La personalità di uno sportivo

La "personalità" di uno sportivo, per convenzione, è quella di chi si prende una responsabilità pesante in un momento importante e supera l’ostacolo che ha scelto coraggiosamente di affrontare. Certo, chi mette l’ultima stoccata, infila l’ultimo tiro o supera l’asticella al terzo tentativo ha coraggio e sa gestire la pressione. Vedendo però in campo Novak Djokovic, sul tatami Teddy Riner, in pedana Simone Biles o sul parquet LeBron James, si capisce che la vera personalità è un’altra cosa. È una sicurezza non arrogante, che leva convinzione a molti avversari . È un’aura che coinvolge chi guarda, dividendo l’atleta dagli altri, con tutto ciò che ne consegue . Qualcuno potrebbe obiettare che questo tratto dipende anche, se non soprattutto, dalla narrazione che di quell’atleta viene fatta. Vero, ma nel 2024, in un contesto di comunicazione così spinto, questo è un tratto necessario se vuoi vincere. Non si tratta di “raccontarla”, ma di curare meticolosamente tutti gli aspetti della prestazione. Djokovic, Riner, Biles e James non vincono sempre. Quando perdono, però, lo fanno contro avversari che hanno una personalità comparabile alla loro. Chi non arriva al loro livello di durezza mentale, con loro, di chance ne ha poche. Un esempio di chi a oggi non ha questa personalità è Joel Embiid. Il centro dei 76ers è forse “il più forte”, se quest’espressione avesse anche solo un briciolo di senso. Nessuno, tranne Nikola Jokic, ha una sintesi tra corpo e tecnica paragonabile. Eppure, un paio di flash del suo torneo fanno capire quanta strada debba ancora fare. Flash 1: contro la Serbia, in una partita giocata oggettivamente malissimo, il camerunense si mette in evidenza per un fallo duro a gioco fermo contro Avramovic. Un fallo simile, per gratuità, ad altri che aveva fatto in preparazione. Se sei Djokovic, puoi anche fare il cattivo a comando e guadagnarci. Se non lo sei, del cattivo ti rimane solo la carica negativa. E infatti, da lì in poi, il nostro ha giocato anche peggio. Flash 2: Embiid, raccontano Boris Diaw e i dirigenti francesi, aveva assicurato ai Bleus che avrebbe giocato con loro le Olimpiadi se i francesi gli avessero procurato un passaporto. Il preteso “voltafaccia”, gli assicura per queste due settimane i fischi degli spettatori transalpini appena tocca la palla. Trovo la cosa detestabile e risibile, per mille motivi. Se però dopo aver segnato un canestro ti volti verso il pubblico con gestualità derisoria, legittimi questa dinamica. E perdi anche un po’ di diritto a lamentarti. Ancora una volta: se sei Djokovic, quei fischi ti fanno comodo e li puoi perfino cercare; se sei Embiid, per ora, lascerei perdere. Che si tratti di Imane Khelif, della cerimonia inaugurale, della pulizia delle acque della Senna o degli arbitraggi, lo schema della “polemica olimpica” è fisso. Si parte da due posizioni inconciliabili, che si danno battaglia a suon di argomenti decontestualizzati, partendo da ricostruzioni fattuali diametralmente opposte. Strategie propagandistiche di dubbio valore e smaccate tecniche di manipolazione di fatti e circostanze completano il dubbio quadro. Il tutto, come se dalla “vittoria” in una disputa di questo le istituzioni sportive e gli atleti non possono, su temi delicati e articolati, esprimersi con comunicati e post, che vengono poi vivisezionati da media e pubblico, la cui vivisezione viene a propria volta sottoposta a contro-critica da istituzioni sportive e atleti. Questa è la Fiera dell’Est di Branduardi o la Torre di Babele, e la conseguenza è uno scoraggiante scadimento del dibattito pubblico. Possibile che non ci si possa fermare, cercare di capire le ragioni degli altri e sviluppare un confronto serio? Possibile che non siamo più capaci di andare oltre emotainment, bufere social e guerre di religione?

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