Ideologia e tiro da 3 punti

"Non è vero che non esistono più ideologie. Esistono mentalità maturate in ciò che resta dell’ideologia. […] Esistono quasi-ideologie assai pervasive; esistono diverse soggettività parziali che attraverso queste mentalità e queste quasi ideologie danno voce a problemi identitari. […] Sono tutte ideologie assertive e polemiche che insistono su problemi reali, su faglie di crisi". CARLO GALLI, Ideologia "Abbiamo iniziato la conferenza stampa parlando di tutte le triple che abbiamo preso e sbagliato. Adesso mi dite che i Knicks hanno vinto perché hanno tirato con il 50% da 3 nel secondo tempo. Certo, effettivamente bisogna segnare quando sei libero [per vincere]. [Ragionare così, però] è un concentrato di dualità". JOE MAZZULLA, tra gara 1 e gara 2 tra Celtics e Knicks Capisco che l’incipit sia spiazzante, ma se avete pazienza provo a legare le due citazioni. Lo faccio lasciando appesa la prima e concentrandomi sulla seconda. I termini della vicenda li conoscete: in gara 1 i Celtics tirano il 25% su 60 tiri da 3 e il 51% su 37 tiri da 2, vanno avanti di 20 e perdono all’overtime. In gara 2, gli stessi Celtics tirano il 25% su 40 tiri da 3, il 44% su 54 tiri da 2, vanno avanti di 20, e perdono di 1. Anche senza l’uso del grassetto, il percepito è granitico: due partite con tanti tiri da 3, percentuali basse e sconfitte . Semplice, no? No, non è così semplice. Dice Mauro Ceruti che “complessità deriva dal latino cum+plectere, che vuol dire intrecciare. Complesso è quindi qualcosa di intrecciato più volte. Anche semplice viene da plectere, ma vuol dire intrecciato una volta sola”. Se non ci prendiamo il tempo di intrecciare un aspetto del basket con gli altri, ci perdiamo la bellezza di questo gioco. Che consiste proprio nell’interconnessione tra i suoi molti fenomeni, che sembrano poco intrecciati ma lo sono invece profondamente. Il numero di tiri da 3 che prendo, per esempio, è sì funzione della mia filosofia, del personale di cui dispongo e delle situazioni offensive che sviluppo fondendo i primi due elementi. Esso è però anche legato alle scelte altrui: che quintetto schierano gli avversari e quali opzioni difensive prediligono, inter alia. Se vogliamo restare a quello che è nella disponibilità di Mazzulla e del suo staff, dobbiamo valutare la qualità dei tiri di Boston, non la loro distribuzione territoriale. E questa qualità può essere soppesata in almeno in due modi. Il primo è guardare la partita e decidere se il tiro preso, indipendentemente dal fatto che finisca o meno nel canestro, è aderente ai principi dell’attacco. Dopo gara 1, Mazzulla ha detto che c’erano “10 o 11 tiri che probabilmente rivorrei indietro”, ma che per il resto era soddisfatto “della loro stragrande maggioranza”. Se anche fossero 15, e li avesse ‘tenuti bassi’ in pubblico, significherebbe che il 75% di quei tiri erano soddisfacenti. Trovo peraltro indicativo che nessuno lo abbia interrogato sui tiri da 2 e i possessi finiti con una palla persa. Per non parlare della difesa, della condizione mentale della squadra, della malattia di Porzingis, dei problemi di Brown e delle altre millemila variabili che determinano il risultato finale. Il secondo criterio di valutazione è quantitativo. La qualità di un tiro è infatti un fenomeno misurabile . Lo è sulla base dell’unico predittore che abbiamo: il passato. Se io, giocatore o squadra, nella stagione o nella carriera ho preso 100 tiri da quel punto del campo con il difensore a quella distanza e ne ho segnati 50, la mia qualità di tiro è 50%. Due partite sono un campione statistico privo di significatività, ma in queste due gare i Celtics hanno ‘costruito’ una qualità di tiro dal campo pari al 58,4% ‘reale’. Quei tiri, però, sono stati convertiti con un magro e inusuale 42,1. Se uno volesse metterla in termini calcistici, Boston ha costruito 10 occasioni da rete e ha fatto un gol. Prima di essere equivocato, non vorrei che si pensasse che segnare o non segnare un canestro sia la stessa cosa. Se però parliamo di scelte, quelle dei Celtics, alla luce della verifica dell’occhio di Mazzulla e dell’osservazione quantitativa, erano tendenzialmente corrette. Se leviamo queste due partite e guardiamo alle precedenti 87, i campioni in carica hanno avuto una qualità di tiro su base stagionale del 56,0% e una percentuale ‘reale’ del 55,3. Se avessimo il tempo di aspettare 87 gare, i numeri di Tatum e compagnia tornerebbero vicino a questi valori. Solo che questo tempo, nei playoff, non c’è. Potrei andare avanti a lungo con le osservazioni quantitative. Potrei dire che prendere 54 tiri da 2 invece di 37 non è stato risolutivo, ma sarebbe una maniera asinina di guardare alla questione . Ricordo che nei numeri dei Celtics c’è anche il lavoro difensivo dei Knicks. Towns e Robinson stanno accettando e tenendo cambi con grande efficienza, sfruttando il fatto che per questo livello Holiday e White sono due penetratori ‘normali’ e Brown ha pochi minuti ‘buoni’ nelle gambe. Ciò detto, provo a spiegare il perché della citazione iniziale di Carlo Galli. In un recente e interessante articolo su The Ringer, Kirk Goldsberry, grande conoscitore e analista del gioco, ha sostenuto che la crescita esponenziale dei tiri da 3 sbagliati sta rovinando la fruibilità del gioco NBA. Dice Goldsberry che le zone negli angoli dalle quali il tiro vale tre punti occupano 7,8 metri quadrati e da lì arrivano in media 23,8 punti per gara. Il cosiddetto mid-range, la zona di campo tra l’area e la linea del tiro da 3 punti, ha invece un’estensione di 73,6 metri quadri ma ‘produce’ solo 17,3 punti. Ergo, propone Goldsberry, leviamo il tiro da tre dagli angoli e torneranno post basso, tiri dalla media e tagli. L’argomento è seducente. Soprattutto, è popolare: specialmente per certi segmenti del pubblico, una crociata contro il tiro da tre punti è garanzia di consenso. Io non sono convinto che la conseguenza dell’eliminazione del tiro da 3 dagli angoli sarebbe quella prevista da Goldsberry. E non sono nemmeno sicuro che i tiri mi piacciano di più o di meno a seconda della loro distribuzione territoriale. Ciò detto, avrei grande piacere di poter parlare con i sostenitori di questa e di altre teorie similari per capire meglio la loro ratio. Lo farei con grande apertura e attenzione, soprattutto rispetto alle soluzioni da loro proposte per risolvere i problemi di spacing offensivo che inevitabilmente si aprirebbero . Goldsberry non è affatto ideologico nella sua esposizione. Se però non leggo tutto il suo long-form finisco per limitarmi a ‘votare’ a favore o contro la sua proposta. Ideologico, e non critico, non è quindi lui, ma il dibattito pubblico. A confermarcelo sono i due giganteschi vulnus dai quali è affetto: un set di osservazioni esiguo e non verificato e un’ideologia ridotta all’osso. Perché c’è ideologia e ideologia. Oggi questa parola sembra aver mantenuto solo la sua accezione negativa di “complesso di idee astratte, senza riscontro nella realtà, o mistificatorie e propagandistiche, cui viene opposta una visione obiettiva e pragmatica della realtà”. Ieri, viceversa, portava, assieme a lutti e tragedie novecenteschi da non rimpiangere, contributi profondi e stimolanti grazie alla loro diversità . Nel dibattito polarizzato, invece, ci lasciamo solo due possibilità: tiro da 3 sì, tiro da 3 no. Di solito sulla base del risultato dell’ultima partita . È come se dell’ideologia avessimo buttato il bambino e tenuto l’acqua sporca. Scordandoci che la predetta ideologia, nella sua veste peggiore, vive “nell’incertezza della verità, e perciò proclama, polemicamente, la propria” . PS: l’assenza di ideologie è un’ideologia essa stessa. Totalitaria. E pericolosa.

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