibita sui parquet dei college di tutta America, in ogni arena NBA e poi sui campi di tutto il mondo quando - con la maglia di Team USA - ha scelto di rappresentare i colori del suo Paese. Ha giocato un Mondiale : l'ha vinto ed è stato votato MVP. Ha disputato quattro Olimpiadi : le ha vinte tutte quattro, venendo incoronato MVP della manifestazione olimpica nel 2020/1 a Tokyo. "In America li chiamano 'hooper': sono quelli che giocano per amore del gioco, che giocano in ogni contesto, dalle finali NBA alle Olimpiadi fino al Rucker Park", dice Mamoli. Per Pessina la definizione perfetta è quella di "plug&play: attacchi la spina e Durant sforna 25-30 punti. In qualsiasi sistema di gioco, con qualsiasi compagno". Si può sempre contare sui suoi punti - obiettano però i critici - ma non così automaticamente sulla sua capacità di spostare o indirizzare le partite. Vincente sì - lo ha dimostrato la storia - ma decisivo forse è un'altra cosa. Lui potrebbe replicare mostrando a tutti quei due dagger, quelle due finali NBA concluse con il trofeo di MVP delle Finals. Vincente e decisivo, in quei contesti. E comunque, sempre, un meraviglioso giocatore destinato a occupare un posto importante nella storia di questo gioco.

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