Mamma, che Olimpiade!

Io ad Allegra e Niccolò farei riascoltare le parole di Benedetta Pilato dopo il quarto posto sfuggito per 1 centesimo di secondo nei 100 rana durante la prima finale olimpica della sua carriera. "È il giorno più bello della mia vita. Sono troppo contenta, un anno fa non ero neppure in grado di farla questa gara, c'ho provato dal primo metro, peccato!". Questa frase non ci dice che Benny è felice di aver perso, ci dice che si può essere felici senza essere i primi, senza essere i migliori. Perché si guarda al proprio percorso, a come e quanto si è lavorato. Allo sforzo, alla conquista del raggiungere qualcosa che sembrava impossibile e vederlo come un nuovo inizio. Il professor Sandro Marenco ha scritto al ministro Giuseppe Valditara con il suggerimento di creare la Medaglia ad honorem della Scuola 'Bisogna saper perdere'. Perché, dice il prof, "Noi crediamo che la scuola abbia il dovere di insegnare ai giovani a vincere, ma anche a saper perdere. Tante persone, per l'ansia da prestazione e la paura di sbagliare, abbandonano la scuola. Potrebbe quindi essere una medaglia contro la dispersione. Ma anche contro il bullismo, perché tanti ragazzi non accettano di non vincere, di non riuscire, perché non hanno gli strumenti. E così riversano le frustrazioni su chi a loro dire sarebbe più debole. La Medaglia della Scuola, pertanto, sarebbe un inno a essere sempre la versione migliore di sé stessi. Ministro, spero che lei ci possa ascoltare e dare anche supporto". Sarebbe bello che quelle parole di Benedetta, ma anche quelle del tennista Andrea Vavassori oppure quelle della fiorettista e portabandiera Arianna Errigo, venissero ascoltate da alunni, genitori, insegnanti e allenatori. Non sono una persona migliore o peggiore perché vinco o non vinco l’oro, non sono un bambino migliore o peggiore se il mio voto è o non è un 10. Perché conta il percorso. Allegra l’ultimo giorno di scuola mi ha chiesto se come regalo per la pagella potesse avere una penna a forma di ape, perché "secondo me, mamma, ho tutti avanzato (voto che danno alle elementari nella scala di giudizio: insufficiente/sufficiente/intermedio/ avanzato". Le ho chiesto: "Hai dato sempre il massimo? Sei stata sempre la miglior versione di te stessa?". Mi ha risposto di sì, che ci ha provato sempre, che si è sempre impegnata, anche se a volte ha chiacchierato un po' troppo "perché avevo un sacco di cose da raccontare alle mie amiche". Un'altra volta non ha finito un disegno perché aveva la mano "che era stanca morta" e ha fatto una ruota in corridoio anche se non si poteva. Siamo andate in cartoleria e abbiamo preso la penna ape. Senza vedere la pagella. "Gambatte", mettetecela tutta, come dicono in Giappone quando c’è un esame, una gara, un test importante da superare. Gambaru in giapponese significa 'impegnarsi', 'dare il meglio di sé' e 'sforzarsi'. Lo si declina in un imperativo che porta coraggio o in un plurale che abbraccia e, per l’impegno che serve racimolare quando sorge un impedimento, si traduce generalmente con 'forza!' oppure, nelle situazioni in cui volontà e casualità ci pare si mescolino, con 'in bocca al lupo'. Per i giapponesi è in queste circostanze che si concentra il fulcro di una persona, nella sua capacità di far fronte all’esistenza: anche dinanzi a una prova, è il verbo gambaru che calibra l’impegno con l’attesa, che esprime il senso di una fatalità non invasiva. Lo sforzo rimane sempre protagonista. Grande o piccolo che sia, e chiunque può dare il proprio contributo. "Secondo lo Zen, — scriveva Okakura Tenshin — nel sistema di rapporti tra le cose non esiste differenza fra grande e piccolo; un atomo ha in sé le stesse possibilità dell’universo". Gambatte, e grazie Benny!

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