Venti di passione. Piccolo breviario di tutte le gare-7 delle Finals (prima parte)

20 – No’Cers, e non finisce qui Domenica 22 giugno 2025 Oklahoma City Thunder - Indiana Pacers 103-91 Against All Odds, per cantarla – e suonarla – alla Phil Collins. Contro ogni pronostico , appunto. O quasi. Alla vigilia OKC in cinque, massimo in sei, a voler strafare con la melassa iper-ottimistica. E più o meno interessata. Invece, è stata una delle più belle serie degli ultimi anni. Combattutissima , e stra-ben giocata. Da entrambe. Un abisso rispetto allo 'spettacolo' dell’anno prima tra Celtics e Mavericks, che pure, di superstar , ne avevano eccome. La NBA tornata al suo meglio, a difendere come dio del basket comanda, e finalmente affrancatasi da quella sagra del tiro al piccione vista sin troppo e da troppi anni. E anche alla facciazza dei criticoni per i cosiddetti small markets tv USA , l’assenza di Rivalry perlomeno sedimentate e della mancanza di fuoriclasse almeno epocali se non transgenerazionali. Per i Thunder un monumentale Shai Gilgeous-Alexander da quadrupla corona che bolla gara-7 con 29 punti e 12 assist. Per i Pacers 24+13 rullati dal caterpillar Bennedict Mathurin, l’ultimo a chiudere la stalla seppur a buoi già scappati. E unsung hero da 27 punti totali in 22’ nella ripresa-monstre di gara-3: top ogni epoca in finale per un non-titolare. Secchio del latte che poi lui stesso ha scalciato e rovesciato in gara-4 con due liberi sbagliati e altrettanti falli che hanno regalato personali e un possesso-chiave ai Thunder. Come sarebbe finita senza la straziante rottura del tendine di Achille destro di un Tyrese Haliburton da già 9 punti in appena 7’ in campo fino a 5’02” dalla prima sirena, e nonostante quel polpaccio già malconcio?Interrogativo ozioso e capzioso: non lo sapremo mai. Di certo, mai dimenticheremo la difesa dei ragazzi di coach Mark Daigneault e le sue variazioni di spartito (“J-Dub” Williams versione super Robin pippeniano; il giunco perticone Chet Holmgren enigma irrisolvibile col suo elastico dentro/fuori; la classe operaia in paradiso di Luguentz Dort, apologo dell’altruismo più versatile; e last but not least Alex Caruso, uno che a vincere sa come si fa . Idem, sul fronte-Indiana, per le alchimie e le rotazioni “svizzere” del veteranissimo Rick Carlisle nel suo High Flying O . L’attacco ad alto numero di ottani di un futuristico 0.5 Basketball i cui giochi a tre evolvono a cinque, e nel quale – No matter who or what – tutti corrono e tutto fanno: sprint, space, cut, roll, screen, switch. E, specie dagli angoli, risultato spesso letale. I baseball-pass sventagliati no-look da Hali, un quarterback prestato al parquet prima di immolarsi sul gridiron della jella. Il carismatico camerunese Siakam, indomabile re leone seppur un po’ più mansueto alla distanza. Il commovente Andrew Nembhard che s’immola su SGA sino allo sfinimento: alla lettera. Il piccolo grande uomo in missione T.J. McConnell, a questi livelli inspiegabile con la semplice e pura logica razionale. L’evoluzione dello stretch-five Myles Turner, uno che stoppa da centrone e tira da guardietta. L’insospettabile apriscatole Obi Toppin, duttile spaccapartite che ai Knicks s’era solo intravisto e forse neppure immaginato. Aaron Nesmith che per sua fortuna e sfortuna nemmeno lui sa quanto è forte. "No’Cers", perlomeno a ’sto giro. Ma tra quelle due, per dirla con l’immortale Corrado, "eh, oh, non finisce qui". Nossignori. 19 – «Don’t mean a thing without ring…» Domenica 19 giugno 2016 Golden State Warriors - Cleveland Cavaliers 89-93 Ricordate il refrain "…Don’t mean a thing without the ring", sgrammaticato video-tormentone di Scottie Pippen e Ron Harper che accompagnò la postseason dei loro Chicago Bulls 1995-96 dalla miglior regular season di sempre al primo dei due Threepeat spezzati solo dal back-to-back houstoniano? Be’, è niente rispetto al clamoroso ribaltone di vent’anni dopo. Mai una squadra sotto 1-3 nelle Finals era poi diventata campione, figuriamoci riuscire a farlo contro la squadra – i Golden State Warriors – che quel record addirittura l’aveva migliorato: 73-9. Una vittoria in più di quei leggendari Bulls jordaniani. E invece – come nel famoso claim a tre strisce – non solo l’"impossibile is nothing", ma viene pure suggellato da un’istantanea che riassume e immortala un’intera epopea: l’iconica stoppata di LeBron James in rimonta su Andre Iguodala. Versione dadaista riveduta e corretta dell’altrettanto epocale 'The Block' di Tayshaun Prince su Reggie Miller in campo aperto. Solo che là era gara-2 di finale a Est. Qua, gara-7 delle Finals e con una irreale dimostrazione di maestosità quasi ultraterrena. Scusate se è poco. James – al suo terzo MVP delle Finali – la conclude con 27 punti, 11 rimbalzi e altrettanti assist più tre stoppate . Uno e trino, LBJ, con gli ex Lakers Jerry West e James Worthy , in doppia cifra in tre categorie in una partita di finale NBA. Tripla doppia invece solo sfiorata, per Golden State, da un Draymond Green jerrywestiano nel suo losing effort da 32 punti, 15 rimbalzi e 9 assist. Il bello è che per LBJ non era stata neppure alla lontana una delle sue prestazioni più efficienti al tiro: 9/24 in totale e 1/5 dall’arco. Pensate se fosse stato in serata pure in quello. Don’t mean a thing without ring… 18 – La solitudine dei numeri due, tre e quattro Giovedì 20 giugno 2013 Miami Heat - San Antonio Spurs 95-88 Sei anni dopo, LeBron James si prende la rivincita sugli Spurs che gli avevano spezzato i sogni di titolo alla sua prima Finale NBA. Ricordate? Tim Duncan che negli abbracci finali, prefigurando l’ineluttabile passaggio di testimone generazionale, gli vaticina: un giorno questa lega sarà tua. Facile profeta, TD: con una serata da 37 punti e 12 rimbalzi – e 12/23 al tiro, 5/10 da tre e un intonso 8/8 in lunetta – il Prescelto si porta a casa pure il secondo trofeo di MVP delle Finals. Sul nostro personalissimo, tommasiano cartellino però la scena la ruba un Dwayne Wade da 23 e 10. Con un Chris Bosh da virgola alla voce punti, è lui il Robin nel secondo dei tre anelli infilati dagli Heat dei Big Three. Mai stato un supereroe lui, ma buttali via i 18 di Shane Battier in uscita dalla panca. Se non fosse che poi c’è sempre quello là, il Re Sole, a far ombra a tutti. Al di là del bene e del male. 17 – L’una tantum di Kobe Giovedì 17 giugno 2010 Los Angeles Lakers - Boston Celtics 83-79 Kobe Bryant ha giocato solo una gara-7 delle Finals . E che gara-7: 23 punti e 15 rimbalzi per il suo quinto e ultimo titolo. Scontato per ovvie ragioni, non tutte di campo, il suo back-to-back come MVP delle Finali. Quello morale invece spetta a Pau Gasol, e ben al di là dei suoi 19+15. Mentre quello della critica lo ha dato il suo allenatore a chi non ti aspetti, specie in attacco: Ron Artest/Metta World Peace, autore di 20 punti compresa la tripla all’ultimo secondo. I Celtics, in uscita dal timeout lungo, aprono di fatto il quarto allungando sul 6-1 con 4 punti di Glen 'Big Baby' Davis nati da chiamate dubbie, poi tengono i Lakers a quota 14 e lo chiudono sopra di nove. Nel secondo i Lakers ne segnano 11 in fila e sorpassano a +2, poi Rajon Rondo, Kevin Garnett e i due liberi di Paul Pierce riportano avanti Boston, che all’intervallo comanda di sei . Nel terzo quarto i Celtics scattano con un parziale di 9-2, i Lakers riemergono dal -13 . La svolta gialloviola arriva dopo un timeout da 20”, in uscita dal quale Bryant mette il jumper in corsa servito da Lamar Odom. Il controparziale Lakers riduce il gap a -6, ma la tripla di Pierce li ricaccia a -9. Un altro jumper di Kobe, due liberi di Gasol e il super sub Odom riportano Los Angeles a -4 in vista dell’ultimo quarto. La triplona di Derek Fisher impatta a quota-64, poi due liberi e un altro jumper di KB riportano avanti i Lakers per la prima volta dal secondo quarto. Nonostante il suo 6/24 al tiro, 10 dei suoi 23 punti il Black Mamba li segna nel quarto periodo. Perché alla fine è questo che i fuoriclasse fanno: la differenza quando più conta. Nello specifico, pure ai liberi e a rimbalzo: 53-40 per i gialloviola . Ai Celtics non basta un Paul Pierce, cresciuto a Oakland palpitando per i lacustri, da 18+10 . La maledizione dei Lakers in gara-7 contro Boston è finalmente sfatata, seppure non al Garden. 16. L’uragano Tim Giovedì 23 giugno 2005 San Antonio Spurs - Detroit Pistons 81-74 Mancava da 11 anni una G7 alle Finals, l’assenza più lunga nella storia NBA. Ma l’attesa è ben ripagata. Detroit, campione uscente e in scia dopo il fresco 3-3, sente profumo di back-to-back come i Bad Boys originali e punta a diventare la prima squadra di sempre a vincere le ultime due in trasferta dopo esser stata sotto 2-3. I texani, al contrario, contano sul fattore campo per festeggiare all’SBC Center il secondo titolo in tre anni. In più la cabala e gli annali sono dalla loro: 74-17 il bilancio all-time delle gare-7 in casa; e 9-0 arrivandoci dal 3-2. E pure il calindriano logorio della vita moderna vota Spurs: i Pistons hanno già eguagliato il record dei Knicks ’94 per il maggior numero di partite di postseason , primato poi superato di una dalla Boston campione 2008. Questa roba però non va in campo. E là suona un’altra orchestra. Come le ultime due, anche gara-7 è tiratissima. Nel terzo quarto gli Spurs dal -9 a -7’45” con un Tim Duncan finalmente capace di ritrovare buone percentuali contro la durissima frontline detroitiana: TD segna 10 degli ultimi 18 punti dei suoi nella frazione. Il quarto periodo si apre in parità e lo decidono Manu Ginóbili con 11 dei suoi 23 punti e un Duncan da 25 totali . Di là, il top scorer dei suoi è Richard Hamilton . Col terzo trofeo NBA per San Antonio arriva anche il terzo MVP delle Finals per l’ex promessa del nuoto di St. Croix. E mentre Sean Marks è il primo neozelandese a fregiarsi dello scettro NBA, Robert Horry diventa, dopo John Salley , il secondo giocatore di sempre a diventare campione con tre franchigie diverse. Ma per 'Big Shot Rob' non finisce mica qui… . 15. “The Dream” è realtà, ma senza MJ Mercoledì 22 giugno 1994 Houston Rockets - New York Knicks 90-84 È l’unica G7 delle Finals nei 'Nineties', e mica sarà un caso se arriva subito nel sabbatico anno e mezzo di MJ al batti-e-corri. Ci arrivano Houston, riemersa dallo 0-2 al 4-3 coi Suns in semi a Ovest, e – dopo due gare-7 alla morte con Chicago e Indiana , più gara-6 di finale al Summit di Houston – i NYK duri e impuri di coach Pat Riley, convertitosi per realpolitik dallo Showtime angeleno tutto lustrini e campo aperto a gran difesa e botte da orbi attorno all’altro Pat, il totem Ewing. La spunterà, noblesse oblige, il contraltare del giamaicano: Hakeem Olajuwon, la più immarcabile – per movimenti – macchina da post basso vista sul pianeta . "The biggest mistake I ever made" dirà troppo tardi 'The Godfather' Riley, per aver rifiutato a sé medesimo l’offerta che non si poteva rifiutare: sostituire John Starks, fidato scudiero in prolungata lite col canestro, col bollente Rolando Blackman . L’ovvio MVP della serie è proprio Hakeem 'The Dream', ma più ancora dei suoi 25 punti pesano la triplona-chiave al solito poco ortodossa di Kenny 'The Rocket' Smith e i 21 di Vernon 'Mad Max' Maxwell – lo Starks dei texani, però in serata –, compresa la tripla della staffa. Quello sì che coach Rudy Tomjanovich mai avrebbe sostituito. 14 – «Back-to-back, yeah, yeah!» Martedì 21 giugno 1988 Los Angeles Lakers - Detroit Pistons 108-105 James Worthy e Adrian Dantley con 11 punti a testa nel primo quarto tengono a contatto i Lakers, ma poi i Pistons controllano e, dopo due jumper di Isiah Thomas negli ultimi 27”, arrivano all’intervallo avanti 47-52. Isiah – reduce dallo stoico sogno azzoppato di gara-6 persa di un punto, aveva già timbrato dieci punti, nella ripresa giocherà poco e non segnerà più. Chiuderà i suoi 28’ totali con 4/12 da due, 0/1 da tre, 2/2 ai liberi e anche 7 assist, quattro palle recuperate e tre perse. Con quella caviglia così malridotta, sin troppo. Ma niente rispetto al vano sforzo sovrumano di due giorni prima. Nella ripresa Michael Cooper trova quella continuità inseguita sin lì invano per tutta la serie. 'Coop' ne infila alcuni pesanti e sulla scia dei sette punti in fila di Worthy i Lakers si portano avanti 56-54. I Pistons mettono solo un tiro su azione nei primi 6’05” del terzo periodo. Worthy segna altri 11 punti, Byron Scott 14 e i Lakers comandano di 15 il quarto e di 10 prima dell’ultimo atto. Nel quarto periodo, hanno già riallungato a +15 quando dall’altra parte coach Chuck Daly alza la pressione schierando Vinnie Johnson e Joe Dumars nel backcourt e un frontcourt iperfisico con John Salley, Dennis Rodman e Bill Laimbeer. La magata funziona, almeno per un po’. Con un parziale di 13-4 Detroit rimonta fino al 98-92, sancito dai due liberi di Salley con ancora 3’52” da giocare. Dumars, a 1’17” dalla sirena, li porta a -2 . Fallo di Rodman su Magic Johnson, che in lunetta fa uno su due. A 39” dalla fine impazzisce Rodman, che azzarda un jumper non nelle sue corde e regala a L.A. un pallone pesantissimo. "Non so perché [l’ho fatto] – si tormenterà poi affranto 'The Worm' – Non sono uno che si mette a tirare in sospensione. Non so cosa mi sia scattato. Perché non sono solo andato al ferro a tirare giù quel pallone?". Quesito retorico. Sul rimbalzo c’è fallo su Byron Scott, che invece, glaciale, dalla linea della carità non fa beneficenza: 2/2 e Lakers avanti di un possesso pieno, 105-100, a neanche 40” dal secondo titolo consecutivo che in NBA mancava dai Celtics ’69. Dumars, de nuevo tu, in sottomano taglia lo svantaggio a -3. E con 25 punti è il miglior marcatore dei suoi, seguito da Salley e Dantley . Fallo su Worthy, che in lunetta replica l’1/2 di Magic. E chiude in tripla doppia – 36 punti, top scorer della gara, 16 rimbalzi e 10 assist – da strameritato MVP delle Finals. E dire che lui avrebbe votato invece per Magic. La tripla di Laimbeer della disperazione va dentro, Detroit adesso è dietro di una lunghezza, 106-105 con 6” rimasti. Dalla rimessa, A.C. Green in campo aperto segna smarcato in layup il 108-105. Da sotto canestro, baseball pass anche di Laimbeer per Thomas a metà campo, con ancora un secondo per l’ultima preghiera. Isiah finisce a terra scontrandosi con Magic, che si ritrova in mano il pallone e fa ampi cenni che "it’s over". È finita. Partita-serie-titolo. "Back to back, yeah, yeah!", esulterà in favore di camera Magic, grondante champagne – per fortuna ai tempi ancora senza maschere da sub – dopo la seratona da 19 punti e 14 assist più 5 rimbalzi e due recuperi. I Lakers, al loro quinto titolo nel decennio, si confermano campioni. "Adoro il modo in cui abbiamo lottato, sconfitto ma non abbattuto. Rimontare dal -15 contro i campioni. Come fai a non amarli. Non ho parole per questi ragazzi. Avevo dei dubbi, ma questa è una squadra che non molla. E che invece avrebbe avuto tutte le ragioni per farlo". "È stato un incubo fino alla fine" si lascia andare coach Pat Riley. "Continuavo a ripetere: 'Vi prego, non lasciate che finisca con un incubo. Siamo una grande squadra, teniamo duro. Ehi, loro hanno compiuto una delle più grandi rimonte della storia e non hanno niente da rimproverarsi. Noi siamo una grande squadra e ci hanno tenuto lì fino all’ultimo. E se siamo stati capaci di farcela è perché siamo noi, ma ci hanno fatto tirare fuori tutto quel che avevamo". La promessa che il coach stesso già nella parata dell’anno prima aveva "garantito" era stata mantenuta. Stavolta però, e sin dalle interviste post-partita, ci avrebbe pensato capitan Kareem a smarcarsi da Riley, che in cuor suo forse già meditava il copyright per il prossimo incubo: "Threepeat". Non aveva però fatto i conti con il logorio dei suoi e la malickiana rabbia giovane dei Bad Boys. Loro pure affamati di "Back-to-back. Yeah, yeah!". 13 – L’amaro unicum di Magic vs Bird Martedì 12 giugno 1984 Boston Celtics - Los Angeles Lakers 111-102 È l’unica del decennio, e lo compendia al meglio. È, pure, la prima rivincita Magic-Bird che vale un titolo dai tempi della storica finale NCAA 1979. E Larry non è uno che dimentica, e stavolta non serve nemmeno la mistica del Garden. Entrambi vanno in doppia cifra: Bird 20 punti e 12 rimbalzi, Magic 16 e 15. Il biondo li segna con 6/18 su azione e 8/8 ai liberi. Altrettanto importanti se non decisivi Cedric 'Cornbread' Maxwell , Dennis Johnson e un Robert Parish da 14 punti e 16 rimbalzi, categoria nella quale Celtics dominano 52-33. A 8’ dalla sirena, L.A. è a -14. Rientra fino al -3, ma poi Magic viene stoppato da Parish, James Worthy finisce scippato della palla da Bird e lo stesso accade a Magic con D.J. Per Boston, ottava finale su otto vinta sui Lakers. Bird diventa il quarto di sempre ad alzare nella stessa stagione l’MVP di regular season e delle Finals. Le sue medie nella serie parlano da sole. Fra lui e Magic ora è pari e patta: due anelli ciascuno. Non finirà lì, ma tra loro due niente più gare-7. 12 – Una pallottola appuntita Mercoledì, 7 giugno 1978 SuperSonics - Washington Bullets 99-105 Nell’ancora buio Center Coliseum , Kevin Grevey prega. "Non avevo mai vinto niente", racconterà lo swingman ai tempi al terzo anno ai Bullets e nella lega. "Alle superiori avevo perso la finale del campionato statale; al college , da senior, UCLA ci batté alle Final Four. Non mi considero religioso, e non avevo mai chiesto niente prima, ma allora chiesi a Dio per farmi diventare campione, solo quella volta". Prima di gara-7 Wes Unseld, che per tutta la serie ha francescanamente sopportato non solo i propri dolori fisici ma anche gli improperi e le frecciate dei compagni, fa una cosa per lui rara: parla. E lo fa alla Unseld, non proprio con un Discorso del re – ma che va dritto al punto. "Disse solo: 'Voglio sapere chi ha voglia di giocare, stasera. Chi vuole vincerlo [questo titolo]'" ricorderà il suo compagno Bob Dandridge, l’ala titolare. Un discorso che, nella sua semplicità, qualcosa deve aver pur smosso se i Bullets guidano di otto all’intervallo e di undici nel quarto periodo. Per i Sonics l’intera gara è una discesa agli inferi, in particolare per Dennis Johnson, che sbaglia tutti i suoi 14 tiri dal campo e finisce con soli 4 punti dopo aver viaggiato a 19 punti di media nella serie. Gus Williams è appena più preciso, 4/12 su azione, ma per lui pure un paio di palle perse. Rispetto al mediocre rendimento offensivo del backcourt , peraltro decisivo per arrivare in finale, il frontcourt si salva per i 27 punti di Marvin Webster e i 21 di Jack Sikma, gli unici a tenere Seattle in partita. Washington, che in gara-1 aveva gettato via un vantaggio di 19 punti, entra nell’ultimo quarto a +13 , margine poi ridottosi a due lunghezze a 4’ dal termine. Con un parziale di 12-4 , i Sonics si portano sul 98-94 a 1’45” dall’ultima sirena. Lì scatta il gioco da tre punti che decide la serie. Charles Johnson rilascia un jumper che non raggiunge il ferro. Il pallone sfugge al duo Webster & Sikma e rimbalza a terra. Tom Henderson si tuffa, lo devia tra le gambe di Webster, Kupchak lo afferra e va a segnare in layup mentre subisce fallo da Webster, in disperato recupero. Kupchak trasforma il libero e ricaccia a -7 i Sonics nel momento più critico. Brown, che finirà a quota 21, ai liberi fa 1/3, poi, dopo un altro tiro sbagliato da Charles Johnson, segna dai due metri e mezzo. I Sonics devono fare fallo per fermare il cronometro e giocarsi una seppur minima chance di vittoria. Lo commettono su Unseld, che dalla lunetta nei playoff ha tirato col 55% scarso. Sikma sbriga la faccenda, e il tiretto di Wes neppure arriva al ferro. Tutto come prima, a 26” dallo scadere. Brown guida l’attacco dei Sonics e va per il jumper dalla distanza: corto. Paul Silas, 'Papa Bear' per i compagni più giovani e sin lì fermo alla miseria di quattro punti, afferra il rimbalzo e deposita il pallone del 101-99 a -18” dalla resa. Intanto coach Dick Motta strepita chiedendo timeout per togliere Unseld, vittima predestinata dell’altro eventuale fallo che terrebbe in vita i Sonics, ma nessuno lo sente o perlomeno lo ascolta. Rimessa per i Bullets e, in sei secondi, Silas afferra Unseld alle spalle a palla lontana. I 14.008 invasati inveiscono dagli spalti contro il povero Unseld che, sulla lunetta-patibolo, si appresta a eseguire con i liberi la propria esecuzione, appena 14” dopo quei suoi due errori consecutivi. Il primo tiretto prende il ferro e rimbalza fuori. I tifosi di casa ondeggiano striscioni e gridano, se possibile, ancora più forte. Unseld, in serata comunque da 15 punti e 9 rimbalzi più sei assist, guarda la panchina e tira un profondo respiro: stavolta solo rete. Pochi istanti ancora e Dandridge chiude baracca e burattini schiacciando in contropiede il 105-99 finale, mentre in sottofondo – neanche fosse la dickmottiana "fat lady" dell’opera – esplode il ruggito di Frank Herzog, lo speaker radiofonico dei Bullets. Per la franchigia, nata come Chicago Packers nel 1961 e alla quinta stagione nella capitale dopo le dieci a Baltimore , è il primo, storico successo. Traguardo sempre mancato nonostante stelle e stelline quali Walt Bellamy, Archie Clark, Gus Johnson, Jack Marin e il giovane Earl Monroe. Washington è l’ottava franchigia campione in nove anni, e con l’anello si porta via i 150.000 dollari di montepremi. Finalmente può festeggiare anche Elvin Hayes , uscito per falli a 8’05” dalla sirena e quindi, ancora una volta, punzecchiato dai cronisti locali che, a differenza dei tifosi, mai ne hanno amato lo spiccato individualismo per non dire ego. Per loro, 'The Big E' stava più che altro per The Big Enigma. Sin lì, irrisolto e forse irrisolvibile. "Possono dire quel che vogliono", sbotta coccolandosi il trofeo sottobraccio e improvvisando un sorriso non troppo bonario. "Una cosa però dovranno dirla: 'E' è campione del mondo. Indossa l’anello". Dodici anni dopo, Hayes tornerà su quell’ultima trasferta stagionale: "Ricordo il volo per Seattle, e il pensiero andava a tutto ciò che avevamo passato in tutti quegli anni di NBA. Tutto si riduceva a una partita, quella per il titolo, e dopo averla vinta ricordo di aver provato una gioia che sarebbe durata al più 48 ore, una gioia pura, e la sensazione di aver compiuto una grande impresa. Aspettavo quel momento da 16 anni, da quando diventai giocatore. Quel momento era arrivato e fu straordinario". Fuori per falli Hayes, dei 20 punti finali dei Bullets, 18 erano arrivati fra i panchinari Mitch Kupchak e Charles Johnson e i titolari Unseld e Henderson, gran difensore e bravo a pilotare i suoi nel bollente finale. Di questi solo CJ aveva segnato parecchio nei playoff, e anche in gara-7 aveva garantito quel tiro da fuori smarrito con Grevey , fuori nel secondo tempo per dolori al polso sinistro. E poi c’era pur sempre Unseld, unico MVP delle Finals sotto i 10 punti di media nella serie , e totem dell’etica lavorativa se ne esiste uno, che per tutte le finali aveva distrutto – quasi da solo – i Sonics dentro l’area. Straordinario era stato anche coach Motta, festeggiato dai giocatori con una doccia di birra, eventualità non così improbabile se il coach vi era giunto preparato. "Indossai la più vecchia e più̀ brutta giacca sportiva che riuscii a trovare – rivelò – Sapevo che avremmo vinto, e non volevo ritrovarmi una delle mie giacche buone inondata di birra". La giacca si salva, la camicia no: gliela strappano via, svelando così la T-shirt sotto, prodotta da un’azienda di Hyattsville, nel Maryland, e recante la sua celebre frase "The Opera Isn’t Over ’Til The Fat Lady Sings", con tanto di autografo dell’autore. "Sta cantando – grida il buon Dick ormai tutto birrato – Ragazzi, sta cantando!". E avrete già capito chi. 11 – Profondissimo Rosso Domenica 12 maggio 1974 Milwaukee Bucks - Boston Celtics 87-102 I Celtics che tornano in finale non sono più – e da mo’ – quelli dinastici del decennio prima, così il gran mogol Red Auerbach chiama a raccolta i suoi grandi saggi, compreso Bob Cousy, che aveva già smesso da cinque anni di giocare e da uno di allenare . E l’improvvisato ma tutt’altro sprovveduto brain trust, per gara-7 alla Milwaukee Arena, abbandona la single-man coverage su Kareem Abdul-Jabbar per invece raddoppiarlo o triplicargli la marcatura. Alleggerito nel carico difensivo, 'Big Red' Cowens può concentrarsi sull’attacco, dopo il suo pessimo 5/16 di gara-6. E funziona. Già nel solo primo tempo ne mette 8/13 mentre Boston vola al +11 di metà partita. Alla fine, il selvaggio 'Dave the Rave' stilerà a referto 28 punti e 14 rimbalzi, e Celtics a +15. Per Boston è il primo titolo senza Bill Russell, ritiratosi nel 1969. E l’unico con John 'Hondo' Havlicek MVP delle Finals. Anche lontano dai leprecauni del Garden, Boston e gara-7 restano per chiunque una 'mission impossible'.

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Christian Giordano