Robert Horry: "Io un vincente orgoglioso di esserlo e dei miei big shots"

Chi segue un po’ la NBA, sa che tra il finire degli anni ’50 e la fine dei ’60 i Boston Celtics hanno vinto 11 titoli NBA in 13 anni, di cui 8 consecutivi. Era una lega molto diversa da quella attuale, che contava 8 squadre in tutto nell’anno del primo di quei 11 titoli e 14 nell’ultimo. Perché dico questo? Perché se si eccettuano i giocatori di quelle edizione dei Celtics – i Bill Russell, i Sam Jones, gli Havlicek etc. – non c’è un singolo giocatore nella storia della lega che ha vinto più titoli NBA di Robert Horry. Sette. Sette anelli. Con tre squadre diverse. Due con gli Houston Rockets . Tre con i Los Angeles Lakers . Due con i San Antonio Spurs . Non c’è bisogno di aggiungere altro, per capire chi è Robert Horry. C’è però la chance di aggiungere molto altro se lui accetta di raccontare 16 anni di carriera NBA ad altissimo livello. Partendo da quel bilancio finale: 7 titoli NBA e un soprannome che racconta del suo talento nel segnare i canestri decisivi. Di cosa sei più orgoglioso? "Ciò di cui sono più orgoglioso è l’essere stato un vincente. E questo ha a che fare con l’aver vinto sette titoli NBA e con l’essere diventato 'Big Shot Rob'. Perché senza aver segnato qui tiri decisivi non avremmo vinto quei titoli, per cui alla fine tutto è correlato. E sono stato un vincente anche perché ho giocato per grandi allenatori, insieme a giocatori e coach da Hall of Fame. Ho avuto una carriera straordinaria, non cambierei nulla di quello che è successo: OK, forse le nove stagioni in cui non ho vinto! Forse quello…". Riavvolgiamo il nastro e partiamo dall'inizio. Draft 1992: la prima scelta assoluta è Shaquille O'Neal; la seconda è ‘Zo Mourning; la terza è Christian Laettner. Tre lunghi. Quanto è cambiato il gioco da allora? “Il gioco è cambiato molto, nel senso che il tiro da tre grazie all’uso delle statistiche analitiche ha preso il sopravvento, perché chiunque capisce che tre vale più di due, anche un bambino di tre anni. Ma se si guarda alle squadra che sono arrivate in finale quest’anno, non sono squadre che tirano moltissimo da tre punti. Cosa ci dice questo? Che si torna sempre al gioco. Nel basket – e nella NBA in particolare – chi vince viene imitato. Tutti hanno visto come il tiro da tre funzionava alla grande con i Golden State Warriors e hanno pensato di poter fare lo stesso. Non funziona così: non hai delle ‘Ferrari’ come Klay Thompson o Steph Curry in squadra; è più probabile che tu abbia delle Ford Pinto se paragonate al modo in cui questi giocatori tiravano da tre. La verità è che i lunghi dominano ancora la NBA: solo che non si vede!”. A dominarla sempre più, invece, sono sicuramente i giocatori "two-way", forti in attacco quanto in difesa, proprio come te. Chi sono i tuoi eredi? "Quando Kawhi [Leonard] sta bene, lui è uno dei primi tre giocatori che vengono in mente. Penso anche a Mikal Bridges e a Giannis Antetokounmpo, che probabilmente può essere il primo di questa lista. È questa la cosa grandiosa del basket: non è come il football americano, dove hai l'attacco, hai la difesa e i due gruppi si alternano. Nel basket devi essere in grado di giocare su entrambe gli estremi del campo. Se devo proprio scegliere il mio preferito di tutti i tempi, prima dei suoi infortuni, vado con Klay Thompson. Klay Thompson […] andava a prendersi il miglior giocatore degli avversari e lo annullava e poi in attacco era capace di segnare otto triple. È bellissimo vedere giocatori orgogliosi di giocare forte in difesa”. Si può dire che per stile di gioco sei stato in anticipo sui tempi? Eri 2.08, tiravi da tre, eri versatile, cambiavi difensivamente… “Lo ero, sì, ma in qualche modo ho dovuto cambiare. Nel 1995, quando mi hanno spostato dal ruolo di ala piccola a quello di ala grande, abbiamo sostanzialmente dato via alla moda di giocare ‘small ball’ e mettendomi in quella posizione in campo siamo diventati quello che siamo diventati, abbiamo trovato la nostra identità. E oggi in giro per la lega si vedono molte squadre utilizzare un ‘tre’, a volte anche un ‘due’ nel ruolo di centro. Guardate cos’ha fatto Alex Caruso! Caruso ha marcato Jokic, il centro dei Nuggets, nella serie di semifinale tra OKC e Denver. Penso che nel basket di oggi non contino più le posizioni, e che questo abbia molto a che fare con i Rockets del 1995 e con la decisione di spostarmi dalla posizione di ala piccola a quella di ala grande. Per cui: grazie Charles Barkley!”. Parliamo un po’ dei tuoi Rockets del 1995: sono ancora oggi la squadra con la testa di serie più bassa capace di vincere un titolo. Ci racconti quella cavalcata incredibile? “Penso vada ricordato l’ottimo scambio che ha portato Clyde Drexler a Houston per Otis Thorpe. Ci è voluto un po' di tempo per trovare nuovi equilibri, anche perché abbiamo avuto molti infortuni durante quella stagione - una cosa di cui la gente oggi non parla molto. Ma poi, di colpo, siamo entrati in ritmo, e una volta entrati in ritmo poi è stato difficile fermarci. In più avevamo il miglior giocatore di basket dell'epoca, Hakeem Olajuwon, e noi siamo stati in grado di sfruttarlo al meglio. Non solo: dico sempre che la gente si dimentica quanto fosse bravo Clyde Drexler in quegli anni. È stato votato tra i top 50 per un motivo. Avevamo lui, avevamo Mario [Elie], Kenny [Smith] e il sottoscritto – tutti capaci di segnare da tre. Quella corsa ai playoff è stata un’avventura stupenda, forse una delle migliori di sempre se penso alle squadre che abbiamo dovuto battere per arrivare fino in fondo”. Si può dire che Olajuwon sia ancora in qualche modo sottovalutato, quando si parla dei più grandi di sempre? “Io penso sia molto sottovalutato, per il semplice fatto che non ha mai fatto niente per coltivare la sua immagine pubblica, per promuoversi e farsi conoscere come fanno molti giocatori, o quanto meno il loro staff. Ma se si guarda a quello che è riuscito a fare in campo, credo sia uno dei pochi giocatori - penso siano tre in tutto – a vincere il premio di difensore dell’anno e di MVP NBA nella stessa stagione. Penso che Giannis [Antetokounmpo] ce l’abbia fatta, e Michael Jordan è l'altro. Pensateci. È un risultato enorme. Molti giocatori oggi sono unidimensionali, vogliono giocare solo in attacco. Ma quando hai un giocatore che può dominare su entrambe le estremità del campo, questo lo rende eccezionali”. Forse lo stesso vale per Tim Duncan, un altro suo compagno di squadra, agli Spurs. “Sicuro, anche per Tim Duncan vale lo stesso. I puristi del basket sanno quanto fosse forte Tim, che tipo di fondamentali perfetti avesse e com’era capace di ancorare a sé la propria squadra. È un altro di quei giocatori che non sono interessati a tutto quello che c’è attorno alla pallacanestro, vogliono solo giocare a basket per l’amore e la passione verso questo gioco. Tim ha guidato la sua squadra a cinque titoli, è stato un giocatore fenomenale, proprio come ‘The Dream’”. È il tiro da tre punti la differenza più evidente tra la sua NBA e quella di oggi? “Il tiro da tre punti è sempre più importante, e quando si guarda una partita questo è lampante. Basta vedere giocare i bambini: oggi non fanno altro che penetrare, scaricare e tirare da tre. Il punto alla fine è segnare: il tiro da tre ha sicuramente cambiato il modo in cui si cerca di farlo, spingendo la gente a tirare molto di più da tre. Io dico sempre che tirare da tre è più facile, mentre segnare due punti è più difficile. Ti piacciono le cose facili o preferisci ottenere qualcosa nel modo più duro? Perché lottare è sempre il modo più soddisfacente per ottenere punti e farlo con buone percentuali”. Ovviamente il tuo soprannome parla da sé. Ora però ti chiedo di tornare su un paio dei tiri più famosi della tua carriera. Playoff 2002, finale Western Conference: Kings-Lakers, gara-4… “Se si guarda a quasi ogni grande tiro che ho segnato per i Lakers, c’è sempre un ragazzo di nome Kobe Bryant che palleggia, penetra, attira su di sé la difesa e poi la scarica su di me. Sapevo che mi avrebbe scaricato quel pallone: ma poi ha trovato una linea di penetrazione diretta verso il canestro, ha tirato, sbagliato, poi ha sbagliato pure Shaq, Vlade [Divac] l’ha toccata fuori e a me non è rimasto altro che farmi trovare lì, nel posto giusto, al momento giusto. È davvero strano che Vlade abbia usato la parola ‘fortuna’ parlando di quel canestro. È stata una fortuna che la palla sia finita nella mia direzione, certo, ma poi segnare quel canestro è stato solo questione di talento. Cosa mi passa per la testa in quei momenti? Assolutamente nulla. Quando giochi a basket, non pensi. Perché quando lo fai, di solito combini un casino. Lasci che il gioco accada, tutto è istintivo. Io ero lì che aspettavo che mi arrivasse quel pallone, perché quella è la mia zona di campo preferita, se devo tirare da tre. Se mi dovessero dire: da che parte del campo vorresti tirare per vincere un milione di dollari, sceglierei di tirare da lì, frontale. E quello per noi è stato proprio un tiro da un milione di dollari, perché ci ha spinto verso le finali NBA. Sapevamo benissimo che qualsiasi squadra avesse vinto quella serie avrebbe finito per vincere il titolo, visto il dominio di Lakers e Kings durante la stagione”. Non posso non chiederti di Kobe. Com'era il tuo rapporto con lui dentro e fuori dal campo? Quali sono stati i tuoi pensieri quando hai appreso della sua tragica morte? “Quando ho sentito la notizia, per il modo in cui è morto, la prima reazione è stata: ‘Non è vero. È una fake news’. Poi però accendi la tv, ascolti i notiziari, e lo ripetono su ogni canale. È stato così straziante. Io ho perso un amico, le sue figlie un padre, Vanesse un marito – e loro sono state le più devastate di chiunque altro al mondo. È stata una gioia enorme giocare con lui, perché quando hai qualcuno che ha la passione che aveva lui per il gioco e il suo desiderio di competere ogni giorno, allora sei obbligato a dare il massimo di te stesso. Quello era il fattore motivazionale più forte nel giocare con lui, perché ogni giorno in cui Kobe entrava in campo prendeva il suo impegno molto sul serio. Voleva competere. Voleva migliorare. E l'unico modo in cui diventi davvero più forte è marcando qualcuno che sta cercando a sua volta di migliorare. Kobe è stato uno che ha reso più forte chiunque fosse attorno a lui”. Torniamo a un altro tiro leggendario: finali NBA 2005, Pistons-Spurs. Fai la rimessa, dai palla a Manu Ginobili in angolo, Rasheed Wallace va a raddoppiare, la palla ritorna a te, che segni. Cosa ricordi di quel momento? "Uno si ricorda tutti i suoi momenti migliori – almeno, io li ricordo tutti! La cosa strana è che io quella sera ero caldissimo, segnavo da qualsiasi posizione. E ricordo anche che lo schema che giocammo non era stato disegnato per me: io avrei dovuto semplicemente dar la palla a Manu dalla rimessa e poi togliermi di mezzo. Ma quando il pallone è arrivato a Manu, Rasheed ha abboccato e allora a me non è rimasto altro da fare che segnare uno dei miei tiri preferiti, dall’angolo, anzi dal lato sinistro del campo. È stato davvero strano perché è come se quel pallone che avevo rimesso in campo fosse una specie di magnete, che ha attirato Rasheed come una falena viene attirata da una fiamma. Ricordo di aver pensato: “Ehi, forse si è dimenticato che io stasera non ho ancora sbagliato un tiro in tutto il secondo tempo!”. Mi ha lasciato libero e così ho potuto mandare a bersaglio la tripla". Parliamo ancora degli Spurs: il titolo del 2007 è l’ultimo della tua carriera, ma anche la prima volta che LeBron James raggiunge le finali. Quando l'hai affrontato nel 2007, avevi già capito che giocatore sarebbe diventato? "Se si guarda alla serie prima della sfida contro di noi, quella contro Detroit, lui li ha praticamente battuti da solo. E ricordo che noi pensavamo: 'Oh, oh: questa ragazzo è on fire'. Ma la cosa buona per noi è che avevamo in squadra giocatori come Manu Ginobili, Tim Duncan, Tony Parker, Robert Horry e l’idea era: “Ok, possiamo riuscire a fermarlo”. Avevamo un’ottima organizzazione difensiva, e la difesa è quello che ti fa vincere i titoli. Siamo stati capaci di indirizzarlo nelle zone di campo dove volevamo mandarlo, non gli abbiamo concesso di andare a canestro con facilità e quando c’è un giocatore che sta giocando così bene quello che vuoi fare è farti battere dai suoi compagni, perché quando uno come LeBron si scalda, poi non puoi più fermarlo. Per questo il nostro piano partita è stato quello di provare a contenerlo. Dieci finali NBA, quattro anelli: come giudichi il suo bilancio? "La gente parla spesso dei fallimenti, tra molto virgolette, di LeBron alle Finals, ma guardiamo le cose in faccia: c’erano tante squadre che erano più forti della squadra in cui giocava lui. I Golden State Warriors, i San Antonio Spurs, i Dallas Mavericks: si pensa troppo spesso che avendo un giocatore dominante si possa arrivare a vincere il titolo, ma non funziona così. Il fatto che abbia perso sei delle dieci finali che ha giocato va a mio avviso a suo merito, per essere stato capace di riportare le sue squadre a giocarsi l’anello. Tante squadre non ce la fanno – basta vedere quello che è successo quest’anno: gli infortuni hanno tolto di mezzo i Celtics, Denver non è più tornata alle Finals e la lista può allungarsi ancora". Hai giocato per tre grandi allenatori: Rudy Tomjanovich, Phil Jackson e Gregg Popovich. Similitudini e differenze? "È davvero strano, perché quando provi a trovare delle differenze ti accorgi che in realtà non ce ne sono. Trattano ogni giocatore con grande rispetto e non considerano mai un singolo giocatore più importante della squadra. È quella la chiave più importante. Ogni squadra ha avuto la sua grande superstar: se si pensa a “Dream”, Shaq e poi a Tim, tra i lunghi, nessuno di loro era più importante del Gioco. Lo stesso vale per Clyde [Drexler], Kobe [Byrant], Manu [Ginobili] e Tony [Parker]: nessuno di loro era più importante del tutto. Quello che conta davvero è lo sforzo di squadra e il rispetto verso ogni compagno. Quando questo non succede, la squadra sarà disfunzionale, e non vuoi che questo accada all’interno della tua famiglia, perché vuoi che tutto fili liscio. È questa la chiave più importanti di tutti questi allenatori. L'unica cosa che li separa davvero da tutti gli altri allenatori che non hanno vinto il titolo è che capivano davvero l'importanza di giocare duro in difesa. Questa è la chiave: bisogna difendere. Se non difendi, finisci per sederti vicino a loro, in panchina". Qual è il più grande risultato della tua carriera? "Quello di aver giocato per 16 stagioni, 16 stagioni senza infortuni gravi. È difficile riuscirci. Lo si ritrova anche in quello che è stato capace di fare LeBron: è stato in grado di giocare per tutta la sua carriera senza gravi infortuni. Bisogna essere fortunati. L’altra cosa riguarda la tua voglia di competere: ogni estate vuoi lavorare sul tuo corpo, per prepararlo ad affrontare i rigori di una stagione lunga 82 partite. Oltre ai titoli che ho vinto, oltre a tutti i grandi campioni con cui ho giocato, la cosa di cui sono più orgoglio è il fatto di essere sempre rimasto in forma, senza aver mai subìto grandi infortuni o aver saltato tante partite. Non ho mai fallito l’accesso ai playoff. Non ho mai perso al primo turno. Non ho mai perso in finale NBA: il mio record alle Finals è 7-0. Sono stato fortunato a giocare nelle squadre in cui ho giocato, ma anche loro sono state fortunate ad avere me!".

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Robert Horry: "Io un vincente orgoglioso di esserlo e dei miei big shots"

Mauro Bevacqua