Il sogno del titolo per i Warriors era solo un’illusione: la stagione è finita

Sarebbe facile, forse troppo facile individuare il momento esatto in cui la stagione dei Golden State Warriors ha trovato la svolta decisiva e si è avviata verso un finale amaro e anticipato rispetto sia alle speranze della squadra e dei suoi tifosi che ai pronostici espressi dagli addetti ai lavori alla vigilia dei playoff. La svolta arriva con 8:19 da giocare nel 2° quarto di gara-1 contro Minnesota, quando Steph Curry è costretto a uscire dal campo per un forte dolore alla gamba destra che poi si rivelerà uno strappo muscolare. La stella di Golden State viene sostituita dal compagno Brandin Podziemski, senza più riuscire a rientrare nella partita e quindi nella serie. Gli Warriors, senza Steph, stringono i denti e vincono gara-1, ma da lì in poi incontreranno solo sconfitte. E se individuare la svolta della stagione dei ragazzi di coach Steve Kerr è facile, forse troppo facile, è facile, forse troppo facile anche giungere ad una conclusione in apparenza logica e a una verità incontrovertibile: senza Curry, gli Warriors non sono una squadra competitiva. Non lo erano prima della trade che lo scorso febbraio ha portato sulla Baia Jimmy Butler e non lo sono diventati nemmeno dopo, come ha confermato l’eliminazione arrivata nella notte per mano dei Timberwolves. SENZA STEPH NON C’E’ SPERANZA Com’è ovvio, al netto delle carenze di Golden State, i meriti per la vittoria per 4-1 vanno prima di tutto riconosciuti ad Anthony Edwards e compagni, che non a caso tornano in finale a Ovest a un anno di distanza. Minnesota ha confermato di avere tutto ciò che serve per vincere ai playoff, talento, fisicità, un roster profondo e una superstar in crescita costante, e proprio per questo sarebbe scorretto ricollegare alla sola assenza di Curry l’esito della serie. È possibile, anzi è probabile, che anche senza il suo infortunio gli Warriors avrebbero faticato parecchio e magari perso nel confronto con i Timberwolves, ma di certo c’è che da quando Steph ha dovuto dare forfait il confronto si è fatto impari e l’esito finale è diventato quasi scontato. Quello della tenuta della squadra, e in particolare della sua manovra offensiva, in assenza diCurry è un problema che a Golden State si portano avanti da un decennio abbondante, ovvero da quando il due volte MVP è diventato il centro di gravità permanente dell’attacco. Le caratteristiche pressoché uniche di Curry, d’altronde, rendono complicatissima già la gestione dei momenti in cui riposa durante le partite, figuriamoci quella delle partite in cui il numero 30 proprio non c’è. Eppure, in teoria l’arrivo di Butler avrebbe dovuto fornire all’attacco degli Warriors un’altra dimensione, altre soluzioni tattiche in grado quantomeno di compensare l’eventuale assenza di Curry. La serie con Minnesota, invece, non ha fatto altro che confermare in maniera lampante quanto ancora oggi la squadra sia totalmente dipendente dal suo straordinario talento. In questi playoff, Curry sul parquet ha guidato Golden State ad un offensive rating di 115.7, mentre quando è rimasto in panchina o addirittura tra gli spettatori l’efficacia dell’attacco è scesa di ben 16 punti a 99.7, aumentando la notevolissima discrepanza già fatta registrare nelle stesse situazioni durante la regular season. Tra le superstar impegnate in questi playoff, gli unici dati simili sono quelli fatti registrare da Nikola Jokic a Denver e Da Jalen Brunson a New York , non a caso altri due giocatori dalle caratteristiche tecniche quasi uniche, mentre per dire il prossimo MVP Shai Gilgeous-Alexander incide solo dello 0.8 sull’attacco dei Thunder e addirittura quello dei Celtics viaggia a +6.4 in assenza di Jayson Tatum, a conferma della validità dei roster che accompagnano il canadese e l’ex Duke appena uscito di scena per il grave infortunio patito in gara-4 contro i Knicks. Nell’incapacità degli Warriors di fare canestro e di vincere le partite in assenza di Curry, insomma, c’è molto della grandezza di un campione ormai leggendario ma anche parecchio della modesta portata del resto della squadra. LA GRANDE ILLUSIONE DI GOLDEN STATE L’eliminazione secca arrivata al secondo turno brucia ed è destinata a bruciare anche nelle prossime settimane perché in casa Warriors la seconda parte di regular season aveva creato aspettative forse sproporzionate rispetto al reale valore del roster. Kerr, infatti, pareva aver trovato il nuovo assetto ideale della squadra con il quintetto che accanto a Curry e al neoacquisto Butler vedeva la presenza dell’altro veterano Draymond Green e dei giovani in rampa di lancio Brandin Podziemski e Moses Moodey. Con loro cinque in campo, Golden State aveva registrato uno scarto medio di 17.9 punti su 100 possessi, chiudendo in regular season con un record di 19-3. E lo stesso starting five, seppure con qualche passaggio a vuoto, era riuscito a cavarsela anche nella battaglia al primo turno contro Houston. Fuori Curry per infortunio, però, né l’esperienza e il QI cestistico di Butler e Green, poco più che modesti nelle quattro sconfitte consecutive costate l’uscita dai playoff, né l’energia del nucleo giovane, all’interno del quale si è rivisto anche Jonathan Kuminga, fin lì fuori dalle rotazioni, sono bastati a tenere in piedi quella che si è quindi rivelata una grande illusione. Era stato lo stesso Green, d’altronde, ad assicurarlo con la sua proverbiale tracotanza poco dopo l’arrivo di Butler: gli Warriors avrebbero vinto il titolo. O, almeno, quella era l’idea, l’obbiettivo nemmeno tanto nascosto di un gruppo che proprio grazie all’innesto dell’ex Miami sembrava aver ritrovato la piena fiducia nei propri mezzi. Solo che il campo, al netto dell’infortunio di Curry, ha fornito un responso molto diverso e ora l’orizzonte temporale a disposizione di questa versione della squadra si restringe e tra le fila di Golden State potrebbe cominciare a prendere corpo la consapevolezza che per tornare in vetta alla NBA servirà cambiare ancora. LA PROSPETTIVA SULLA BAIA Per capire come muoversi durante l’estate, è probabile che sulla Baia occorrerà prima di tutto mettere da parte la suggestione che vorrebbe l’infortunio di Curry come l’unico ostacolo che ha fermato la squadra nella corsa verso il titolo. Anche se fossero riusciti a superare Minnesota, infatti, il percorso verso il Larry O’Brien Trophy di Steph e compagni sarebbe comunque dovuto passare da una tra Denver e Oklahoma City, avversarie che in stagione hanno dimostrato di essere superiori, anche nettamente nel caso dei Thunder, a Golden State e quindi da delle Finals da affrontare con un carico di stress fisico accumulato forse troppo gravoso per un gruppo dall’età media importante. Un’analisi lucida dello stato della squadra, insomma, non potrebbe che rilevare come a questi Warriors, per essere davvero competitivi ai massimi livelli, manchino almeno un lungo in grado di proteggere il ferro e di tenere anche sugli esterni avversari nei cambi difensivi e un terzo attaccante affidabile dietro a Curry e Butler. Caratteristiche tecniche che il presumibile grande protagonista del mercato Giannis Antetokounmpo racchiude in un solo giocatore. Il greco piace molto a Golden State e non da oggi, ma piace ovviamente anche a tutte le altre squadre, pronte a mettersi in coda qualora la sua uscita da Milwaukee si facesse ipotesi concreta. Al momento, poi, il General Manager Mike Dunleavy Jr. avrebbe carte piuttosto limitate da giocarsi al tavolo della possibile trade. Gli Warriors hanno infatti quattro prime scelte al Draft da poter inserire nell’eventuale offerta ai Bucks, ma non dispongono dei contratti per poter far quadrare lo scambio dal punto di vista economico: il monte stipendi di Golden State è occupato all’85% dagli accordi che riguardano Curry, Butler e Green, per ovvi motivi incedibili oggi come oggi. La chiave del mercato sulla Baia potrebbe quindi essere Kuminga, il cui contratto scade il prossimo giugno e a cui il front office potrebbe offrire un rinnovo a cifre importanti per poi giocarselo in una eventuale operazione di sign-and-trade. Difficile, però, che il congolese basti come contropartita tecnica per arrivare ad Antetokounmpo. E allora Dunleavy Jr. potrebbe essere costretto a rivolgersi altrove, magari alla ricerca di colpi meno roboanti ma che possano comunque andare a colmare le lacune emerse durante questa stagione. Perché se è vero che i contratti del trio Curry-Butler-Green scadono tutti nel 2027, concedendo così altre due stagioni per provare a realizzare il sogno di un quinto titolo che cementi la dinastia nata a metà degli anni ’10, è vero anche che la loro età anagrafica, 37 anni per Steph e 35 per Jimmy e Draymond, e le tante annate di basket al massimo livello che pesano sulle loro gambe obbligano giocoforza a tentare il tutto per tutto. Il primo tentativo non è andato a segno e, considerata anche la concorrenza spietata rappresentata dal resto della NBA, soprattutto nella Western Conference, non è nemmeno detto che ne arrivi una seconda.

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Il sogno del titolo per i Warriors era solo un’illusione: la stagione è finita

Dario Costa