Imane Khelif, una tempesta nel bicchiere

Di Imane Khelif, fino a poche ore fa, ignoravamo l’esistenza. Diventa perciò importante, prima di parlarne, stabilire un minimo sindacale di contestualizzazione. La venticinquenne algerina è un’atleta importante. Già nel 2018 combatteva nei mondiali di Nuova Delhi, e nel 2021 si piazzava quinta alle Olimpiadi di Tokyo. Argento ai mondiali 2022 di Istanbul, è assurta agli “onori” delle cronache solo nel marzo del 2023. Dopo aver superato in semifinale la tailandese Suwannapheng Janjaem, infatti, Khelif si vide negare la partecipazione alla finale mondiale dalla International Boxing Association per quelli che vennero definiti “livelli anomali di testosterone”. I media algerini, supportati da un’ondata social di indignazione, sostennero la tesi della cospirazione organizzata dal Marocco, che con Khadija El Mardi si aggiudicò l’oro in una manifestazione boicottata da 17 paesi per la partecipazione degli atleti russi e bielorussi. Dopo quell’esclusione, Khelif disse a Ennahar TV che qualcuno “non voleva che l’Algeria vincesse una medaglia d’oro” e che di fronte a una cospirazione di questo livello “non sarebbe stata zitta”. Perché Iman Khelif, che abbiamo lasciato come asserita vittima del complotto marocchino, entra in questa discussione? Se siamo mediamente onesti, perché le sue fattezze richiamano lineamenti che la nostra educazione e secoli di canoni estetici riconducono a un modello più maschile che femminile. E perché la sua figura rimanda a temi che l’agenda politica, a partire dal confronto per le presidenziali USA, tiene al centro. Su questa fragile “base”, occhio alla tempesta di virgolette, si è scatenato un “dibattito” che ha innescato una “tempesta mediatica”. Una tempesta che, proprio come i temporali olimpici parigini, avrà una durata inversamente proporzionale all’intensità e alla fedeltà ai fatti. Per esempio, si continua a definire transgender una persona che transgender non è . Il caso è assimilabile a quello di Caster Semenya, che dopo essere stata esclusa dalla World Athletics ha vinto la causa presso la CEDU nel 2023, senza però poter tornare a gareggiare. Il CIO, nel 2021, ha stilato criteri di eleggibilità per atlete trans e intersex cercando di contemperare equità, inclusione e non-discriminazione. La politica, e quando uso questa definizione la intendo sempre e comunque nella sua totalità, non ha appulcrato verbo nel 2021. È la stessa politica che, quando il Cio chiede indipendenza e autonomia con metodi e strumenti assai discutibili, abbassa la testa. Ora, all’improvviso e per qualche ora, tutti si “dividono” su un ottavo di finale che avrà più copertura del Thrilla in Manila. Chi ha studiato l’argomento, come Silvia Camporesi, sa quali e quante insidie nasconda. Sa che è una questione, di non facile risoluzione, che terrà banco per decenni. Siamo di fronte a molteplici e contrastanti istanze ed esigenze, tutte legittime: l’auto-determinazione, il diritto alla salute, quello alla non-discriminazione, l’equità, l’uguaglianza. Bioeticisti, giuristi, medici, psicologi, sociologi e dirigenti sportivi potrebbero dirvi quali e quante sfaccettature questo problema abbia. Il loro e il nostro peccato capitale è quello di non esserci messi a un tavolo almeno trent’anni fa, quando già si andava verso un mondo diverso. “Discussioni” del genere sono solo un impietoso avviso dello scadimento del circuito sport-politica-informazione, sempre più incapace di sfuggire alle proprie degenerazioni. Sono abbastanza certo che le previsioni del tempo avessero messo in conto questa tempesta . In questa successione di eventi riscontriamo infatti elementi familiari: le storie di sport ormai sono solo o “belle” o “brutte” . In mezzo non c’è alcunché, con buona pace di Aristotele, che identificava la virtù nella medietà tra il vizio dell’eccesso e quello del difetto. Qui, poi, c’è la questione del “politicamente corretto”, un’espressione vuota che ha sostituito, ahinoi, la politica e la pars construens dell’ideologia. Sarebbe importante capire quando siamo diventati così, ma purtroppo non abbiamo neppure più il tempo per chiedercelo.