Basket a 5 cerchi

La reductio ad unum, ci ricorda la Treccani, è un "processo di interpretazione che riconduce fenomeni diversi a un unico principio esplicativo". Di reductio ad unum soffre l’intera narrazione olimpica, a dispetto dei numerosi filoni di interesse che il mastodontico programma offre. Il principio non è stato disatteso, e come poteva esserlo, dal torneo di basket. Scegliete voi se l’unum è Team USA, la Serbia della semifinale, Steph Curry o LeBron James, ma il concetto è chiaro. Invece, se ci fermiamo un attimo, possiamo allargare i ragionamenti. Per esempio, possiamo esercitare il libero arbitrio e rifiutare il malinteso concetto di giudizio universale attribuito ai Giochi Olimpici. 12 squadre, tre partite che eliminano solo un quarto delle partecipanti e poi tre partite secche, in sei giorni. Stupendo, divertentissimo, emozionante. Attendibile, però, anche no. Trarre da un frullatore del genere qualcosa di definitivo è un atteggiamento molto trendy ma ben poco rigoroso. Diverso è dire che questa è una parata del meglio che ci sia al mondo, nella quale l’alto voltaggio emotivo dei turni a eliminazione diretta aiuta a godere di partite che non hanno l’intensità fisica, per dirne una, di NBA Finals o Final Four di Eurolega. Una delle conseguenze, ad esempio, è che con il minor numero di liberi che ne deriva le gare scorrono meglio per i fruitori occasionali. Per vincere bisogna avere identità, una cosa che è difficile avere dopo 9 mesi di lavoro, figuriamoci dopo 5 settimane. La Germania dei Mondiali del 2023 aveva un’identità chiara, quella di Parigi l’ha persa sul più bello, anche perché la volatilità di Schroeder e la tetragonia alla leadership del divino Franz Wagner non si sono sposate bene. Gli Usa quell’identità l’hanno mostrata fin dal primo giorno, anche perché tetragoni alla leadership LeBron e Steph non saranno mai. Non è un caso che in squadre del genere i Carmelo Anthony ieri, i Durant oggi e i Booker domani diano il meglio del meglio, già che gli viene chiesto “solo” di usare il devastante valore cestistico in senso stretto. Per questo non si può dare per scontata la durezza mentale dei due nativi di Akron, senza la quale la rimonta con la Serbia non sarebbe mai stata possibile. E senza la quale non sarebbe mai stato possibile gestire i panchinamenti di Haliburton, Tatum e compagnia. Guai però a ridurre l’Olimpiade di James e Curry a un’agiografia a senso unico: il secondo tempo contro la Francia contiene anche quelle pause alle quali le due superstar non sfuggono quando si gioca ad agosto, con regole diverse e contro avversari non sempre ben conosciuti. Certi passaggi, fin dal 2-10 in avvio della prima gara olimpica a Lille, sono stati irritanti per la loro superficialità. Vedere De Colo essere un fattore in finale dice che non a tutti i possessi difensivi è stato riservato lo stesso grado di concentrazione. Eppure, proprio dalla difesa sono venute le cose più belle da vedere di questa squadra. Certe gestioni del mismatch di Derrick White e Holiday, certi 1 contro 1 per mandare messaggi di James, la tostaggine di Adebayo e altri dettagli sono stati gemme, a dispetto di quelle pause. Non dovevo aspettare semifinali e finali per sapere che il resto del mondo è cresciuto, confrontandosi all’interno del pianeta Nba con gli inventori del gioco. Nelle prossime competizioni, Usa e resto del mondo si spartiranno le vittorie, ma la leadership globale degli Stati Uniti, dalla quantità e qualità media dei giocatori al ruolo economico trainante, è un fatto, non scalfito dalle non-vittorie di Team Usa del passato e del futuro. Anche se le foto sono il trionfo della deprecabile reductio ad unum, è proprio una foto a riassumere il senso finale dei Giochi. Non parlo di quella di Curry e Wembanyama ma di quella che ritrae Silver, Bach, Zagklis e Infantino. Il futuro, probabilmente, è in quella foto, che ci parla di convergenze tra modello Nba, modello europeo e modello olimpico. Sono rose, credo, e fioriranno.