Pablo Trincia: "La NBA è come Il Trono di Spade"

“Io sono malatissimo di NBA almeno dal 1991, ormai è una ‘patologia’ che mi porterò fino alla tomba. E sono felice che sia così”. Esordisce così Pablo Trincia a Basket Room Talk chiarendo subito il suo amore per il basket americano. Una passione nata in un momento preciso: “La scintilla fu la finale di quell’anno tra i Chicago Bulls e i Los Angeles Lakers. La ‘malattia’ è partita in quel momento e non si mai fermata. Tutte le mattine seguo sempre lo stesso rituale: apro gli occhi, cerco gli occhiali – che a volte non trovo – e guardo i risultati. Sempre. Tutte le mattine. Sono quei cinque minuti in cui guardo i boxscore delle partite”. L'incontro con Dominique Wilkins Ma oltre allo spettacolo in sé, per innamorarsi così follemente di uno sport è necessario essere colpiti da un protagonista. Un ‘eroe’ da venerare e sostenere: “Io ero pazzo, totalmente pazzo di Dominique Wilkins e lo sono stato per tutto il liceo. Avevo la stanza tappezzata di suoi poster e anche la sua maglietta”. Idoli lontani ma che sentiamo vicini e che a volte – molto raramente – abbiamo la fortuna di incontrare: “Quando nel 1997 la Fortitudo prende Dominique Wilikins, resto folgorato. Nello stesso anno mi iscrivo all’università a Bologna. Arrivo alla stazione – me lo ricordo benissimo – nel settembre del ’97 pronto per cominciare e mentre arrivo a Piazza Maggiore dico ma tu pensa se incontrassi Do…mi…NIQUE… e lui è lì e mi passa davanti proprio in quel momento! Mi fiondo da lui e dico ‘Great fan!’. Lui mi dà questa mano gigantesca e mi dice ‘How are you?’. Per me è stato uno di quei defining moment della vita, quel momento in cui ho incontrato il mio idolo”. Storie da Nba Insieme alla NBA, lo sappiamo, la grande passione di Pablo Trincia sono i racconti. Storie da scoprire, storie da raccontare. Ma anche la stessa NBA è fatta di storie: “Ho cominciato progressivamente a vederla non più solo come fan ma anche come autore. Mi appassionavo alle storie cosiddette minori di giocatori che magari non avevano fatto grandi numeri e che erano un po’ finiti in disgrazia. Sono rimasto molto colpito qualche anno fa dalla storia di Antoine Walker, la stella di Boston che ha vinto con Miami nel 2006 la finale con Dallas. Walker a un certo punto dichiarò di aver sperperato 100 milioni di dollari”. Grandi campioni e grandi cadute, l’eroe arrivato dal nulla che riesce a conquistare tutto. La NBA è tutto questo: “E' bella perché non c’è solo il basket, ma c’è tutto un contorno di storytelling meraviglioso. Sembra un Trono di Spade costante con i due schieramenti, le cose che succedono, gli eroi e gli eroi inaspettati. E intorno c’è anche un mondo fatto anche di figure tragiche. Il tema di questi ragazzi che dal ghetto spesso riescono ad arrivare a questo mondo dorato e poi perdono tutto mi ha sempre colpito molto. Probabilmente dipende dal modo in cui io sono fatto, ma mi piacciono molto i bassifondi. La NBA è fatta di luci, è un olimpo di divinità che guadagnano un sacco di soldi e fanno quello che amano a cui tutti noi guardiamo con ammirazione”. Ma c’è anche chi sembra avere già tutto ma non riesce a diventare grande: “Penso a Bronny James, per esempio. Cresce in casa di uno dei più grandi di sempre e c’è questa operazione tragica per cui lui arriva nella NBA e… non ce la fa. Finisce in G League e non sta andando bene nemmeno lì. Ecco, paradossalmente quella è una grande storia. Avere accesso a Bronny James, poter parlare con lui, capire la sua psicologia. Chissà che pressioni ha avuto. Per quanto non sia fatta di povertà e ghetto questa è una storia che colpisce e angoscia molto”. Umanità in miniatura Grandi star ma anche grandi squadre. Il singolo e il collettivo. La NBA può esaltare il campione ma anche il gioco di squadra. Chi la segue può affezionarsi a un giocatore ma anche a una franchigia: “Jokic secondo me incarna il basket. Vedere quel tipo di gioco di squadra, quel tipo di intelligenza in campo mi fa amare molto Denver. Unbellissimo gruppo: Aaron Gordon, Jamal Murray... Ho un po' 'adottato' i Nuggets. Poi simpatizzo per Dallas perché mi piace Luka Doncic. In ogni caso, ogni anno scelgo un underdog, una squadra nuova che non ha mai vinto, una squadra che hanno una bella storia. Basket a parte, sono le storie ad appassionarti”. Perché in NBA sport e storie si intrecciano. Il parquet è il palco dove tutto può succedere: “Lo sport incarna i sogni e le speranze. Lo sport è lo spettacolo della vita. Non sai mai cosa potrà accadere, c’è sempre la sorpresa, c’è sempre qualcosa di inaspettato e poi c’è la voglia di eccellere, di inseguire un sogno. Ci sono la caduta, la gioia e la delusione e c’è anche il dolore. È una umanità in miniatura. Ci sono i grandi campioni e i gesti di grande umanità. È come avere una piccola palla di vetro, dentro ci vedi un po’ tutti noi”. Europa e America E quando diciamo ‘tutto’, intendiamo davvero tutto: “In America hanno un sistema democratico a livello sportivo. Abbiamo visto Milwaukee vincere dopo 50 anni, Denver non aveva mai vinto ed è riuscita a vincere, Miami è andata in finale due volte, Dallas è arrivata in finale e nessuno se l’aspettava. Non c’è mai un dominio di quell’oligarchia di squadre come invece accade in Europa. A me lo sport in Europa non fa impazzire proprio perché mi annoia. È sempre così da decenni, si gioca sulla vetta, in America c’è la sorpresa. Noi non abbiamo quello sguardo, lo sguardo che hanno gli americani”. Il ‘tutto’ comprende anche la possibilità che un bambino cresciuto venendo calzini per le strade della sua città diventi il giocatore più forte della stagione: “Quando Giannis ha vinto il titolo e si è messo lì seduto con la testa tra le mani non ho visto Antetokounmpo, ho visto un ragazzino che vendeva i calzini con la mamma per strada ad Atene vincere il titolo NBA. Loro hanno questa capacità che da noi non c’è di trasformare qualsiasi cosa in una grande storia, in una grande epica. È proprio qualcosa di tipicamente americano. Lo sport è centrale, nella società americana. Il miracolo di Castel di Sangro è venuto a raccontarlo un americano. Noi non abbiamo quello sguardo”. Sport e storie sono talmente intrecciati in NBA che oggi gli stessi giocatori sono diventati narratori: “Adesso soprattutto sui social si è sviluppata moltissima aneddotica da parte dei giocatori e tutto questo rappresenta un arricchimento. È bello sentire la voce degli sportivi, è bello che siano presenti e che non siano solo raccontati, è bello che siano a loro volta narratori”. Da eroi raccontati ad aedi: è la nuova evoluzione dei campioni della NBA, che regala una nuova prospettiva agli appassionati. Ma senza perdere la propria anima. Sport e storie, sempre insieme. Sempre in NBA.