Il resto Mancias: i segreti del custode del 'tempio LeBron James'

"Eravamo entrambi a inizio carriera. Una sera mi invitò a casa sua per fare stretching, poi è diventata una routine e abbiamo cominciato a fidarci l’uno dell’altro". – Mike Mancias "I trust Mike with my career. I trust with my body. What we’ve learned together is a part of my DNA now – and it’s not going anywhere". – LeBron James Così vicini, così lontani; e complementari in tutto, quei due. Persino nel pre e post show. Stephen Curry e LeBron James insieme sommano ormai tanti anni quanti ne ha la NBA, e da suoi dioscuri ne hanno simboleggiato – e dominato – gli ultimi tre lustri. E da almeno un paio, persino il prima e il dopo le partite. 'Chef' con il suo interminabile rituale pre-gara, fatto di tiri impossibili e scoccati dalle distanze più impensabili , magari accompagnati da simpatiche interazioni con i tifosi. 'The Chosen One' invece con il suo personalissimo 'riscaldamento', ormai una sorta di clinic anti-invecchiamento da vivere in solitaria col suo storico preparatore, mentre tecnici e inservienti -nell’arena ormai quasi vuota – sbaraccano tutto. Con quel sottile e malinconico filo di malinconia di fine festa quando, per capirci, la musica è finita, gli amici se ne vanno. E si resta da soli, o in troppo pochi, a pulire e rassettare. Per apprezzarne nel profondo l’essenza, però, basta avere il tempo, e la pazienza, con l’uno di raggiungere l’arena con largo anticipo, con l’altro di lasciarla con altrettanto abbondante ritardo. La routine della fortuna NBA Christmas Day 2024. Sono le 15,50 locali e al tip-off della 'Partita di Natale', tra Warriors e Lakers al Chase Center di San Francisco, California, mancano ancora 70 minuti. Gli occhi degli astanti però non sono certo rivolti al 'povero' Brandin Podziemski, bellamente ignorato mentre è lì che fa riscaldamento destreggiandosi fra tre palline da tennis. In centinaia invece si concentrano sul suo illustre compagno, incappucciato con la felpa di Golden State e scortato con discrezione, ma senza troppa invadenza, della guardia del corpo personale. A palazzo intanto risuonano le note, più che mai natalizie, di Santa Claus is coming to town nella versione dei Jackson Five. E Steph appoggia su un seggiolino le sue SC verde-fluo per poi allacciarsele. Sta per cominciare l’anteprima del suo personalissimo show. In cinque atti. Atto I: "Confidenza con la palla" Curry sotto canestro palleggia con due palloni alla volta. E fin lì, niente di che. Gli appassionati occasionali magari meno, ma media e addetti ai lavori ci sono abituati. Da almeno un decennio, visto che quella routine risale alla stagione 2014. Eppure, ogni volta ha un che di magico. "La gente capisce di stare assistendo a qualcosa di grande, Mozart che compone musica", spiega convinto il suo coach, Steve Kerr, ancora capace di meravigliarsene. "È il più grande di tutti i tempi, nella sua specialità. Ed è bello vedere all’opera una persona con tali talento e determinazione". In realtà, sono esercizi che Curry eseguiva già nel 2009 da matricola. Solo che allora a guidarlo c’era Stephen Silas, ex assistente agli Hornets , poi a Cleveland , ancora Hornets , Dallas , Houston e dal 2023-24 ai Detroit Pistons . All’epoca però, nello specifico, la manualità di Steph non era quella che ci saremmo poi abituati ad ammirare, diciamo, dal 2014. E cioè da quando agli Warriors, come assistant coach di Steve Kerr per l’area sviluppo giocatori, arrivò Bruce 'Q' Fraser, un ex scout dei Phoenix Suns che di Kerr, all’epoca giemme ai Suns, era già stato compagno ai Wildcats della University of Arizona. Dopo due anni da graduate assistant del compianto coach Lute Olson alla UA, Fraser si era trasferito per tre anni a Hollywood, dove si era occupato di musica e suono per la 20th Century Fox, lavorando fra gli altri a blockbuster quali Mamma ho perso l’aereo e Schindler’s List. Il richiamo del basket però era e sarebbe rimasto troppo forte e così, fra alterne vicende e carriere , là è sempre tornato. Galeotta, per il rientro all’ovile cestistico, la sua visita a un altro ex Arizona, Sean Elliott, ai tempi ancora giocatore NBA ai San Antonio Spurs allenati da Larry Brown. Proprio agli anni del college, risale il nick di Fraser: l’iniziale di 'Question', per la pletora di domande con cui assillava chiunque potesse fornirgli dettagli utili sui temi tecnici più disparati. Atto II: circus shots in serie E comunque oggi come allora subito riconoscibile per quel look total-white/silver, fra capelli e barba incanutiti: perché è lui a passare i palloni a Steph. Nel caso di specie, Natale 2024, sono le 15,54 quando, invece del colletto à la Cantona, Curry si alza il cappuccio. È il segnale: scatenate il paradiso. Prima da sinistra, poi da destra, una sequela di tiri – quasi tutti a segno – con la palla lanciata volutamente molto in alto prima di farla ricadere. Non necessariamente attraverso la retìna, perché non è quello, non lì e ora, il suo scopo primario. "L’ho visto fare anche pessimi riscaldamenti e poi segnare 50 punti in partita", ha commentato anni fa Fraser live su NBA Tv. Ovvio allora rivolgergli la "domanda che sorge spontanea" di lubraniana memoria: a che cosa serva tutto quell’ambaradan, oltre alla indubbia presenza scenica. "A prendere confidenza con la palla", la risposta del nostro. Meno banale e scontata del didascalico quesito. Neanche il tempo di completare la serie di tiri – da dentro l’area, con o senza palleggio, con catch and shoot e/o in stepback – che a interrompergliela provvede LeBron James, l’avversario generazionale, e di serata, che gli si avvicina per abbracciarlo. È, a suo modo, l’istantanea di un’epoca. La loro, e della NBA, oggi più che mai alla disperata ricerca di loro successori anche solo proponibili come tali. Wemby, vedremo. E poi? Atto III: Around the World Per compiere il periplo del suo piccolo mondo antico Curry parte dall’angolo destro e tira dall’arco, da fermo o in movimento, con o senza palleggio, libero o con Fraser a frapporsi tra lui e il canestro. Arrivato al centro, compie un passo indietro su ogni tiro, ripetuto in caso di Gronchi rosa . Proprio per la loro pseudo-unicità quasi più preziosi da immortalare, per gli spettatori, tutti in piedi con gli smartphone puntati per il momento-clou: il tiro dal logo di metà campo. Falliti di un niente i primi due, buono il terzo. Boato, come se avesse segnato un buzzer-beater di playoff. Una scena abituale, pure in trasferta. "Da non credere ai propri occhi, Steph ha tifosi in tutto il mondo. E questo non capita con molti atleti, per i quali si tifa anche sui campi degli avversari", ha raccontato Danny Emerman, beat writer dei Warriors per il Bay Area News Group, a Loïc Pialat, corrispondente freelance da Los Angeles anche de L’Équipe. Atto IV: entrare in modalità-partita Sono le 16:05 quando Steph si alza il pallone all’altezza del viso e mima una finta come per liberarsi da un avversario immaginario. Poi va per la schiacciata, salutata da una bordata di applausi seconda per intensità solo a quella tributatagli per il tiro segnato dal logo di metà campo. Tornato – non solo alla lettera – sulla terra, accenna qualche passo di danza. "Ha il senso dello spettacolo, e il cuore dello showman", ha reso l’idea coach Kerr come meglio non avrebbe potuto. "Col tempo, ha capito che i tifosi vengono anche per guardare la sua routine e vuole ripagarli dei soldi spesi". Un investimento oneroso sì, ma ad alti dividendi e a rischio zero. Atto V: divertire e divertirsi "L’aspetto gioioso fa parte del mio approccio a tutto, nella vita. Quindi mi vedrete sempre sorridere e divertirmi. Se non mi diverto, tanto vale smettere, perché di solito è quando mi diverto che do il meglio di me". In queste parole c’è tutto il Curry-pensiero, una filosofia di vita prima ancora che di gioco che prescinde dal saper infilare – anche da distanze siderali – una palla in un canestro. E quel tipo di leggerezza, tutt’altro che superficiale, si respira, quasi palpabile, sino alle 16.10, quando – esaurita la routine – l’artista esce dal campo per firmare autografi e magliette prima di ritornarvi per la partita, che, a quel punto, pare – pare! – quasi un sottoclou del 'vero' show. Al rientro dagli spogliatoi, quando gli Warriors ancora giocavano alla Oracle Arena di Oakland, il suo ultimo rituale pre-gara consisteva in uno scatto dal tunnel, citazione apocrifa ispirata a Monta Ellis, idolo della Baia dal 2005 al 2012. Piccolo problemino: al Chase Center il tunnel non c’è. E allora, un giorno, la superstar – per completare il riscaldamento e trovare la giusta concentrazione prima di andare in scena – si è rintanato in una stanza vuota, lontano da tutto quel trambusto. "Tranquilli, non vi siete persi niente", aveva poi rassicurato i suiveur più curiosi o maliziosi. Si alzi il sipario. LeBron e l’elisir di lunga vita Per LeBron James invece l’altro rituale, assai meno iconico del suo lancio del gesso prima della palla a due, comincia a sipario calato. Ed è quello l’autentico segreto del suo successo. Una longevità, Kareem Abdul-Jabbar permettendo , senza eguali nella storia NBA. Per assistervi dovete però disporre di qualche ora in più da trascorrere alla Crypto Arena dopo che è squillata l’ultima sirena. Se si è abbastanza fortunati, si potrà assistere a LeBron che, più o meno lontano da occhi indiscreti, salta alternativamente, su un piede solo, su un trampolino. Oppure, bendato, esegue una strana 'coreografia' per far raffreddare in profondità i muscoli degli arti inferiori. Come accade con 'Q' Fraser per Curry, anche con James s’accompagna in quel rituale una figura inseparabile che lo segue come un’ombra: media statura, carnagione scura e fisico tirato come uno Stradivari. È quella di Mike Mancias, molto più che il suo trainer personale, che gli impartisce – urlando – precise istruzioni. Un déjà-vu, quella scena, che non fa notizia per gli inviati NBA, ma non un inedito su scala globale a cinque cerchi. A cominciare dalla sua presenza ai Giochi di Parigi 2024, qualche fila dietro la panchina di Team USA. Mancias infatti era già presente, sempre per i suoi servigi a LeBron, sia a Pechino 2008, sia a Londra 2012. Tre ori per LBJ, ça va sans dire. Le qualifiche ufficiali di Mancias – Chief Human Performance Advisor per James e Athletic Trainer/Athletic Performance Liaison per i Los Angeles Lakers, posizione simile a quella che aveva occupato ai Cleveland Cavaliers e poi ai Miami Heat sempre al seguito di LeBron – non rendono il legame che i due hanno instaurato sin dall’estate 2003, quando il 18enne LBJ conobbe quel Mike giovane stagista alla Summer League dei Cavs. "LeBron neanche lo conoscevo", racconta oggi ridendo Mancias, texano dagli occhi di fuoco di Brownsville, con una laurea alla University of Texas-Pan American e abilitazione certificata a livello nazionale dalla National Athletic Trainers Association. "Ero uno studentello e non potevo certo permettermi l’abbonamento a Sports Illustrated. Volevo solo lavorare nello sport professionistico. Avevo chiamato ogni franchigia che mi veniva in mente. Chicago, perché ero cresciuto con i Bulls di Michael Jordan, ma anche Dallas – sia i Mavericks della NBA, sia i Cowboys della NFL –, San Antonio e Houston, che poi mi offrì il mio primo lavoro estivo. Poi ci fu Cleveland. Tanti miei amici mi dicevano: 'Ehi, lavorerai con la prima scelta assoluta del Draft NBA. Eravamo entrambi agli inizi della carriera. Una sera mi invitò a casa sua per fare un po’ di stretching, poi è diventata una routine e si è sviluppata una certa fiducia. E la cosa va avanti da due decenni". Mancias, ora che non è più uno studentello squattrinato ma un professionista affermato che collabora anche con altre superstar e non solo dello sport , quel rapporto così speciale lo racconta in un libro – con prefazione di… che ve lo diciamo a fare? –, uscito in Italia ad agosto e ora in Francia: Game Plan, scritto con Myatt Murphy. Un 'Piano-partita', anche extra-basket, piuttosto ambizioso e di non facile applicazione: "Il metodo garantito per ottenere il massimo nella vita, nel lavoro e nello sport". E che viaggia sulla falsariga dell’Implacabile di Tim Grover, storico trainer di Michael Jordan prima e di Kobe Bryant. Oltre che, guarda la combinazione, mentore del nostro, che da giovane stagista se ne abbeverò alla fonte. Guru del settore lo è ormai anche Mancias, che a curriculum vanta pure il Nike Desert Classic e per la NBA le Summer League di Atlanta, Boston, Orlando e Las Vegas oltre che il Pre-Draft Camp. Restando al lavoro specifico con James, il metodo di Mancias si suddivide in quattro macroaree: mentale, alimentazione, preparazione fisica e recupero. Seguite secondo tre princìpi-base: 1 - Begin at the Top Si comincia dall’alto, cioè dalla testa. Per Mancias, la mindfulness è un elemento fondamentale della routine di LeBron: "Una componente della longevità è il mantenimento di una mente sana. Deve esserci un ambiente adatto". E in fondo, lo sapevamo già dagli antichi: mens sana in corpore sano. Come riesce quindi LeBron a mantenere la lucidità mentale per rendere al massimo sotto pressione? Superando piccole sfide attraverso la meditazione, e preparandosi ad affrontare poi ostacoli maggiori in campo. 2 - Less Is More Il concetto – espresso in architettura dal tedesco Ludwig Mies van der Rohe – ci riporta subito sulla retta via: James si allena tanto in palestra, ovvio, ma – appunto – meno di quel che si potrebbe pensare. Mancias lo fa concentrare di più sull’efficienza anziché sul volume. In sintesi, più qualità che quantità del lavoro: "Si tratta soprattutto di correggere il 'core', il nucleo centrale, di LeBron. Questa, per anni, è stata la priorità assoluta". Strumenti come il Tonal ottimizzano gli allenamenti, così che ciascuna sessione sia d’impatto. Una strategia che permette a LeBron di mantenere le massime prestazioni senza affaticarne inutilmente il fisico. 3 - Plan Forward Pianificare con largo anticipo, ed eventualmente correggere in corsa, gli allenamenti. "Essere più sani è un dovere verso noi stessi, le nostre famiglie e i nostri figli", filosofeggia Mancias. Neanche lui però avrebbe mai immaginato dove e a cosa avrebbe lo avrebbe portato quel primo incontro con James a Orlando, in Florida. Mancias nemmeno sapeva chi fosse, quella talentuosa promessa, ma ne intuì all’istante le straordinarie potenzialità fisiche. "Era massiccio e ben piazzato, spalle, schiena e gambe proporzionate – ricorda Mike di quella sua prima impressione di LBJ – Entrò da quella porta e pensai: 'Questo ragazzo è speciale'. È ancora alle superiori? A 18-19 anni aveva già un approccio molto professionale". "Certo, LeBron ha un dono, e in parte ha a che fare con la genetica. Ma poi c’è la parte mentale, l’impegno. È lì quattro ore prima di ogni partita. I progressi scientifici nella medicina sportiva sono esponenziali e spiegano anche la capacità di sempre più atleti di durare nel tempo". Questione di feeling "Non lo rividi fino al mio secondo anno in NBA, quando i Cavaliers lo assunsero come assistant trainer – scrive LBJ nella prefazione di 'Game Plan' di quel primo incontro con Mancias – A quell’epoca, ciò che più saltava agli occhi erano il suo atteggiamento e la sua puntualità. Ogni giorno arrivava carico di motivazione ed entusiasmo, pronto a lavorare, proprio come me. Ma, soprattutto, conosceva il valore della longevità. Continuare a giocare il più a lungo possibile è sempre stato parte della mia forma mentis, fin dai tempi della scuola media. Ricordo che quando avevo tredici anni, un amico mi disse di giocare duro e divertirmi, ma senza mai dimenticare di fare stretching". Ed è così che quel sodalizio è poi nato, per fare un po’ di stretching a casa James. "Negli anni, le nostre routine si sono evolute. Non lavoriamo con dei culturisti – precisa Mancias – LeBron non può più lavorare sulla sua forza bruta come nei primi anni, quando doveva ancora affermarsi fino a diventare il migliore nella lega. Il più grande di sempre? Non entro in questo dibattito". Bravo anche a svicolare, il buon Mike, dal suo punto di osservazione privilegiato figlio della diretta conoscenza con il mago degli ultimi tre hors-catègorie del gioco: MJ, KB e LBJ. Prima ancora di ottenere un posto fisso ai Cavaliers nel 2004, la vita professionale di Mancias era cambiata grazie allo stage da Tim Grover. Nel 2001, aveva assistito il personal trainer di Jordan ai Wizards . Convinto della bontà del lavoro fatto, MJ gli vergò una lettera di referenze. In pratica, un passe-partout capace di aprire a Mancias qualsiasi porta nella lega. Il resto ce lo ha messo lui, studiando, evolvendosi, aggiornandosi: trampolino, sauna a infrarossi, crioterapia. Più il tempo passa, più il focus si incentra su recupero e flessibilità, e tanto pilates. "Sapevo che Mike aveva seguito uno stage con Tim Grover, un preparatore di fama internazionale – continua LBJ nella prefazione –, e di come lo avesse assistito nell’affiancare Michael Jordan al rientro . Quando, quell’ottobre, iniziai il training camp, Mike non mi era stato assegnato come trainer. Ma quando vidi come faceva fare il riscaldamento a qualche senatore della squadra, gli chiesi: 'Ehi, posso farlo anch’io?'. Quel giorno fece innervosire i 'pezzi grossi', dedicandosi a me nonostante fossi solo il nuovo arrivato. Capii subito che aveva qualcosa di speciale e andammo d’accordo fin dall’inizio. Io avevo bisogno di qualcuno che sapesse mettermi alla prova e non avesse timore di farlo. Qualcuno con cui potermi sentire a mio agio e che fosse sempre disposto a impegnarsi quando si trattava della mia salute, della mia preparazione e del mio recupero. Ogni giorno, qualunque cosa accadesse, non c’erano scuse. Non sarei mai riuscito a giocare per venti stagioni, senza di lui. Alla lettera, semplicemente non potrei giocare a questo livello senza di lui. È essenziale per il mio gioco, per le mie prestazioni, per tutto ciò che faccio". "Gli ho affidato la mia carriera. Gli ho affidato la mia amicizia. Gli ho affidato il mio corpo. Ciò che abbiamo appreso insieme è ora parte del mio dna, e non andrà mai perduto". Sanno entrambi di essere agli ultimi granelli nella clessidra. Ma niente e nessuno potrà togliere loro il senso dell’impresa compiuta regalando a Cleveland lo storico titolo nel 2016 vinto a gara-7 sui Golden State Warriors di Steph Curry. "È stato l’apice di tredici anni di alzatacce, nottate in bianco e innumerevoli ore di trattamenti-extra – ricorda Mancias – [LeBron] l’ha fatto davvero per l’Ohio. Davvero!". "Non so neanch’io come ci sono arrivato, ma sono grato di avercela fatta", dice il Prescelto. E il segreto dei suoi occhi è il custode del tempio. Letture consigliate Mike Mancias - "Game plan": il metodo garantito per ottenere il massimo nella vita, nel lavoro e nello sport Tim S. Grover - "Implacabile": il metodo del coach di Michael Jordan e Kobe Bryant per vincere quando gli altri si arrendono

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Christian Giordano