Breve storia dei 100 metri alle Olimpiadi

Tutto è cambiato. Le scarpe, le piste, i cronometri. A prendere il tempo la prima volta c’era un solo giudice, un britannico, si chiamava Charles Perry e poco prima aveva pure tracciato le corsie. Una celebre foto dei 100 metri di Atene è arrivata fino a noi. Per molto tempo si è pensato che fosse la testimonianza della finale vinta da Thomas Burke in 12 secondi. Un ortopedico statunitense fissato per la storia dello sport avrebbe invece scoperto molti anni più tardi che in realtà si tratta dello scatto di una delle eliminatorie, ma la sostanza non cambia. Da Thomas Burke a Marcell Jacobs, il fremito è lo stesso, te ne stai raccolto su te stesso, metti le mani con le dita larghe davanti, un ginocchio posato a terra e aspetti solo lo sparo. Bam, e dopo è tutto, e dopo è vita. Burke era uno specialista dei 400 metri, vinse ad Atene anche i 100 perché mancavano velocisti forti come Bernie Wefers o l’inglese Charles Bradley. Veniva da Boston, studiò legge, fece l'avvocato, fu il promotore della maratona che tuttora si corre nella sua città. Anche i problemi che incontrano i 100 metri non sono poi così cambiati. La falsa partenza, per esempio. Sono mutate le sanzioni. Nel 1904 non scattava la squalifica, Nate Cartmell e William Hogensen vinsero l’argento e il bronzo partendo penalizzati di due yard sulla linea. Rimontarono. Invece Moulton no, e fu quarto. Reggie Walker, oro nel 1908, fu invece sul punto di non partire, nel senso di non partire da casa, il suo Sudafrica. Non aveva soldi a sufficienza per raggiungere Londra, un giornale fece una colletta, lui tornò con il titolo a 19 anni e 128 giorni, il primo oro dei 100 metri andato fuori dall’America. Anche a Stoccolma nel 1912 le false partenze furono un problema, secondo le fonti da sei a otto nella sola finale. Chi non riuscì a partire quella volta fu Howard Drew, si era stirato in semifinale, forse per scarso riscaldamento: lo avevano rinchiuso in una cabina prima della gara, qualcuno disse inavvertitamente, qualcuno sostiene sia stato un episodio di discriminazione. Charles Paddock fu la medaglia d’oro del 1920, la prima dopo la sospensione per la guerra. Era solito tagliare il traguardo con un saltello e, poverino, morirà nella seconda guerra, durante una missione in Alaska. E le donne? De Coubertin era stato attraversato dai miti degli dei e degli eroi, ma dalle dee e dalle eroine non si era lasciato contagiare. Pensava che fosse indegno veder correre una donna. Le tenne fuori fino agli altri Giochi di Parigi compresi, gli ultimi che toccò a lui presiedere. Per vedere i primi 100 metri femminili alle Olimpiadi fu necessaria una battaglia femminista contro il Cio, condotta a colpi di aut aut minacciosi da Alice Milliat. Nel 1928 finalmente ci arrivammo. Per una straordinaria coincidenza era lo stesso anno di una donna in volo su un Fokker, di una donna premiata al cinema con l’Oscar, della legge elettorale che consentiva alle cittadine britanniche di votare anche sotto i 30 anni e senza distinzioni di censo. Betty Robinson, di Riverdale, Illinois, 17 anni, studentessa della Thornton Township High School: è il nome della prima donna più veloce del mondo. Era stata scoperta dall’insegnante di scienze, che un giorno l’aveva vista correre per prendere il treno dopo la scuola. Poi le Olimpiadi cominciarono a scoprire che si poteva piombare sul traguardo spalla a spalla, e allora cavolo, chi ha vinto? Nel 1932 a Los Angeles arrivò il fotofinish, meno male, perché altrimenti nessuno avrebbe saputo stabilire a chi dare l’oro e a chi l’argento fra Eddie Tolan e Ralph Metcalfe. Ma oggi nessun museo conserva quella documentazione. Non ce n’è traccia. Il giudice capo Otto Misangyi, un ungherese, si portò a casa le registrazioni e andarono distrutte durante la seconda guerra mondiale. Prima che il mondo andasse in fiamme, i 100 metri di Berlino ‘36 avevano costruito la leggenda di Jesse Owens sotto gli occhi di Hitler in tribuna, e pure il primo vincitore dopo la pace è legato a lui: Harrison Dillard fu primo al traguardo nel ‘48 dicendo di essersi ispirato a Owens. Era riuscito a farsi regalare anche un paio di scarpe. Ci sono vite che bruciano in 10 secondi, altre che bruciano delle vittorie per un niente. Nel 1952 Dean Smith perse per 32 centimetri. Era un campione di rodei, sarebbe diventato una delle controfigure più richieste al cinema nei western, una volta lo fu pure di Robert Redford. Nel 1960 a Roma il tedesco Armin Hary interruppe l’egemonia americana che durava dal 1932. Era il figlio di un minatore della Saar, di lui si diceva che avesse una partenza troppo bella per essere vera. Partiva sul filo dei millesimi. Sarebbe diventato il primo uomo da 10 netti nella storia: ci sono storici dell’atletica che raccontano di un suo accordo con lo starter a Zurigo. Jim Hines nel ‘68 fu il primo campione olimpico di un’atletica che stava uscendo dalla confusione tra tempi manuali e tempi elettrici, avrebbe poi avuto un contratto dai Dolphins per il campionato di football, solo che una volta i ladri furono più veloci di lui e gli rubarono le medaglie. La più surreale delle finali resta quella del ‘72 in Germania. Senza due dei favoriti, Eddie Hart e Rey Robinson, che avevano battuto entrambi il record mondiale ai Trials. Il pasticcio c’era stato nelle batterie. Succede che Hart, Robinson e il terzo americano Robert Taylor escono dal Villaggio e vanno a prendere la navetta, convinti che la partenza sia fissata alle 18.15. Hanno un vecchio programma, non sanno che è cambiato. Mentre aspettano il pullmino, sbirciano da una tv le immagini dei velocisti che si stanno riscaldando allo stadio. Chiedono se si tratta di un vecchio replay. Ma quale replay, sono immagini in diretta. La ABC allora gli dà una mano, corrono allo stadio, Hart e Robinson non fanno in tempo a spogliarsi, Taylor si salva perché è previsto nella terza batteria. In finale sarà argento. Gli ultimi quarant’anni dello sprint sono quelli segnati dai boicottaggi e dal doping. Il 1984 apre la stagione della grandezza di Carl Lewis, la corsa del 1988 smaschera l’imbroglio di Ben Johnson. Il mondo intanto si sta allargando. Nel 1992 il namibiano Fredericks è il primo africano a salire sul podio, figlio di un minatore diventato ingegnere. Quattro anni più tardi tocca a un canadese, Donovan Bailey, diplomato in economia, un broker che aveva aperto una ditta import-export di abbigliamento. E poi arrivano le prime volte sul podio di Barbados, del Portogallo, addirittura della nostra piccola Italia, che vive l’onore di avere in Marcell Jacobs il primo successore sul trono di Usain Bolt. Rispetto ai giorni di Burke e di De Coubertin, adesso succede tutto più in fretta, come nelle nostre piccole cose di ogni giorno. Correre 100 metri in 10 secondi non ti porta da nessuna parte, nemmeno più in finale, ma si parte come sempre col ginocchio a terra, si arriva come sempre con il petto in fuori, e come sempre noi ce ne stiamo là incantati, con gli occhi fissi a bruciare tutto in poco più di un attimo. Bang, e dopo è tutto, e dopo è vita.

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