Federico Gallinari: "Sogno di diventare il primo capo allenatore italiano nella NBA"

Quando lavori nella NBA, valigie e aerei sono i migliori compagni di squadra: sette mesi e 82 partite di viaggi continui per inseguire un sogno nella lega sportiva più famosa del mondo, quella che fu di Michael Jordan e Kobe Bryant. Da qualche tempo un posticino nella NBA ce l'ha anche Federico Gallinari, 27 anni, una carriera da giocatore arrivata fino al college e poi dedicata alla strada del coaching, con risultati già oggi notevoli. Con i suoi Pistons, dove ha un ruolo come player development coach nello staff di J.B.Bickestaff, il 'Gallo' ha riportato i playoff a Detroit per la prima volta dal 2019, e si prepara ad affrontare la prima serie della sua giovanissima carriera contro i New York Knicks. In Michigan da quasi dieci anni, con la prospettiva di rimanerci ancora a lungo, Federico si è ormai integrato nello stile di vita americano, bravissimo a sfruttare le sue opportunità per costruirsi la sua storia in NBA e continuare a inseguire un grande sogno. Il basket in casa Gallinari è una questione di famiglia: tuo fratello Danilo ha giocato per tanti anni in NBA mentre tuo papà Vittorio è stato uno dei protagonisti dei successi dell’Olimpia Milano negli anni ’80. Crescendo hai sentito la loro influenza o è stato del tutto naturale avvicinarsi al mondo della pallacanestro? “È stato abbastanza naturale, il basket l’ho sempre avuto in casa. Avevamo un canestro in giardino, palloni dappertutto, la pallacanestro è sempre stata al mio fianco. A un certo punto della mia infanzia volevo anche diventare portiere di calcio, ma in realtà quel desiderio è durato veramente una settimana, poi sono ritornato ad amare la palla a spicchi. Non mi è mai stato forzato nulla, né dai miei genitori né da mio fratello: per l’ambiente in cui sono cresciuto il basket è sempre stato quello che avrei voluto. Allenatore o giocatore sarebbe cambiato poco, l’importante era rimanere vicino a quel mondo”. Poi arrivi in America… “Sì, a 17/18 anni, durante il mio ultimo anno di superiori. Considera che già da quando avevo 10 anni andavo un mese a trovare mio fratello negli Stati Uniti con i miei genitori, e mi sono innamorato proprio dell'America come Paese. Danilo era lì già dal 2008, vedendolo giocare volevo fare un'esperienza simile, o comunque riuscire ad arrivare negli States. Ho trovato una ‘prep-school’ in Kansas e dopo aver finito le superiori sono riuscito ad avere un posto in quella scuola e a trasferirmi. Tanti lo pensano come un passaggio difficile, ma io sono sempre stato molto curioso verso l'America e quindi ero molto contento di andare a provare quel tipo di esperienza”. A Rochester University, un college non del circuito NCAA. L’idea era sempre restare nel mondo del basket o ti stavi preparando per un altro tipo di carriera? “Non avrei mai pensato di arrivare in uno staff NBA in pochi anni. Il progetto era lavorare con il basket, il sogno farlo negli Stati Uniti, anche se da europeo non è facile a causa dei documenti e dei permessi. Un po’ per caso, tramite delle agenzie, ho iniziato ad allenare alcuni giocatori pre-draft, e di questi giocatori diversi sono riusciti a sbarcare in NBA. Questo mi ha permesso di crearmi una specie di curriculum, un'esperienza che mi ha procurato un'offerta di lavoro dalla formazione di G-League dei Detroit Pistons e dopo due anni l’arrivo in prima squadra. Anche se all’inizio non pensavo di arrivare a uno staff tecnico NBA quando poi ho iniziato il percorso e ho visto dove avrei potuto arrivare, allora mi ci sono focalizzato”. All’interno dello staff dei Pistons ti occupi di sviluppo dei giocatori. In cosa consiste nello specifico il tuo lavoro? “Il mio titolo in questo momento è player development assistant coach. Abbiamo un allenatore del player development ‘principale’ e io sono il suo assistente. Mi vengono assegnati dei giocatori e il mio compito è seguirli nel loro sviluppo. Quest'anno lavoro con Bobi Klintman, uno dei rookie, sia sulla parte video sia sul campo. Ho dei goal, degli obiettivi, che la società chiede a me e al ragazzo di raggiungere, e di creare un programma di lavoro in modo tale che l’atleta li raggiunga. Insomma, la mia responsabilità è fare in modo che questo giocatore migliori e non peggiori. È un lavoro specifico individuale di campo, la parte di scouting o la scelta degli schemi non rientrano nelle mie mansioni”. Un ruolo che hai ricoperto anche nella G-League. Quali sono le differenze rispetto alla NBA? “Prima di tutto il carico di lavoro. Ci sono molti meno allenatori in G-League, ogni membro dello staff ha più mansioni mentre in NBA ogni figura ha un incarico specifico. Poi il calendario: una stagione di G-League è composta da 50 partite, mentre in NBA sono 82. Anche la mentalità è diversa. La G-League per tanti è un punto di partenza, c’è più voglia di imparare per salire al livello superiore, vale sia per i giocatori sia per i coach. È un po’ la scuola per chi vuole arrivare in NBA, lì si impara tanto”. Di certo avrai sempre la valigia in mano, ma com’è la vita a Detroit, in una piazza meno glamour rispetto a New York o Los Angeles? “Ormai sono in Michigan da quasi dieci anni. Quando sono arrivato era una città pericolosa, oggi è molto migliorata. Certo, non è paragonabile alle grandi metropoli ricche di locali e vita notturna: si anima nel weekend, mentre in settimana è una realtà molto tranquilla. Dopo Chicago è considerata la migliore come qualità della vita tra le grandi città dei laghi, si sta riqualificando. Non è una brutta metropoli, il difetto principale è il freddo, ma per il resto si vive bene, è la piazza giusta per rimanere concentrato sul lavoro che sto facendo”. Com’è invece il rapporto con i suoi abitanti? Intesi come i tifosi dei Pistons, e della NBA in generale. “In generale il pubblico dell'NBA non è così caldo come quello che puoi vedere in Europa, soprattutto nel calcio. C'è una cultura leggermente diversa, più dell'intrattenimento. Quindi si va al palazzetto per partecipare a un evento più che per vedere la partita e fare il tifo per la squadra sperando che vinca. Il pubblico di Detroit è riconosciuto come una tifoseria un pochettino più intensa, quando l'anno scorso perdevamo tanto non c’era molto seguito. In questa stagione invece abbiamo ricominciato a vincere: l’arena è sempre sold out, ci sono più celebrità a bordo campo, è aumentato il tifo. I Pistons sono una parte importante della città, a Detroit lo sport ha una componente sociale di grande rilievo”. E il rapporto con la stampa e i media? “Dopo anni nella lega si crea quasi una specie di ‘amicizia’ con i giornalisti. È ovvio che bisogna stare sempre attenti a ciò che si dice: nella NBA soprattutto si va a caccia dei click, le domande sono fatte con l’idea di estrapolare delle dichiarazioni che creino dibattito o che possano metterti in difficoltà. Fondamentale mantenere un confine tra buoni rapporti e ‘business’, quindi fare molta attenzione all’utilizzo dei termini giusti e alla scelta di risposte diplomatiche. A meno di volersi sbilanciare pubblicamente. Soprattutto nel caso dei giocatori e del capo allenatore, che sono le figure più interessanti per i media”. Il fatto di essere un italiano in America ha rappresentato un ostacolo o un vantaggio nella tua carriera finora? “Per tanti italiani arrivare qui è un sogno. Parlo per esperienza personale, ci sono molte più opportunità qui: di vita, di lavoro. Smaltita la parte burocratica, con visti e documenti, non importa se vieni da un altro Paese, c’è spazio per tutti. Essere un italiano negli Statu Uniti per me è stato un vantaggio. Chiaramente lo stile di vita e la cultura sono diverse qui, gli americani sono più distaccati, ma come possibilità di carriera per un giovane ce ne sono a destra e sinistra. Per chi ne ha la possibilità, frequentare il quarto anno di superiori o un Erasmus qui è un’esperienza di vita che consiglio senza ombra di dubbio”. Com’è la giornata tipo di un allenatore NBA? “Dipende dal tipo di programma, se abbiamo o meno una partita. Nei giorni di solo allenamento, che sono di solito alle 11, ci troviamo un’ora prima dell’inizio della sessione per fare uno staff meeting, il gruppo dei coach è composto da una ventina di persone. Io spesso arrivo in anticipo per fare colazione, un salto in palestra e per cominciare a lavorare con i ragazzi che sono già al campo. Si svolge un’oretta di allenamento intensa, massimo un’ora e un quarto, in cui si lavora sugli schemi, nostri e dei prossimi avversari, e poi per chiudere una sessione leggera di lavoro individuale. Alle 14, massimo alle 15, siamo tutti a casa”. E nei giorni della partita? “Di solito si gioca alle 19. Verso le 10 ci si ritrova per fare una sessione di tiro e per rivedere le tattiche e gli schemi dei nostri avversari. Alle 12 si torna a casa, un po’ di riposo per poi ritrovarci alle 16 all’arena, quando iniziano le routine individuali di riscaldamento. Breve riunione di squadra poco prima della palla a due e poi si parte. Stesso discorso quando siamo in trasferta, con la differenza che il giorno prima della partita siamo in viaggio”. Parliamo un po’ del rapporto con tuo fratello Danilo. Ti ricordi il giorno del suo draft? “Sì, me lo ricordo. Anche se avevo solo 10 anni, non avevo capito benissimo cosa stesse succedendo. Crescendo ho compreso meglio cosa volesse dire giocare in NBA, il fatto che lui giocasse lì ha fatto aumentare dentro la me la voglia di fare la mia esperienza negli Stati Uniti: da quel draft per certi versi è nato il mio legame con l’America”. Adesso lui non gioca più in NBA, in compenso ci sei entrato tu. Che consigli ti ha dato? “Mi ha sempre detto di come la NBA sia un ambiente stressante, con tante responsabilità. Di quanto sia fondamentale arrivare ogni mattina in palestra con il sorriso, pieno di energia positiva, salutare tutti e mettersi a lavorare con impegno. Negli Stati Uniti i sacrifici sono sempre ripagati, bisogna far vedere che sei affidabile e che sei in grado di svolgere quello che ti viene chiesto senza lamentarti, ma sempre a testa alta. Tutto questo lavoro prima o poi darà i suoi frutti. Ne parliamo spesso durante il nostro podcast ‘A cresta alta’: tutte le settimane facciamo uscire una puntata in cui raccontiamo del mondo NBA e di tanti altri temi di basket legati alle nostre carriere, spesso con degli ospiti”. Danilo è stato per tanti anni un giocatore importante in NBA. La sua carriera ha influenzato il tuo percorso in questo settore? “Assolutamente sì. La NBA è un mondo molto piccolo, in pochi ci riescono ad arrivare. Aver avuto Dani all’interno per 16 anni ha permesso a me e a tutta la mia famiglia di inserirci e di conoscere persone di questo business. Poi è chiaro che una volta che ti sei fatto una ‘rete’ di contatti è molto più facile riuscire a entrarci. Il lato positivo è che il mondo della NBA è, in un certo senso, poco ‘invidioso’: la maggior parte di quelli che ci lavorano vengono da famiglie o sono amici di persone che ci sono passate. In questo settore essere ‘il fratello di’ conta veramente poco, anzi, aiuta a creare dei legami”. Sei uno dei pochi italiani ad aver fatto parte di uno staff NBA. A Detroit gioca anche Simone Fontecchio, l’unico italiano attualmente nella lega. Com’è il vostro rapporto? “Simo è un ragazzo fantastico, dentro e fuori dal campo. In Italia ci eravamo visti solo un paio di volte, ci siamo frequentati poco, mentre abbiamo legato tanto in questi mesi. Abbiamo spesso passato giornate insieme, siamo usciti diverse volte a cena fuori, abbiamo creato una bella amicizia. È un esempio, proprio come uomo. Essendo uno dei più esperti nella squadra insegna tanto ai più giovani, me compreso. Avendo esperienze cestistiche diverse è un piacere confrontarci, stiamo imparando tanto l’uno dall’altro”. Parliamo un po’ di campo. La stagione scorsa dei Pistons era stata fortemente negativa. Quest’anno invece siete tornati ai playoff. Cosa è cambiato in questi 12 mesi? “Due cose più di tutto. La prima è l’atmosfera: sempre positiva, tanti sorrisi, tante risate, nessuna invidia. L’anno scorso questa leggerezza manca completamente, alle volte facevo fatica addirittura a parlare con il capo allenatore, mentre in questa stagione ci scherzo quasi tutti i giorni. La seconda è la consapevolezza: siamo riusciti a far capire ai giocatori che se mettiamo energia e intensità nelle partite possiamo toglierci delle belle soddisfazioni. Intorno ai Pistons è tornata a esserci un’identità, chiedendo in giro c’è un po’ l’idea dei ‘Bad Boys’ degli anni Ottanta”. Dal tuo punto di vista c’è qualcosa che senti di aver portato a questa organizzazione? “È solo il mio terzo anno, chiaramente sono ancora ‘piccolo’ rispetto agli altri allenatori. Penso di aver portato una visione un pochettino più europea all’interno della squadra, per via della mia formazione. In NBA sono pochi gli allenatori che hanno avuto delle esperienze fuori dagli Stati Uniti, eppure in ogni squadra c’è almeno un europeo nello staff, per dare una visione diversa del basket rispetto a quella americana. E poi banalmente l’aspetto del campo. Di solito gli allenatori sono più su con l’età, io posso ancora giocare e tenere testa ai ragazzi sul parquet durante gli esercizi. Sembra una cosa da poco ma aiuta tanto durante gli allenamenti”. Com’è Cade Cunningham visto da vicino? Ha fatto una stagione di livello All-NBA. “Un ragazzo e un giocatore incredibile. Ha solo 23 anni, può migliorare ancora tantissimo nonostante abbia già fatto grandi progressi da quando è entrato in NBA. È un leader naturale, si assume senza paura le responsabilità di far girare la squadra. Ha grande intelligenza cestistica, prende quasi sempre le decisioni giuste in campo e riesce a far alzare il livello di tutti i compagni. Come si dice in inglese è consistent. Nonostante il suo status non si comporta da stella, è un collante eccezionale all’interno del roster”. Chi ti ha sorpreso di più oltre a Cunningham? “Malik Beasley. Ha fatto una stagione eccezionale, probabilmente la migliore della sua carriera. È stato uno dei giocatori con più canestri da 3 punti di tutta la NBA, e con percentuali altissime”. Qualche mese fa, su Insider, Simone Fontecchio elogiava l’impatto dei veterani: Beasley appunto ma anche Tobias Harris e Tim Hardaway Jr. L’hai notato anche tu? “Senza ombra di dubbio. Sono stati presi proprio per la loro esperienza e per quello che possono insegnare ai più giovani. Stanno facendo un ottimo lavoro. Non solo come ‘insegnanti’ ma anche per il contributo che stanno dando in campo: hanno fatto ottimi numeri e contribuito al successo di Detroit. Sono dei leader, in campo e fuori”. La stagione regolare è appena finita. Quale giocatore avversario ti ha davvero impressionato? “Sono indeciso tra due. Il primo è Luka Doncic, di cui sono sempre stato un amante. Giocatore incredibile, quello che fa sul campo, in rapporto all’età, è pazzesco. Se consideriamo questa stagione però devo dire Shai Gilgeous-Alexander. Che eleganza! Va dove vuole, quando vuole, se serve un canestro è una sicurezza, nonostante ci siano interi piani partita pensati per fermarlo ha fatto una stagione da più di 30 punti. Giocatore incredibile. Sia lui sia Doncic sono dei talenti generazionali”. Mi hai servito un assist: Gilgeous-Alexander o Jokic per l’Mvp? “Ottima domanda. Punto su Shai. Difficile scegliere, Jokic ha fatto prestazioni e statistiche fuori di testa in questa stagione ma SGA forse se lo merita di più”. Nelle ultime settimane di regular season avete giocato contro Celtics, Thunder, Nuggets e Cavaliers, quattro tra le favorite per l’anello. Chi è la tua favorita? “A me piace molto Boston. E Denver, che nonostante tutto il caos delle ultime settimane è una squadra molto fisica e può contare su Jokic. Queste due potrebbero arrivare fino alle Finals. Oklahoma City è l’outsider: sono giovanissimi ma stanno già facendo grandi cose”. Siete tornati ai playoff per la prima volta dal 2019. Affronterete i New York Knicks, come la vedi? “Sarà una bella serie. Loro ovviamente hanno il vantaggio del fattore campo ma in stagione regolare li abbiamo battuti tre volte su quattro. Per caratteristiche ci potremmo accoppiare bene con i Knicks, fisicamente credo partiremo avvantaggiati. I Pacers sarebbero stati un match-up più sfavorevole. Ce la possiamo giocare”. Siamo alla fine. Tiriamo le somme: che futuro vedi per i Detroit Pistons ma soprattutto per te? “Con la squadra abbiamo un programma preciso. L’allenatore ha ancora un contratto lungo, di 3/4 anni, l’obiettivo sarebbe arrivare alle finali di Conference in questo periodo. Il progetto della squadra è ottimo, siamo già più avanti di quanto avessimo programmato, perché l’obiettivo non era entrare ai playoff già da questa stagione. Per quanto mi riguarda ho due sogni: il primo è continuare nel mio campo e diventare capoallenatore della parte development; il secondo, perché no, arrivare a sedermi in panchina, diventare prima assistant coach e poi head coach, il primo italiano a riuscirci. Sarà molto difficile, ci vorrà del tempo. Di sicuro mi vedo ancora a Detroit, sono legato alla città e alla franchigia, in più stiamo facendo grandi cose. Spero di rinnovare presto il mio contratto con i Pistons”.

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Simone Dagani